Sfrontata, e poi intelligente, ironica, spregiudicata, lungimirante, concreta e immaginosa, appassionata e lucida, solidale e sferzante: così l’ha pensata il suo autore e così giunge fino a noi, tutta contenuta nella concitazione dei dialoghi e quindi nell’inesauribile possibilità della messa in scena a cui si presta il teatro.
Lisistrata è una creatura di Aristofane, ci assicurano le fonti, ma come ogni personaggio è certo frutto di un tempo e di un mondo che si è depositato nell’immaginario dell’autore chiedendo a lui quella rivelazione di vita, quel di più di verità che sempre racchiude l’opera d’arte, proprio nel suo sottrarsi al puro e semplice rispecchiamento della realtà.
Di quel mondo, che perfino nella datazione giunge a noi capovolto dallo spartiacque dell’anno 0, geniale invenzione, di numero assente, che abbiamo conficcato nel tempo come un’asta visibile a cui legare un capo di quella matassa delle nostre vite che è sempre fin troppo difficile sbrogliare, sono giunti fino a noi testi, frammenti e titoli di opere perdute.
Delle commedie di Aristofane, alcune delle quali appunto, purtroppo, perdute, Lisistrata, rappresentata per la prima volta nel 411 a.C., affronta insieme il problema della pace, già presente in una commedia precedente, e la questione della posizione delle donne nella città, ripresa ancora nelle commedie “La festa delle donne”, contemporanea e forse rappresentata prima di Lisistrata, e “Le donne a parlamento”, scritta più tardi, ad evocare un’ipotesi di potere femminile che si realizza nell’abolizione della proprietà privata e soprattutto di quella sessuale
Il testo è quindi espressione di un passaggio importante dell’analisi politica del giovane autore (era a quel tempo sui trentacinque anni) la cui originalità inventiva segnala anche la maturità artistica.
I tempi sono quelli tragici delle guerre del Peloponneso, le violenze fratricide che segneranno la rovina della civiltà dell’Ellade, come temeva appunto Aristofane; l’azione si svolge sull’Acropoli di Atene, dove Lisistrata chiama a raccolta le donne per organizzare lo sciopero più incredibile della storia, quello del sesso, per costringere gli uomini a fare la pace.
Il testo disegna un’azione breve, concitata e incalzante, eppure i personaggi, appena tratteggiati dalla brevità delle frasi, non sono mai superficiali, non ci sono figure evanescenti, ogni parola illumina insieme una condizione e un pensiero.
Il timore iniziale di Lisistrata, il dubbio che le donne possano ritrarsi, non rispondere alla sua chiamata, si scioglie con ogni nuova arrivata in uno scambio di parola che segnala a un tempo la confidenza fisica affettuosa e ironica, propria di un tessuto di socialità femminile che supera ogni astratto confine politico.
Lisistrata non è sola, sin dall’inizio condivide con Calonice il dubbio “Mi angustio per noi donne, ché gli uomini ci pensano capaci di ogni cosa (…) poi quella volta che gli raccomandi di discutere assieme un grosso affare se la dormono e non ne vedi una”[1]e ignora le parole dell’amica che le ricorda la difficoltà di uscir di casa per le donne “(…) una ha il marito che la sbatte; l’altra lo schiavo ha da svegliare; l’altra ancora mettere il bimbo a letto, o lavarlo, o dargli la pappina…” e la incalza “Ma è possibile che non abbiano cose più importanti?”.
L’attesa delle donne, che arrivano poi alla spicciolata da Sparta, Tebe, da Corinto, dalla Beozia, affannate per il viaggio e la perentoria convocazione, è breve nella finzione scenica, eppure riesce a darci la dimensione di una comunità femminile che esiste solo per condizione comune, ma che è già protagonista, nelle intenzioni di Lisistrata.
Le donne si guardano tra loro, conoscono i desideri del corpo e dei pensieri, e il linguaggio esplicito e scurrile è un codice comunicativo che rassicura sulla condivisione delle storie che riguardano i passaggi dell’età sui corpi più che i confini fittizi elevati dalle mura e dalle guerre intorno alle città.
Per questo i personaggi, queste donne che non hanno neppure il nome, la ragazza di Corinto, la ragazza di Beozia sono chiamate, ci appaiono così vive, ancora oggi, nelle parole usuali che segnalano a noi la sopravvivenza di un modo di stare tra donne che ancora possiamo sperimentare, per quella capacità di intrecciare con leggerezza vissuto quotidiano e proposta politica.
Nel fitto intersecarsi dei dialoghi, per le donne, la guerra invece è semplicemente la guerra, senza aggettivi o motivazioni, espressione di una stupidità degli uomini che bisogna fermare, prima che trascini con sé anche quella vita concreta e profonda della polis di cui le donne riunite sanno di essere le più attive e affidabili custodi.
Per questo, mentre illustra alle compagne la sua proposta, Lisistrata ha già messo al sicuro il tesoro della Lega Attica, accumulato ad Atene per far fronte alle spese belliche, facendo occupare l’Acropoli dalle anziane.
Due sono quindi le azioni avviate che segnalano i due nodi critici del rapporto tra donne e uomini: da un lato il sesso, cardine della relazione più intima, dall’altro le risorse, terreno concreto su cui si misura la sfera pubblica che definisce le condizioni della cittadinanza oltre che quelle dell’esistenza.
