Effetti dei pensieri della differenza sulle categorie politiche date

Il tema della relazione che mi è stata affidata mi sembra riguar­di un po’ l’universo-mondo.
Infatti sappiamo tutti che le categorie politiche date sono da un lato la forma massima dell’astrazione che la cultura occidentale ha raggiunto in quella specifica disciplina che è il diritto e insieme la forma della massima concretezza, nella misura in cui le categorie politiche date hanno a che fare con il governo delle cose e delle persone, cioè con le modalità di gestione collettiva con cui cerchiamo di consentirci la vivibilità della vita dentro le condizioni materiali della nostra esistenza.
Finalità e modalità del governo: uguaglianza-libertà, rappresen­tanza-democrazia, sono i termini dentro i quali si inscrive oggi il patto sociale ma anche ogni rivendicazione di mutamento.
All’altro capo del titolo stanno i pensieri della differenza che sono la modalità con cui oggi le donne pensano sé e il mondo.
Non una teoria già impacchettata sotto vuoto quindi, ma un modo di porsi radicato nella materialità della propria storia, uno sguardo, o meglio una percezione complessa radicata in un corpo che pone domande radicali e anche un po’ maliziose. Domande che sgretolano il pensiero con cui fino ad oggi l’universo-mondo si è pensato.
Non una rivendicazione quindi, le rivendicazioni sono semmai alcune pratiche sacrosante che mettiamo in campo nella realtà data, ma una prospettiva che modifica radicalmente l’immagine del reale, la lettura del reale.
Per usare una metafora, forse un po’ inconsueta ma legata a quei gesti del quotidiano che passano nella nostra vita quasi inconsa­pevoli, i pensieri della differenza non sono come uno di quei copriletti preziosi dove ogni piega cade perfettamente e che trasformano il letto in un’ideologia, un luogo simbolico di cui è difficile pensare anche l’uso più banale: dormirci.  I pensieri della differenza sono una coperta patchwork che puoi continuamen­te allargare e allungare con tessuti, colori, tecniche diverse, che si presta a qualsiasi uso senza che questa sua adattabilità le impedisca di essere sempre rigorosamente sé stessa: colorata, visibile, impossibile da mimetizzare.
Cercando di mettere insieme questi pensieri della differenza e le categorie politiche date la prima domanda che mi viene in mente è questa: quale rapporto esiste fra le forme massime dell’astrazio­ne in cui è inscritta la possibile esistenza sociale e la pratica politica, l’esistenza politica di ognuno/a di noi e l’immaginario collettivo, quell’insieme cioè di pensieri e gesti che attraver­sano la nostra vita, sedimentati in noi da un processo storico che ce li rende naturali, quell’immaginario che ricade dentro la nostra esistenza quotidiana come insieme di abitudini gestuali e linguistiche che producono il tessuto inconsapevole sul quale intrecciamo poi l’area delle scelte consapevoli ?
E’ questo un aspetto, un filo, dal quale proporre o dal quale arrivare alla domanda radicale ed estrema che mina le basi di quell’universale classico che assume il maschile come rappresen­tativo dell’umano.
Una domanda radicale che propone, insieme alla sua capacità di decostruzione, i percorsi per trovare risposte possibili e prati­cabili a quella crisi della rappresentazione del soggetto che è l’aspetto più inquietante della modernità.
E intendo per modernità, come dice Rosi Braidotti, quella fase del pensiero occidentale difficilmente databile sul piano crono­logico ma evidente sul piano intellettuale segnata appunto da questa crisi di identità del soggetto maschile. Quella che viene definita come “crisi della coscienza europea” e io aggiungo da anni, spiegandola in classe, “maschile”.
Faccio un esempio più banale ma credo più chiaro, un esempio di tipo linguistico dato che la lingua è la forma più evidente e meno consapevole che veicola la costruzione sociale della realtà (parliamo senza operare una continua attenzione metalinguistica).
Se chiediamo ad una qualsiasi classe della scuola elementare, media o superiore di descrivere gli uomini primitivi ne vengono fuori orde di uomini barbuti e feroci in assetto di caccia o di guerra.
