Disarmo, la comune convenienza

Come troppo spesso ci è accaduto guardiamo dai margini, dalla periferia, dall’invisibilità, una piazza che si riempie litigando (begando sarebbe più appropriato) intono alla chiamata confusa di un patriarca gentile (come l’avrebbe definito Lidia Menapace) a cui si accrocchiano altri illustri della confusa e sfrangiata sinistra.

Non ci saremo e non perché non si sentiamo europee ma perché pensiamo ancora che la convocazione di una piazza possa arrivare solo dopo la discussione e l’elaborazione di una piattaforma chiara, di un patto tra soggetti che si mettono insieme per agire, dove la piazza è solo la prima manifestazione, appunto, di un piano d’azione.

Non ci saremo perché ci sentiamo cittadine del mondo e l’appartenenza a una lingua una cultura un territorio è percorso di vita non identità corazzata.

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Ora che troppi bambini e bambine di Gaza sono stati uccisi

BALLATA SENZA MUSICA PER IL BAMBINO DI GAZA (2014)
 
So che ricordi i bambini di Gaza
nei letti bianchi dell’ospedale
in attesa di morire
Era un pomeriggio d’agosto del 2014
ma non conta l’anno
contano i bambini
che sono bambini in tutto il mondo
bambini e bambine per la verità
– e sappiamo che per le bambine va anche peggio –
ma quello che ricordo è un bambino
e sono certa che anche tu ricordi
quel bambino
e i bambini e le bambine di Gaza
nell’ospedale di Gerusalemme
un pomeriggio d’agosto
in attesa di guarire
in attesa di morire
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Luisa Morgantini da Nablus (Palestina)

Non c’è più tempo, attiviamoci!

Diffondo il messaggio di Luisa Morgantini da Nablus, Palestina.
Sono andata in Palestina nel 2008 e nel 2014, c’era la guerra a Gaza e la persecuzione attraverso l’apartheid in Cisgiordania.
Le intenzioni del governo e dell’esercito israeliano erano chiarissime e i nostri governi europei complici.
 

