Un altro mondo è possibile e ricomincia ogni giorno dalle nostre vite. Non è importante una voce ma migliaia di voci e un ascolto diffuso, la tenacia di un passaparola che può sorprendere, che non può essere fermato.
Un clic può sfuggire al nostro controllo e infilarci nel mercato social-influencer ma, lo stesso clic, può farci scegliere la voce da ascoltare, il libro da leggere, la testimonianza da capire, l’insegnamento di cui abbiamo bisogno, la traccia quasi invisibile da seguire, la marginalità rilevante, il pertugio da cui passare, il cuneo che farà traballare ciò che sembrava incrollabile.
Le gabbie hanno chiavi che possono aprirle, i pensieri possono essere ripensati, i convincimenti cambiati, le ferite ricucite, il dolore ascoltato, il danno riparato.
Chi vince raramente muta convinzioni e ci sono danni irreparabili, ferite mortali, dolori che annientano.
In questi vent’anni abbiamo assistito impotenti alle morti in mare di donne e uomini, bambini e bambine, all’ingresso di minori con i piedi piagati che entrano dal confine orientale e si perdono nel colabrodo europeo. Donne e uomini che hanno incontrato la morte per lavoro o per aver buttato la vita sull’iniqua bilancia della speranza non ritornano a vivere.
Le vittime in mare sono immagini che scorrono nel sottofondo delle coscienze, come lo sfruttamento del lavoro. Non ne sono colpevole ma certamente responsabile come cittadina di questo paese.
Si è ricostituita una feroce scala sociale e la salvezza, qui dove vivo, è stare aggrappati al proprio gradino perché facilmente si può scendere e guardare la moltitudine che vive negli inferi dà la vertigine.
Le piccole storie rivelano, così come un minuscolo frattale riproduce il tutto.
Perché ricordare e che cosa ricordare? Per chi ricordare? Giovani nate e nati vent’anni fa cominciano a fare la loro parte per il futuro: da che parte stanno?
Non vedrò la loro vecchiaia, quanto renderanno muta la mia? Guardo la vita con lucida compassione.
Eravamo una moltitudine a Genova, per qualcuno la memoria è compatta e chiara, per qualcuno è frammento incuneato tra i ricordi archiviati nella vita, qualcuno ha parole chiare e condivisibili da proporre, come allora e rese veritiere più di allora.
Dal 5 giugno, quando mi è arrivata la richiesta di Monica, scrivo ogni mattina e poi arriva il pensiero che interrompe il flusso, stacca la connessione.
Di solito funziono bene sul compito: un titolo, una richiesta accendono le parole e scrivo, il resto è noioso e doveroso lavoro di rifinitura che dura raramente e al massimo un paio di giorni.
In quasi due mesi ho riempito fogli, a mano e al computer, ma non è nato un testo. Ci ho messo meno tempo a scrivere il mio ultimo romanzo e rivederlo per la pubblicazione.
Non mi è mai accaduto da quando ho imparato a scrivere più di sessant’anni fa, non so cosa significhi ma qualcosa deve pur significare.
Mi arrendo ai frammenti e mi affido al limite prescritto. Avere e segnare un limite è possibilità di riconoscersi dentro la realtà dello spazio.
Il testo, qualsiasi testo, nasce dentro un contesto fatto di persone, relazioni, risorse, verità e inganni, misura e manipolazione.
Solo il contesto può rivelare l’autenticità di una voce ed è il contesto che oggi viene omesso, manipolato, deformato nell’esibizione dell’immagine, nella costruzione dell’immagine.
Mi capita di spiegare a giovani ventenni stupite che l’intimità esibita è finzione e se non c’è consenso è la violenza di una prevaricazione che oggi è reato.
Ciò che sentiamo e viviamo dentro un’esperienza non è mai completamente narrabile in nessuna forma o linguaggio se non con approssimazioni di cui va misurata l’autenticità e nei contesti sociali il senso collettivo.
La materialità del corpo a corpo con il testo non è mai completamente riducibile all’immaterialità del messaggio.
Vent’anni fa misuravamo la credibilità di corpo in corpo, oggi sembra che l’esibizione imponga le narrazioni vincenti i cui circuiti mi sfuggono.