Questo anche se hanno studiato la scoperta del fuoco, le pitture rupestri, l’invenzione della terracotta ecc.
Ma se noi chiediamo di descrivere gli uomini e le donne primitivi anche in presenza dello stesso numero di informazioni l’immagina­rio è costretto a mutare, la descrizione è più complessa e quindi più verosimile.
E questo apre la strada alla ricerca delle altre differenze che da sempre segnano la storia anche se non ne segnano il racconto, differenze di età, di collocazione territoriale per dire solo le più evidenti.
Non servono molte informazioni in più per produrre un racconto storico molto più verosimile.
Questo tra l’altro dimostra che il processo di astrazione può trasformarsi anche in un processo di cancellazione, non sempre funzionale alla conoscenza.
Dovremmo almeno provare che effetto produce dire: gli uomini e le donne del Risorgimento, i romantici e le romantiche.
Attraverso la lingua noi di fatto proiettiamo sul passato un immaginario che in realtà corrisponde alle forme culturali con le quali noi viviamo e leggiamo il presente.
Allora io provo a vedere, da questo punto di vista, quali sono i fili che legano alcune categorie politiche e parto da quello che viene considerato l’inizio della concezione moderna del patto sociale e dello stato.
Con Hobbes abbiamo la prima sistemazione laica della teoria della sovranità per cui il patto sociale si fonda su un istinto indivi­duale, l’istinto di conservazione, impossibile da raggiungere nello “stato di natura” per la reciproca aggressività.
Abbiamo qui in nucleo un’idea di libertà radicata in una poten­zialità senza limiti che quindi, trovando come unico limite l’altro, dev’essere regolata per non tradursi in una continua, reciproca volontà di sopraffazione.
Questa elaborazione viene approfondita da Locke quando pone a fondamento della società politica il contratto per la “mutua conservazione della vita, libertà e averi” che lui denomina “con termine generale, proprietà”.
Nasce lo stato di diritto insieme al concetto di cittadino. E questa formulazione ha già in nucleo quella possibilità di svi­luppo del concetto di uguaglianza che sarà la bandiera della rivoluzione francese.
E’ lo stato borghese che nasce, ed è evidente dal fatto che nelle formulazioni iniziali non tutti gli esseri umani sono cittadini.
Anzi mi sembra interessante che per giustificare il voto ai soli proprietari si trovi quella formulazione teorica per cui la proprietà è una forma della responsabilità e il proprietario ha diritto di voto perché avendo cura della proprietà garantisce la sopravvivenza collettiva.
Da quel momento fino ai giorni nostri possiamo leggere un percor­so ininterrotto di battaglie condotte di volta in volta dagli esclusi per accedere al diritto di cittadinanza ampliando e modificando i termini del patto sociale.
Un percorso perennemente segnato dalle parole libertà e ugua­glianza sul cui valore e significato si sono fondate appunto tutte le rivendicazioni.
Per quanto riguarda le donne, smontati nel corso del tempo gli aspetti più stupidi con i quali si tentava di giustificare la loro esclusione, sembra oggi che non ci siano problemi.
I principi in sé funzionano, basta ritenerli validi per tutti e per tutte e le cose poi si sistemano.
Anche noi siamo libere di fare tutto quello che fanno gli uomini.
Ma qui appunto si fissa quello sguardo diffidente e malizioso di cui parlavo all’inizio, lo sguardo di chi sta fuori dalla porta da troppo tempo per credere davvero che sia stata sempre spalan­cata e si trattasse solo di chiarire un malinteso.
Non credo che libertà e uguaglianza, le due parole chiave su cui si fondano i diritti-doveri dei cittadini, siano davvero per noi una porta spalancata da sempre.
Ci sono, al di sotto di queste parole solenni che percorrono il diritto e le costituzioni, altre parole meno visibili che hanno segnato da sempre il patto sociale.
Parole scivolate nelle pieghe della storia come in un’ovvietà che a me appare sospetta.
Già Hobbes pone a fondamento del patto sociale l’istinto di conservazione e Locke parla di conservazione della vita.