Tra 8 marzo e dintorni

Tra polemiche e anatemi cerco uno spazio non armato.
Sono una femminista iscritta all’UDI.
Non so se sono rimasta indietro, essendo vecchia so che avanti e indietro, alto e basso, sono metafore gerarchizzanti e inadeguate a dire la vita umana tra nascita e morte, quanto alle idee ho imparato da Maria Michetti dell’UDI che in politica non conta l’età ma ciò che pensi.
Cercherò di elencare ciò che penso in forma schematica.
1.     Mi auguro che dal 9 marzo voltiamo pagina e ci dedichiamo al modo di costringere il nostro paese alla smilitarizzazione. Prima di tutto meno armi. Mi auguro che le fabbriche di armi entrino in crisi, che i lavoratori e le lavoratrici di queste fabbriche boicottino la produzione e che il paese intero li aiuti a transitare verso altri lavori e i proprietari a dismettere la produzione. L’unico modo è che il governo non le acquisti e il parlamento voti un taglio consistente al finanziamento militare.
2.     In Italia vivono circa due milioni di lavoratrici domestiche che puliscono case e assistono persone. Se hanno figli e figlie non possono tenerli con sé, non hanno una casa propria e non hanno un reddito adeguato. Finché non vedrò queste donne in testa ai cortei dell’8 marzo continuerò a pensare che abbiamo ancora moltissimo da fare e se non le pensiamo non siamo credibili.
3.     Come donna vorrei muovermi per una cittadinanza non familista, non ereditaria, non proprietaria. Mi vergogno delle leggi razziste di questo paese e del disprezzo collettivo per chi nasce e cresce, del degrado classista dell’istruzione, della sanità discriminatoria, della miopia con cui i governi pensano la popolazione. Il capitalismo non è dato in natura, passerà, ma con stragi e dolore. Perché?
Da giovane contestavo le donne dell’emancipazione perché affermavo la liberazione. Oggi penso che le donne uscite dall’esperienza politica della Resistenza al nazifascismo, le donne antifasciste, hanno conquistato molti pezzi di cittadinanza sognando una repubblica democratica sociale e magari socialista, molte hanno saputo ascoltare se stesse e noi scoprendosi e dichiarandosi femministe.
La mia generazione, noi del femminismo, noi variamente femministe, abbiamo occupato qualche nicchia e al massimo raggiunto oneste carriere mentre l’emancipazione si deformava in parità imitativa e subalterna. Qualcuna ha dichiarato solennemente che il patriarcato era morto e forse si è sbagliata perché nell’esaltazione della vittoria molte cose si sono perdute. La metafora non è più utilizzabile e le strutture patriarcali appena cancellate dalle leggi (mai riformulate davvero per comprenderci) si riproducono con nuova materia solidificante (e molte donne arruolate in cambio di privilegi o asservite per necessità e inconsapevolezza).
Esiste comunque un dialogo femminista pacifista e globale tra donne, è la nostra forza, non lasciamo che si disperda.
4.     Negli anni ’90 se non pronunciavi le parole magiche: autorità, madre simbolica, disparità, genealogia, non eri considerata femminista. L’Udi era considerata un’associazione vecchia anche se in molte eravamo giovani.
Avendo rinunciato alle giaculatorie cattoliche da giovane non ero incline ad acquisirne di nuove ma ho continuato a confrontarmi con tutte le donne che incontravo (libri compresi) perché ho sempre pensato che il cammino di liberazione dai dispositivi del patriarcato consci e inconsci, sociali e istituzionali si fa insieme ed è una lunga strada o non è liberazione.
Lidia Menapace scriveva nel lontano 1991: (…) le forme della libertà non sono meno numerose che quelle del molteplice in cui siamo immerse: non esiste libertà femminile se non vi sono molte moltissime, forse tutte le donne libere. E siamo ancora lontane. Per questo risulta politicamente alienante un messaggio che può far credere che la pronuncia della libertà sia la libertà.
5.     Oggi mi dicono che se non mi dichiaro trasfemminista sono omofobica e transfobica. Continuo a pensare che sia il percorso di vita, le scelte che abbiamo fatto, i posizionamenti concreti nei luoghi in cui viviamo a dire chi siamo e la qualità umana dei nostri comportamenti. Sono le vicinanze reali, i percorsi e le parole a dire chi siamo. Il dichiarato o esibito non sempre coincidono con l’agito ed è l’agire ad esprimere davvero posizioni, convinzioni, ricerca.
Perché modificare la parola Femminismo quando le richieste sono di tipo liberale/liberista? Perché non Transliberismo? Comunque, definitevi come volete ma se mi giudicate arretrata significa che non lottate con me, vi esponete contro di me, per cancellarmi, svalutarmi, ridicolizzarmi come vecchia rimbambita. Ci hanno già provato, gli stessi che dichiarate di combattere. So che sarà duro e difficile resistere ma sono certa di non desistere.
6.     Non mi faccio ridurre a un asterisco dopo aver lottato per esistere come donna e cerco di esistere come la donna che sono, non un’immagine stereotipata, che sia disegnata dal mercato o perfino dal femminismo, di cui mi sento attivista ormai da sempre.
Il dichiarato non è sempre l’agito e non muta magicamente il vissuto. Non abbiamo un corpo, siamo corpo.
Vengo emarginata e lasciata indietro? Pazienza, ci sono abituata, mi è accaduto in molti luoghi, nelle relazioni femministe, da parte di femministe e perfino nell’UDI. Non insulto, non dichiaro guerre nemmeno simboliche, non sgomito per avere la testa del corteo. Vado avanti, guardo avanti senza finzioni, senza enfasi, senza cedimenti. Non tutti i giorni sono uguali ovviamente ma è la vita, ragazze.