Se sto scrivendo e il mio non è un urlo di dolore e protesta (quelli che non riescono comunque a bucare il muro di gomma della distrazione) significa che godo di alcuni privilegi.
Significa che sono parte di un mondo benestante il cui impatto sul pianeta è devastante e su questo posso fare pochissimo perché la storia non si cambia e sul futuro la mia possibilità di influenza è praticamente nulla.
Se mi penso dentro la moltitudine e cerco le tracce in un territorio più vasto di quello che camminano i miei piedi e fin dove arriva il mio sguardo allora sento che le questioni poste vent’anni fa sono ineludibili dai governi e già entrate nelle pratiche di vite alternative o anche solo guidate da diffuse consapevolezze.
Come decorticare i discorsi per arrivare alla polpa della parola che sia davvero nutriente?
L’anniversario è anche rito e costruzione retorica, ricostruzione narrativa e quindi parola che traduce e rielabora il vissuto. Ometto il vissuto diventato memoria. Uso le parole con amorevole diffidenza.
La quantità di libri, articoli, podcast, video è certamente legittima e auspicabile in una democrazia ancora molto incompiuta, ma esorbita da qualsiasi umana individuale capacità di lettura e ascolto, quindi propone implicitamente una gara delle narrazioni e riproduce, persino involontariamente, la struttura del mercato culturale dove, noi lo sappiamo bene, le logiche della possibilità sono feroci e ricostituiscono le condizioni di accesso e sfruttamento che denunciamo. Qual è il nostro bacino di mercato culturale? Qual è la possibilità di trasmissione di comportamenti diversi?
Mi capita di leggere pillole di un ribellismo vacuo e astorico che mette parole eversive dentro le strutture di un conformismo così stringente da rendere i buoni propositi il cemento di condizioni contrarie alle finalità dichiarate. La buonafede non assolve.
I notiziari ci informano del già accaduto alimentando l’impotenza reale o percepita, che è lo stesso sul piano dell’agire. Fanno notizia i licenziamenti collettivi e spudorati, è invisibile lo stillicidio delle perdite: di lavoro, vita, tempo, pezzi di sé, il degrado delle condizioni quotidiane, la ferocia delle gerarchie ricostituite sull’asservimento e l’omertà.
Nel 2001 noi donne a PuntoG vedevamo “il mondo che verrà” e avevamo ragione su tutto, fornivamo ragioni di tutto. Oggi viviamo in quel mondo e ci misuriamo prima di tutto con un cambiamento climatico fisicamente insostenibile, con un virus globale più indecifrabile dei flussi internazionali delle ricchezze multinazionali.
Nel 2001 e ancora nel 2011, insieme a Lidia Menapace mettevo al centro della riflessione i processi riproduttivi del mondo, nei quali le donne sono fattore fondamentale, nel bene e nel male.
Spiegavo, a chi voleva ascoltare, la centralità dell’economia della riproduzione resa invisibile dal meccanismo di sfruttamento capitalista e dal neoliberismo che avanzava alla conquista del vivente negli aspetti della riproduzione biologica, domestica, sociale e culturale non solo con la galoppante mortificazione e degrado di scuola sanità e servizi nella forma aziendale, ma nella capitalizzazione egemone della comunicazione e quindi delle strutture materiali e simboliche di formazione del pensiero agente.
Tutto il vivente, compresi i corpi, la salute e la riproduzione, immessi nella legge del mercato, nella manipolazione che ha fatto del mercato la misura anche della scienza e della ricerca.
La formazione scolastica che narra di guerre ed eroi continua a dare forma al pensiero nel quale al massimo vengono immesse le eroine, accanto ai grandi uomini le grandi donne così come socialmente viene esaltata la carriera e disprezzato il lavoro.
Comincia a emergere il femminile nella lingua, ancora ostacolato da chi lo considera irrilevante o banale, oscurato con qualche supponenza da chi considera più inclusivi il segno senza suono dell’asterisco o quello elusivo della scevà.
I ricchi hanno già messo al riparo figlie e figli in scuole prestigiose che assicurano un futuro desiderabile ma respiriamo la stessa aria e la guerra per le risorse che hanno cominciato non potrà essere vinta dai loro eredi.