Se arriviamo alle moderne costituzioni troviamo espressioni ancora più curiose.
Ad una prima lettura tutto sembra semplice: il soggetto di dirit­to è l’uomo, l’individuo, e la finalità del patto è la tutela dei suoi diritti.
Prendiamo ad esempio un testo come la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”(1948), nella premessa e nei primi 15 articoli tratta dei diritti dell’individuo, poi improvvisamente nell’art. 16 è tutelata la famiglia “in quanto nucleo fondamenta­le e naturale della società” ma mentre la tutela dell’individuo ci viene minuziosamente spiegata, non si dice in che modo si pensa di tutelare la famiglia.
Questa misteriosa famiglia riappare poi nell’art. 23 a proposito dell’individuo che “quando lavora ha diritto ad una remunerazione equa per sé e per la propria famiglia” e nell’art. 25 a proposito di salute e benessere che sono diritti dell’individuo e della sua famiglia.
Si potrebbe dedurre che la famiglia è un’appendice di questo individuo.
L’art. 25 è interessante perché ha un secondo comma che forse, nell’intenzione del legislatore voleva essere una forma di atten­zione ad un aspetto particolare della salute e del benessere.
In questo secondo comma vengono tutelate la maternità e l’infan­zia. L’infanzia sappiamo cos’è, la maternità messa lì così diven­ta una funzione che evoca in me pensieri inquietanti.
Mi chiedo come fanno a tutelare la mia maternità senza nominarmi.
Nella Costituzione italiana il pasticcio si fa ancora più eviden­te.
Nella Repubblica fondata sul lavoro c’è un tipo di cittadino le cui condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare  (art. 37) e questo concetto di essenzia­lità è un po’ misterioso perché non si capisce se fa parte dei diritti o dei doveri.
Nello stesso articolo si tratta della donna lavoratrice e dei minori: un lapsus ideologico, potremmo definirlo, ma sappiamo che è il frutto della mentalità corrente che viene assunta a legge.
Comunque in sé come concetto è chiarissimo: essenziale è ciò di cui non si può fare proprio a meno.
Dal vocabolario: sostanziale, indispensabile; l’essenza è ciò che individua e definisce la realtà, le fondamenta.
A questo punto diventa comprensibile la persistenza di queste parole meno solenni che appaiono con evidenza come spie, spiragli di una grande rimozione perché la conservazione della vita, anche al massimo delle condizioni di felicità, non può essere certo la conservazione dell’individuo (che non si conserva neppure surge­lato) ma si chiama più propriamente “riproduzione della specie”.
Allora si capisce la stranezza della tutela di una formazione storica difficilissima da definire come la famiglia.
Un’astrazione ancora più astratta dell’individuo.
Alla base di ogni società umana c’è il fatto, considerato ovvio, della riproduzione della specie e questo ibrido che chiamiamo famiglia è in realtà il luogo in cui le donne hanno storicamente intrecciato le relazioni e le risorse in modo vivibile, in modo cioè da consentire la sopravvivenza e la riproduzione della specie.
Ciò che viene rimosso e riappare nei termini famiglia, maternità, infanzia, è l’evento nascita.
La nascita è il luogo d’origine, prendere in considerazione l’evento nascita porta necessariamente allo sgretolamento dell’individuo astratto perché si nasce maschi e femmine, si nasce diversi, mai uguali, si nasce per divenire, si nasce da donna.
Non esiste la maternità, esistono corpi di donna segnati dal colore della pelle, dalla classe sociale, dal territorio, dai desideri e dai bisogni che partoriscono bambini e bambine mai uguali, dentro un luogo-tempo storico che ne segna talvolta già dolorosamente il destino.
La differenza tra uomo e donna che la nascita rivela non fonda semplicemente un individuo spaccato in due metà ma introduce un’asimmetria mai più riconducibile a uno.
Rivela l’assoluta individualità dei soggetti radicati nella propria storia singolare.
E’ così difficile pensare alle differenze nel diritto perché non è mai stata pensata quest’asimmetria della nascita.