Nella marginalità mi sono trovata spesso in ottima compagnia: è un territorio immenso rispetto alla centralità. Un territorio dove le cose accadono.
7.     Non so perché l’UDI abbia passato sui social una comunicazione, la lettera aperta di alcune donne, senza specificare: accogliamo e trasmettiamo che significa semplicemente: non censuriamo un’occasione di dibattito. Quando mi è stato chiesto personalmente, da una delle firmatarie, di diffonderla, mi sono arrabbiata per il metodo perché penso che il metodo sia perfino più importante del merito, cioè del contenuto. Per me conta la lealtà nelle relazioni tra donne e sono le scelte ad esprimere la credibilità.
Il movimento delle donne ha conquistato pezzi di cittadinanza con l’impegno e il coraggio di mettersi insieme prima di tutto a discutere e si discute cercando di convincere l’altra, non lanciando anatemi dall’una e dall’altra parte.
Il metodo usato dalle firmatarie non mi convince e non è il mio, ma la lettera è parte del dibattito. Le argomentazioni sono interessanti e alcune condivisibili ma la credibilità politica è altra cosa e si costruisce diversamente, secondo me.
8.     Le mie posizioni sono pubbliche, perciò non le ripeto qui (anche se sono disponibile a discuterle ovunque mi si chieda) perché non sono un soggetto assoggettabile a uno schieramento, operazione propria delle scelte di guerra che dichiarano un nemico e lo vogliono annientare. Si comincia con chiedere l’abiura delle parole e sappiamo come finisce.
Alla fine degli anni ’70 l’autoreferenzialità spesso distruttiva dei collettivi femministi, che si sarebbero sciolti in tempi brevi, mi ha fatto scegliere l’UDI e ci resto ancora, come semplice iscritta perché spero che continui ad essere un luogo in cui ho il piacere di discutere con chi non la pensa come me, che non è mia amica e magari non mi sta nemmeno simpatica. Inventare le pratiche di democrazia a partire dall’esperienza viva delle donne è la visione che ancora mi affascina e su cui lavoro. Una strada da scoprire, una strada da costruire. Ci sono donne più giovani che mi aiutano ad esserci quando i cedimenti dell’età mi chiuderebbero in casa. Insieme discutiamo, ci arrabbiamo, ridiamo. A loro va la mia gratitudine. Io le guardo e le vedo, loro mi guardano e mi vedono. Questo è il femminismo.
Come femminista sono stata in un partito e ne sono uscita, mi sono candidata per ruoli istituzionali, ho partecipato ai Pride come a seminari con associazioni, cercando alleanze contro cancellazioni, censure, discriminazioni per diritti e liberà che smontassero l’ordine familista e capitalista che oggi rilancia il patriarcato mimetizzandolo nella modernità stucchevole dell’esibizione.
Quest’anno le Responsabili nazionali dell’UDI mi hanno chiesto di scrivere il documento per l’8 marzo che coincide con l’ottantesimo dell’associazione, così come mi avevano chiesto di far parte del gruppo che ha preparato il calendario 2025.
Ho accettato e, a quanto mi risulta, è l’espressione ufficiale dell’UDI per l’8 marzo.
Perché nessuna lo prende in considerazione?
La mia non è una domanda ingenua, conosco abbastanza il mondo e le donne, ma non è nemmeno un’interrogazione retorica.
Mi suscita qualche diffidenza chi stabilisce cos’è l’8 marzo senza discuterlo anche con altre. Mi suscita diffidenza anche se si tratta di giovani, anche se sono tante, anche se riempiono le piazze.
Non dimentico che nel 1911 le giovani colte e brillanti, l’avanguardia del movimento femminista, si dichiararono favorevoli alla guerra di Libia, convinte che il pacifismo era una posizione da vecchie, che le vecchie erano rimaste indietro e loro erano il nuovo che avanzava. Il movimento femminista si spaccò e sappiamo com’è andata.
Perché nessuna ricorda mai che l’8 marzo è stato inventato dalle donne dell’UDI uscite da una guerra spaventosa lottando per la libertà di tutte e tutti?
Perché nessuna ricorda che a lungo la mimosa fu considerata un fiore sovversivo con le conseguenze persecutorie che la storia documenta?
Oggi l’8 marzo è una data che tutte le donne conoscono, intorno alla quale si posizionano in modi differenti cercando la propria strada. Nessuna donna dell’UDI ha mai voluto affermare la proprietà della data, del corteo, delle iniziative o di altro.
L’abbiamo affermata e diffusa per la liberazione di tutte.
Magari il riconoscimento sarebbe politicamente significativo ma un riconoscimento non si può chiedere, è il gesto che autonomamente una donna libera testimonia a un’altra donna, tante donne alle tante donne che sono venute prima, alle antenate che occupavano le piazze ancora precluse alle donne. Non erano tutte le donne, erano le donne che hanno lottato per tutte.
So che i toni sono diventati sempre più aspri da alcuni anni ma possiamo abbassarli. Si tratta di scelte. Che cosa vogliamo davvero? Anche nell’UDI che cosa vogliamo? Qualche volta ripassare la storia potrebbe servire, non per immortalarla ma per vedere di più, per vedere quello che non abbiamo visto, per non essere subalterne a un dibattito mentre potremmo definire un’agenda di priorità.
Per ora abbiamo perso tutte. Guardiamoci intorno.
Rosangela Pesenti