Le loro eredi, le ragazze, le donne, faranno la differenza? Apriranno strade in cui gli uomini sceglieranno di camminare?
Oggi sembra poco diffusa la consapevolezza dei dispositivi di riproduzione dei comportamenti aggressivi, violenti, discriminatori, di quell’humus culturale che possiamo definire fascismo anche quando non lo esprime come riferimento ideologico.
I dispositivi riproduttivi operano dentro le strutture affettive come nelle istituzioni, disegnano l’esercizio del potere e le possibilità ma talvolta ciò che è invisibile ai potenti può diventare l’imprevisto della storia.
Le donne hanno dimostrato che sanno fare tutto quello che fanno gli uomini, alcune perfino meglio, ma, come disse in quegli anni a una mia alunna Lidia Menapace, anche le scemate.
“Vuoi lottare contro la pena di morte o per aprire anche alle donne la carriera di boia?”, con la sua straordinaria sintesi aveva posto un’intera classe davanti alla differenza tra parità omologante e femminismo.
Nel 2001 le donne comparivano in qualche riquadro nei manuali di storia e spesso in modo sciatto e impreciso. Oggi è più o meno lo stesso.
Le ragazze sono più brave, si diplomano e laureano con voti più alti ma se guardiamo ai risultati sociali sembrano più inconsapevoli della generazione delle operaie sindacalizzate, delle insegnanti impegnate per la scuola cooperativa e democratica.
Forse stanno solo fermandosi collettivamente un momento per prendere la rincorsa?
Il 2011 è l’anno della grande manifestazione Senonoraquando. Donne che chiamano tutta la società civile, una mobilitazione enorme, pacifica, intensa, diffusa in centinaia di piazze italiane.
Anche questo evento sparisce dalle cronologie dei patriarchi gentili, come li definiva Lidia Menapace.
Nel 2011 a giugno, nel decennale di PuntoG, eravamo moltissime e moltissime autorevoli, non solo le relatrici al convegno. Ometto bellissimi ricordi che mi emozionano ancora.
Nel 2001, e ancora nel 2011, usavamo la parola femminista senza aggettivi e distinguo perché nel movimento delle donne non eravamo tutte femministe ma cercavamo di muoverci insieme a tante.
I titoli accademici non erano ancora così importanti e capitava di essere invitate per la concretezza di pensiero e azione non per competenze certificate.
Nel 2001 per la laurea non erano ancora state riesumate le cerimonie con parentela amicizie confetti rossi e quell’orrendo alloro il cui significato ambiguo e sessista è evidentemente ignorato da chi vanta la foto con frontespizio di tesi in bella vista.
Giovani e meno giovani, femmine e maschi, contestavano ancora l’esibizione del successo e restava qualche residuo di rispetto per il lavoro tutto.
Molte e molti pensavano che la sinistra istituzionale esistesse ancora, proprio a Genova hanno capito che si era dissolta da tempo e le istituzioni potevano presentare la faccia violenta e fascista spudoratamente senza vergogna.
Nel 2001 denunciavamo una politica che si piegava verso il personalismo, il capetto con carisma artificiosamente mediatico che sarebbe arrivato fino al sovranismo, nuovo nome del vecchio nazionalismo orrendamente sperimentato nelle pratiche coloniali e imperialiste nei secoli della cosiddetta Età moderna fino al fascismo e al nazismo nel cuore di un’Europa che si professava culla della più alta civiltà.
Ora quella politica è da anni tradotta nella deformazione legale delle istituzioni che ha eroso le forme democratiche nella scuola, nella sanità, nella pubblica amministrazione, mortificando e impedendo la possibilità di fare esperienza concreta di democrazia, che è l’unico modo per impararla.
Nella richiesta delle pari opportunità l’accento è quasi sempre sulle carriere, per le altre si riesumano regalie e tutele.
In questi vent’anni sono diventate pienamente adulte e sono alle soglie della vecchiaia generazioni politiche che hanno inventato l’orrendo termine meritocrazia che, insieme a sovranismo, disegna un mondo di competizione iniqua e mura armate a difesa del privilegio. La parola uguaglianza è sparita dal linguaggio giovanile.