Ma se la nascita è l’origine degli individui diventa la prima condizione del patto sociale.
La nascita è stata fino ad oggi relegata in una “maternità” astrattamente tutelata fuori dalla storia, da una storia che attraversa invece i corpi e trova nei corpi e nelle relazioni che i corpi esprimono la materialità delle sue vicende.
Si può pensare la differenza a partire da quell’asimmetria tra i sessi per la quale è inscritto nel corpo delle donne, del genere femminile, il potere di procreare.
Il fastidio (per usare un eufemismo) che continua a provocare una legge come la 194 è dovuto al fatto che le parole chiave di questa legge non sono e non potevano essere diritto-dovere ma possibilità-limite.
Possibilità e limite sono le parole che definiscono la nascita ma dentro le quali possiamo collocare anche la parola libertà se guardata e vissuta dentro la storicità della propria esistenza.
Perché anche pensando al migliore dei mondi possibili il limite non è l’altro ma sono prima di tutto i nostri stessi bisogni e desideri, il nostro stesso corpo nel suo divenire storico.
Ma se si riconoscono le differenze e la storicità dei soggetti il patto sociale deve poter essere aperto, ripattuibile.
Allora la sfida a tutto il pensiero moderno viene da un pensare i soggetti a partire dalla nascita, da quell’asimmetria tra uomo e donna che rendendo visibile una differenza apre la porta a tutte le differenze e soprattutto direi che la sfida alle categorie della politica e cioè al governo della polis viene da quel lavoro di riproduzione che ha come luogo il quotidiano delle donne, la cui “scienza” si fonda su criteri di conoscenza che hanno saputo mirabilmente intrecciare la gestione delle relazioni e delle risorse anche se totalmente espropriate ed emarginate dal governo di quelle stesse relazioni e risorse.
Mettere al centro la riproduzione e prendere a modello quel lavoro che l’ha consentita e gestita significa anche toglierci da quella miseria che appartiene anche a noi, popoli ricchi, di una vita totalmente catturata dentro i ritmi e i tempi della produ­zione, segnata dalla distruzione delle risorse e di noi stessi, da un sapere che si misura in quantità di megabyte e non sa trasmettere alle giovani generazioni le strade della sopravviven­za (non dico quelle della felicità), che ha prodotto infiniti misuratori del tempo e dello spazio e né dell’uno, né dell’altro possiamo godere.
Si tratta di riconoscere “l’alto grado di razionalità di quella gestione che le donne hanno saputo fare degli interessi e dei bisogni anche attraverso accumuli rilevanti di scienza della qualità della vita”.
Su questa parte Lidia Menapace ha, come sapete, già fatto un “bel pezzo di coperta”.
La posta in gioco per tutti è una scelta che riguarda il futuro e ciò che intendiamo per civiltà e passa attraverso la nostra capacità di misurarci con la complessità a partire dalla molte­plicità stessa dei soggetti.
Abbiamo da pensare l’impensato ma insieme c’è la necessità stori­ca di riconoscere a noi donne conoscenza e docenza là dove la gerarchia del sapere non si è addentrata, in quel quotidiano cancellato come empirismo irrazionale e che oggi può essere il luogo dal quale progettare il futuro utilizzando nella direzione della libertà quello che si è costruito come sapere di necessità.
Per noi donne si tratta di attraversare i linguaggi e le culture che ci hanno raccontate interrogandoli con il nostro corpo, con la materialità della nostra esistenza, perché per noi la diffe­renza è un orizzonte mobile dentro il quale muta il senso stesso della nostra vita.
Una vita che una volta avrei definito, almeno la mia, come l’af­fannato, affannoso arrancare dietro mille richieste e bisogni, doveri e desideri e oggi mi sento di definire come la capacità di tenere insieme l’intreccio multipolare dei miei interessi o, in modo un po’ meno solenne, l’affascinante, faticosa avventura di un corpo che segna finalmente i percorsi dei miei pensieri.
 

Roma – Sala della Chiesa Valdese  Seminario del Movimento politico per l’Alternativa organizzato da Lidia Menapace