 

Pensieri di capodanno con auguri

Le relazioni non sono come giardini condivisi a cui basta la cura di una persona perché ne goda anche l’altra.
Le relazioni non sono contatti, non sono funzioni governate da algoritmi, immaginette da esibire. Non sono elenchi. Le relazioni non si possono accumulare, non danno rendita né profitto e se sono numerabili o classificabili diventano perdita.
Le relazioni sono lo spazio immateriale che si fa luogo da abitare, insieme. Solo insieme. Possiamo abitare molti luoghi ma non migliaia o milioni, i numeri non fanno relazioni.
La relazione è uno spazio che appare misteriosamente tra persone, si fa tangibile, reale quando c’è presenza anche a distanza. Una stanza che esiste solo se si condivide la manutenzione e chiede cure delicate e discrete, indulgenti e sollecite.
Uno spazio di compassione per la comune condizione che sappiamo senza bisogno di nominarla, uno spazio che sa vedere le lacrime non versate e ci soccorre di risate.
In una relazione l’altra ti ricorda chi sei quando ti sembra di perderti, ti chiede perché sa che puoi dare.
Una relazione può fiorire improvvisa ma cresce lentamente e la ricetta per coltivarla non è mai sicura, c’è sempre un ingrediente da trovare, qualcosa di nuovo da gustare. Ci vuole tempo per trovarle il nome ed è tanto più provvisorio quanto più si fa sicura. Il nome è un indicatore d’uso sociale come l’etichetta sul campanello di casa.
Le relazioni quando finiscono perdono il nome, come nei traslochi.
E le parole non bastano, occorrono le voci e le voci chiedono vicinanza. Le relazioni hanno bisogno di silenzi vicini, di sguardi, sorrisi, mani. Di camminare insieme, almeno per qualche tratto, almeno per qualche stanza.
Hanno bisogno di momenti da poter ricordare, di cose conosciute e sorprese. Le attese sono il piacere visionario che ci sostiene.

