Da anni ormai avverto una sorta di reticenza a parlare di stupro (così come a parlare d’aborto) quasi che il silenzio possa diventare anche magica protezione del corpo, e lo è in parte, di quel corpo-parola che continuamente dobbiamo esporre nudo nei suoi sentimenti, nelle sue ragioni più intime e violate proprio da una mediazione verbale costretta ad interloquire secondo l’abito che altri hanno ritagliato per noi.
Ogni volta che parlo e scrivo di stupro mi trovo infatti a dover censurare immagini, suoni, gesti, parole che aderiscono alla mia storia come una seconda pelle per trovare quel giusto tono che consenta alle mie ragioni di essere “ragionevoli”.
Di fatto intavolo il linguaggio della trattativa: ne conosco le variegate sfumature, dalla denuncia appassionata all’analisi legislativa e sono pronta a produrle compiutamente, ma di fronte a chi, mi chiedo, per chi parlo e scrivo ?
Non per le donne, perché altri sono i sensi e i sentimenti che giochiamo tra noi, e allora restano solo stupratori e complici.
Molto più di ogni altro delitto lo stupro si regge su una rete di complicità che non lascia indenne nessuno e nessuna di noi.
Si stupra un corpo quasi aspettando la sua inevitabile fragilità, approfittando di una sbadataggine, la felicità di un momento, la necessità, la dipendenza. la malattia, di uno qualsiasi di quei momenti in cui, costrette o felici o distratte, ci spogliamo di una rigidità del corpo e dei pensieri che ci siamo ormai abituate ad indossare ogni giorno prima di uscire e da cui troppo spesso non possiamo liberarci neppure in casa.
Mentre leggo delle donne bosniache arriva sul filo del telefono, da Catania, il racconto di uno stupro perpetrato dal ginecologo su una donna in attesa dell’inseminazione artificiale.
Non trovo più pensieri che diano forma verbale all’urgenza dei sentimenti.
Forse perché sia ancora possibile la parola dobbiamo trovare un altro luogo da cui dirla, non basta testimoniare giorno dopo giorno una rabbia impotente, promuovere una solidarietà faticosa che i mille cavilli burocratici riducono in briciole prima che arrivi davvero ad ottenere che la giustizia sia “giusta”.
Nei tribunali la partita che si gioca non è mai equa per la semplice ragione che non lo è la legge.
Il solenne patto sociale che rende noi donne cittadini, e non cittadine, non ha trovato il modo in questi anni di tradursi in una legge che ponga davvero (e quindi tuteli) l’integrità fisica a fondamento di quell’identità che, riconosciuta, renderebbe anche noi partecipi a tutti gli effetti della sovranità costituzionale.
Non possiamo continuare ad esporci nei processi di fronte ad una legge che è palesemente “ineguale” e affidare alla bravura e popolarità delle nostre avvocate l’unica speranza, non di una sentenza giusta (come sarebbe legittimo e ovvio) ma di un andamento dignitoso delle procedure e del dibattimento.
Quante sono state le sentenze inique, quante ragioni calpestate, quanti corpi devastati, quante vite segnate dall’arroganza dei tribunali ?
Forse non è più tempo di argomentare ragioni, di produrre prove, di pretendere giustizia ma di chiedere quali sono i benefici sociali di un’omertà che gli uomini continuano a produrre celandosi dietro la legge.
Lo stupro è un problema sociale del sesso maschile, segno di un’atavica incapacità alla convivenza pacifica e civile, retaggio di una mentalità che non conosce e non ha maturato le regole di una moderna polis, atto che mina le basi stesse della democrazia e i fondamenti dello Stato.
Su questo terreno gli uomini sono chiamati a dire, ad argomentare, a proporre, sono chiamati ad uscire dal silenzio, ad imparare il coraggio della denuncia, sono chiamati a scoprirsi, a raccontare, a dichiarare, sono chiamati a testimoniare.
La posta in gioco non è una qualche giustizia privata, l’esposizione di buoni sentimenti, l’impegno benevolo verso questa o quella vittima, il risarcimento (peraltro impossibile) di un danno, ma il senso stesso di un vivere sociale che solo insieme, con pari dignità, donne e uomini possiamo continuare e forse riuscire a riprodurre.
Per quanto ancora continuerete a piantare nella nostra paura le radici della vostra morte ?
Abbiamo una sola terra comune, fragile e complicata, e una sola vita per ognuna e ognuno di noi nella quale scegliere se crescere semi di violenza o alberi di pace.
Per ambiguità, silenzi, reticenze, omertà, arroganza e vigliaccheria non è davvero più tempo.
Mentre sto decidendo se e a chi mandare questo scritto vengo raggiunta dalla notizia di un altro stupro: due ragazze in provincia di Brindisi per le quali cerchiamo di attivare almeno una “catena telegrafica” di solidarietà.
Detto il telegramma per telefono, quando smetto di parlare la voce di donna non più anonima e professionale mi chiede di raccontare: poche parole e si tesse una confidenza in cui il sentimento è subito comune, si associa al telegramma, ne darà diffusione.
Ci parliamo come se ci conoscessimo da sempre e quando abbasso la cornetta mi accorgo che non ho neppure chiesto il suo nome.
5 febbraio 1993