I dispositivi identitari e gerarchici, competitivi e aggressivi, precocemente interiorizzati, generano mutazioni antropologiche, che mettono barriere alla reciproca comprensione, mentre le mani sono catturate in digitazioni compulsive che favoriscono l’esibizione a scapito della riflessione.
Quando l’istituzione esercita la violenza non è detto che riesca a legittimare le proprie ragioni nell’opinione pubblica ma certamente riesce a delegittimare la voce, la presenza, l’esistenza politica di chi ha subito quella violenza.
A Genova eravamo una moltitudine, tornando a casa, disperse e dispersi dentro l’altra moltitudine indifferente che è la nostra quotidiana prossimità, abbiamo cominciato a scontare la solitudine e l’isolamento.
Eppure non ho smesso di essere un’attivista perché penso che la consapevolezza non può essere rabbiosa lamentazione o solo continuo presidio di protesta. La visione del futuro, che non potrò vedere, ha bisogno di continuo creativo ripensamento e di noi attive, per quel che possiamo, fino alla fine.
Genova del 2001 è un evento che ne ricalca altri: non sono uguali ma hanno una continuità nelle scelte e nelle emozioni per chi agisce violenza, per chi resiste alla violenza, per chi pratica nonviolenza.
La destra ha preso più spazio nelle istituzioni anche grazie al voto democratico limitato, mortificato, deviato dalle riforme elettorali, non casualmente finalizzate proprio alla riproduzione delle varie istanze di ciò che viene definita destra, anche quando conserva un’arrugginita targhetta di sinistra.
Il movimento delle donne si è diviso e diviso e diviso.
Il lavoro onesto, ben fatto, utile, collettivo, retribuito in modo adeguato a una vita sobria e serena e contenuto in un tempo sostenibile sembra un miraggio, ma è ormai condizione necessaria e imprescindibile: la rappresentazione sociale è occupata dalla carriera e dal successo, una patina luccicante solo occasionalmente bucata dalle morti sul lavoro, dai numeri della precarietà ammutolita, dallo sfruttamento schiavile, dalla diffusa servitù ai capricci del mercato, dal servilismo nelle invisibili sacche di benessere che sopravvive nel malessere di paure indotte e nell’avarizia delle diffidenze, eppure sotto la distorsione comunicativa e il vociare dei social si può avvertire un sommovimento tellurico, un diffuso chiamarsi all’impegno condiviso, il riconoscersi in un movimento di lunga gestazione, la tenacia di una diffusa testimonianza.
Forse sono molti i mondi possibili e non tutti auspicabili. Non tutti i mondi sono auspicabili per tutte e tutti.
Leggo e ascolto i podcast, poi m’interrompo perché la memoria è urticante, non mi lascia indenne e non lo vorrei nemmeno, ma non ho bisogno di rinnovare emozioni per continuare ad avere consapevolezza critica, sguardo interrogativo, pensiero dubbioso, concretezza di risposta quando la realtà la richiede.
Molte di noi, critiche e critici del sistema, siamo comunque parte integrante del neoliberismo imperante.
La condizione dei cosiddetti cervelli in fuga è lontanissima da quella delle braccia in cerca di lavoro; la famiglia, il luogo in cui si è cresciute e cresciuti, il capitale culturale a disposizione, insieme a quello sociale ed economico, sempre strettamente e in mille variabili interdipendenti, ha già fatto la differenza delle vite e agire sul proprio destino è, in certe condizioni, oscillazione di opportunità minime.
Comunque chi vive ha responsabilità.
Nel 2001 insegnavo e ricordavo i fatti, gli anni degli eventi, le connessioni.
Oggi anche le connessioni diventano fluide e vedo orrende continuità nelle occasionali differenze: sento, più di un tempo, di essere un minuscolo granello di materia in gran parte oscura, un atomo di storie che rotola in una durata ben più grande, dentro la quale le discontinuità si misurano più in millenni che in secoli.
Ma sono viva, ho avuto altri vent’anni di vita, quindi sono stata fortunata e se c’è qualcosa che posso fare lo faccio.
Scrivere serve a realizzare una staffetta di memoria, ma anche misurare il perenne e rischioso scarto tra realtà e narrazione. Raccontare è anche un dovere e ripensare qualche volta è dare un’occasione al presente.
in MAREA 3 2021