Auguri

Lidia Menapace nel centenario della nascita: LA POLITICA COME SCIENZA DELLA VITA QUOTIDIANA

  • Testo integrale dell’intervento svolto a Padova il 7 novembre e a Napoli il 29 novembre 2024

Mi perdo. Ogni volta che qualcuno mi chiede di scrivere o parlare di Lidia mi perdo per intere giornate nelle sue carte, nelle mail che ci siamo scambiate, nei suoi libri. E faccio fatica a trovare il filo di parole che stia dentro la misura data. Mi sono resa conto che non posso ancora parlare di lei, sono troppo vicina, e non dico “sono stata” perché, come accade con le persone care, lei è ancora presente nella mia vita, non sono ancora riuscita a collocarla nella distanza necessaria per l’elaborazione, mi parla ancora.
Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, nel lontano 1987, ho sempre utilizzato i suoi testi, le sue proposte, le sue intuizioni teoriche per leggere il mondo e agire, non solo nei luoghi abitati per lavoro o per politica, ma nella mia stessa vita. Per questo mi atterrò ai suoi testi, scritti intorno al nucleo teorico che è stato il fuoco della sua politica. Fuoco nel senso di focolare intorno al quale si costituisce e riproduce la vita.
Non racconterò di lei o di noi ma voglio ricordare con le sue parole il pensiero di fondo su cui si è sviluppato il nostro rapporto umano e politico (umano perché politico), dentro quella sorta di dichiarazione di posizionamento nelle relazioni tra donne che enuncia nel 1991 a proposito di “ordine simbolico della madre”[1]. Un tema molto di moda in quegli anni in cui ci si interrogava molto sui caratteri delle relazioni tra donne, il cui esito politico sul momento fu una grande produzione di veti, steccati, rigidità, litigiosità, interdizioni, separazioni, probabilmente anche per una malintesa opzione di fedeltà che forse non era richiesta in quei termini.
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Materiali di approfondimento per Parole disarmanti. Scrittrici contro la guerra. 26 settembre 2024

Se Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace del 1905, ha potuto essere rimossa dalla memoria, non meraviglia che una sorte analoga sia toccata ad altre donne che prima o contemporaneamente a lei contribuirono alla nascita e alla diffusione del movimento pacifista.
Mirella Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale, BFS Ed., 2008

Ciò che sarebbe più terribile per il futuro del socialismo sarebbe vedere i partiti operai dei diversi paesi decisi adottare la teoria e la pratica borghesi secondo le quali sarebbe del tutto normale ed inevitabile che i proletari delle differenti nazioni si scannino a vicenda durante la guerra, per ordine delle loro classi dominanti, per poi dopo la guerra di nuovo scambiarsi, come se niente fosse, abbracci fraterni. (…)
Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di “patria”, di “civiltà”, “libertà”, “diritto dei popoli” e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli, rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo.
Rosa Luxemburg, Alla Redazione del Labour Leader a Londra, Berlino dicembre 1914, in Lettere contro la guerra, Prospettive Edizioni, Roma, 2004

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Meloni: familista, non femminista

Meloni ha reso femminile la politica? Mi sembra un’affermazione esagerata e fuorviante.

Meloni non mi sembra femminista, è familista.

Per la figlia non vuole diritti ma privilegi, visto che progetta di farla crescere in un mondo in cui le differenze sociali si strutturano per nascita e si perpetuano per genealogie ereditarie (anche non di sangue se torna utile).

Le politiche razziste nei confronti di donne e uomini migranti, bambine e bambini italiani ridotti ad essere “stranieri in patria”, unite all’orientamento sessista nei confronti dei diritti delle donne (impedimenti all’aborto, pro-life nei consultori e ospedali, bonus ridicoli, tagli vari ai servizi e la lista sarebbe lunghissima) hanno avuto un’accelerazione.

Accelerazione del peggio contro un lungo percorso costellato di lotte perché nessun governo, dall’unità d’Italia ad oggi, ha “spontaneamente” operato a favore delle donne così come nessun parlamento ha varato leggi per la piena cittadinanza femminile senza la fatica di un impegno politico costante e diffuso da parte delle nostre associazioni e del più generale movimento i cui eventi fondanti e determinanti ancora non si studiano a scuola.

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Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
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