Duemila anni di storia non ci hanno allontanate molto dalla scena abitata dalle nostre antenate greche. Ancora povertà e ricchezza hanno un pesante connotato di genere per la maggioranza della popolazione mondiale e perfino nei paesi più ricchi il complesso rapporto tra patrimonio e matrimonio disegna ancora oggi inedite subalternità, riducendo nei fatti gli spazi di cittadinanza che le leggi assicurano.
Nello scambio informale costruito dalla condivisione di quel sapere di cura e gestione del quotidiano in cui le donne sperimentano responsabilità e socialità, Lisistrata mette al centro il corpo, luogo della confidenza, di una conoscenza reciproca che fonda la possibilità della fiducia, ma insieme, nella condizione comune della relazione tra i sessi, patrimonio oculatamente amministrato nei confronti di quell’eterno mercante che è l’uomo.
Le donne mostrano di rinunciare a fatica a quel piacere dello scambio sessuale in cui il desiderio rivela più da vicino l’essere due della specie umana, ma ne conoscono anche il potere contrattuale che può sostenere l’ardire dell’essersi impadronite del tesoro custodito nell’Acropoli.
Un’azione non può esistere senza l’altra e Lisistrata può enunciare con più vigore il suo fine: “(…) io credo che un giorno dagli ellèni avremo nome Lisìmache: distruttrici della guerra.”[2]
Un patto quindi che prefigura un intero programma politico, nel quale quello che in tempi più vicini è stato denigrato come disfattismo non è più tradimento, bensì nuova virtù politica.
Un patto che richiede anche un nuovo rito del giuramento che rinunci al tradizionale sacrificio animale rendendo visibile, anche sul piano simbolico, il capovolgimento dei valori sotteso all’azione delle donne.
Non si giura tra donne sullo scudo e nemmeno su un animale sgozzato, ma su un orcio di vino pregiato, versato, dissipato, come quel piacere a cui si rinuncia, prima che la guerra lo renda comunque impossibile, perché è la guerra la vera dissipazione, la perdita di tutte le vite.
Dopo il giuramento l’azione è veloce, le donne raggiungono le compagne chiuse nell’Acropoli, arrivano gli uomini, il confronto è serrato e le donne vincono.
La conclusione esprime la speranza dell’autore, ma ai dialoghi, giunti alla logica conseguenza, forse non è estraneo il disincanto e la figurina della pace, di cui gli uomini sembrano burlarsi con gli apprezzamenti per la sua giovane bellezza, ci restituisce al teatro e ai nostri ruoli di spettatori e spettatrici ancora oggi impotenti.
Se la pace è una fanciulla di cui gli uomini si burlano ed è fin troppo simile alle scene quotidiane conosciute la cura con cui le donne cercano di dare indicazioni utili per costruire la pace: con gentilezza, consultando gli alleati, rimandando il divertimento, rinunciando alle rivendicazioni, così che non possiamo fare a meno di pensare che forse chiede ancora altri gesti la realizzazione di quel sogno, è all’inizio della contrattazione che Lisistrata ci indica la strada e se il suo autore non ha potuto spingersi oltre, noi potremmo comunque provare a improvvisarci attrici e attori di quel bel finale.
Di fronte al Commissario, irritato dall’impudenza delle donne che vogliono occuparsi della guerra, Lisistrata non arretra e dopo averlo coperto con lo scialle, che lui aveva indicato come segno femminile del dovere di tacere, enuncia il suo programma di governo.
“Se aveste un po’ di testa, la città governereste come noi la lana. (…) Come si fa coi bioccoli: un bel bagno e il lerciume va via dalla città, e poi, batti e ribatti sopra un piano, i furfanti e i cialtroni eliminiamo. Poi diamo una robusta spelazzata alle cricche degli arraffacariche tagliando bene i capi. In un paniere cardiamo poi ogni buona volontà, il metèco mischiando al forestiero che ti sia amico, e chi paga le tasse all’erario. Quanto all’altre città, che son colonie della nostra terra, cercate di capire che son fiocchi di lana, da riunire tutti insieme in un grosso gomitolo, da tesserci un mantello ben fatto per il popolo.”[3]
La lingua, il discorso, diventano così il luogo di un passaggio, della costruzione di un sistema metaforico nuovo, dove il tessuto e le abilità connesse alla sua produzione, diventano forma nuova del testo e insieme della concreta possibilità che fonda un onesto patto di governo tra donne e uomini per il bene comune.
Dalla rinuncia alla violenza, nel rito simbolico del giuramento, alle parole che dicono possibili forme pacifiche di governo dell’esistenza umana, perché fondate nel sapere di quelle arti che sostengono la vita e non la distruggono, Lisistrata ci indica, col fascino di un’azione semplice ed estrema, non ciò che sono le donne, ma quella parte migliore di noi che possiamo sempre decidere di agire se lo vogliamo.
Forse anche oggi la storia ci chiede di essere spregiudicate e concrete, lungimiranti e solidali, di ricordare la fragilità del corpo nella potenza del piacere e della nascita e la finitudine del tempo, l’essere insieme, donne e uomini, abitanti occasionali di un piccolo acciaccato pianeta che naviga nell’ignoto, come un tempo una piccola terra civile ai confini del Mediterraneo.
[1] Aristofane, Le commedie delle donne, Trad. di Francesco Ballotto e Valentino De Carlo, T.E. Newton, Roma, 1991, p. 11
[2] Aristofane, Op. cit. p. 23
[3] Aristofane, Op. cit. p. 23
in Donne disarmanti, (a cura di Monica Lanfranco e Maria Di Rienzo), Ed. Intra Moenia, 2003