Cinque donne uccise in due giorni, sei in una settimana, più un’altra fanno sette.
Ma non è un’emergenza.
È l’esito di una cultura delle relazioni tra i sessi che a fatica decenni di lotte del Movimento delle donne hanno cancellato almeno dalle leggi, dove permaneva nelle sue forme più vistose l’interdizione delle donne ai diritti civili e sociali perfino dopo aver acquisito quello politico del voto attivo e passivo.
L’esito di una cultura rimasta intatta nella trasmissione scolastica, nella ricerca universitaria, rilanciata negli anni Novanta quando si decretò l’inutilità del femminismo e alle donne si proponeva un’emancipazione imitativa in nome di una libertà che sembrava raggiunta solo perché declamata e alle giovani veniva proposta la mercificazione del corpo come inveramento massimo di quella libertà di disporne che non si chiamava più autodeterminazione nelle scelte, ma possibilità di uso del corpo nel libero scambio. Lo stesso libero scambio per il quale il lavoro femminile è da acquisire gratuitamente attraverso la forma famigliare, o contrattabile solo nelle forme asservite al sistema, e l’intelligenza delle donne può trovare spazio nelle quote di cooptazione che non intaccano le complesse procedure delle istituzioni.
Non è un’emergenza perché è strutturale. La novità che siamo riuscite a imporre è la visibilità di questo fenomeno che ha accompagnato la formazione dello Stato nazionale perché legittimato dalle leggi fino alla nascita della Repubblica italiana, nata dalle lotte delle donne quanto da quelle degli uomini, con la differenza che le donne hanno lottato per costruire una democrazia inclusiva di tutti.
Finalmente il fenomeno del femminicidio è entrato anche nelle parole del Procuratore generale nella sua relazione all’apertura dell’anno giudiziario, anche se ha parlato di assassini di donne perché la parola femminicidio sarebbe stata un passo troppo coraggioso.
Ci vuole coraggio per operare giustizia e noi donne l’aspettiamo da molto e perfino con un eccesso di pazienza.
Quanti anni ci vogliono a donne e uomini della magistratura per citare un fenomeno col suo nome?
Quanti anni ci vogliono ai media e ai social per usare le parole giuste?
Quando propongo analisi storiche spesso i giornalisti, donne e uomini ahimè, mi dicono che si tratta di spiegazioni troppo difficili. Invece spread, broker, dumping sono concetti facili, visto che ce li troviamo infilati come nulla nei notiziari.
Le vite intere di centinaia di migliaia di donne italiane che di generazione in generazione non hanno mai smesso di denunciare, proporre, lottare, sono la dimostrazione di un’antica pazienza.
Donne dimenticate dalle donne stesse, per ignoranza, sottovalutazione, sciatteria, asservimento inconsapevole alla cultura del dominio maschile, persino quando escono in piazza in nome di una rivoluzione globale.
La cultura che produce i femminicidi, insediata ovunque, conta su molte complicità per trasmettersi di generazione in generazione operando sempre per interrompere il passaggio di testimone tra donne, che, senza nemmeno saperlo, si trovano a ricominciare da capo.
Ci prepariamo all’8 marzo, all’appuntamento di lotta dell’8 marzo, e non sappiamo da che parte cominciare perché noi conosciamo le connessioni profonde tra le forme sociali e politiche di persistenza del patriarcato, la rapina delle risorse, il mantenimento dei focolai di guerra, le molte forme di violenza sulle donne fino appunto al femminicidio.
Il mantenimento del dissennato modello che chiamiamo sviluppo, e genera morte della terra della gente e del vivente, è costituito dall’intersezione di molti fenomeni complessi ma si può spiegare in modo semplice.
Noi donne lo sappiamo bene, così come sappiamo che i femminicidi, la violenza domestica, il mobbing sul lavoro, l’espulsione del corpo femminile dalle contrattazioni neutre, richiedono il nostro silenzio, la nostra distrazione, la nostra sottovalutazione di noi stesse e della nostra possibile determinazione collettiva, se non perfino un’attiva complicità.
Il sessismo è prevalentemente involontario e inconsapevole, solo una piccola minoranza dichiara di considerare le donne inferiori, perfino chi vuole relegarle di nuovo alla casa e al servizio gratuito alla famiglia non lo fa in nome della discriminazione ma esaltandone le qualità specifiche, con la pretesa di difenderle.
La cultura sessista scatta nei mille dispositivi inconsapevoli archiviati nell’apprendimento infantile, opportunamente e continuamente rinforzato in famiglia, a scuola, dai media, dai social, dalla cultura raffinata e alta come dalle battute da bar, dall’accademia come dai tweet dei social, dalle canzoni come dalle trasmissioni di cucina. Sempre e ovunque, tanto che se una donna ne rileva i segnali continuamente risulta pesante, antipatica, saccente, vetero ecc. mentre non lo sono mai i patriarchi gentili che pontificano ovunque e comunque, soprattutto quelli colti raffinati e con solida carriera e quelli sguaiati, sbracati, ignoranti (o che si vendono come tali) sempre con solida carriera.
Il sessismo viene acquisito dagli uomini e dalle donne, equamente, con la differenza che i primi ne ricavano sempre privilegi, anche quando ne avvertono le limitazioni al proprio esistere, le seconde sviluppano comportamenti adattivi, anche quando sono colte, fanno carriera, sono riconosciute socialmente.
La narrazione del maschile, i dispositivi identitari, uniscono gli uomini perfino al di là delle idee, delle posizioni politiche, delle condizioni sociali; perfino nelle condizioni di scontro e di guerra gli uomini si autorappresentano, o vengono rappresentati, nello stesso modo, dentro l’arco di possibilità che definiscono il maschile e trasmettono una cultura che li uniforma al meglio anche quando sono il peggio. Non fanno eccezione gli assassini di donne nell’informazione.
Le donne, invece, fruiscono di una narrazione collettiva solo riduttiva: invisibile l’originale storia politica, invisibili le lotte e le diverse posizioni politiche messe in atto nei secoli per esistere nel patto politico delle nazioni vecchie e nuove, la narrazione oscilla tra la scoperta/esaltazione di donne straordinarie scotomizzate dal contesto e donne ridotte a vittime e non considerate come vittime di persone e di un contesto.
I miei corsi sono frequentati prevalentemente da donne e quindi passo molto tempo a dimostrare alle donne che siamo tutte ancora prigioniere dei dispositivi del sessismo e da sempre mi capita di essere più credibile per gli uomini, i pochi e rari che mi seguono e mi stimano, che per le donne con cui magari ho una lunga consuetudine di luoghi, di presenza, perfino di tessera, come quella sindacale.
Oggi ci raccontiamo che c’è un’avanzata delle donne perché ne ritroviamo alcune ai vertici delle grandi istituzioni politiche, dell’industria, delle carriere accademiche, della ricerca scientifica come della magistratura, moltissime nella media dirigenza di scuola, sanità, pubblica amministrazione.
Per la generazione di donne uscite dalla guerra e dall’esperienza della Resistenza pensare alla tutela di gravidanza e parto, ai diritti dell’infanzia, alla parità nel lavoro, erano priorità, così come l’autodeterminazione nelle scelte riproduttive, l’autonomia nella vita, l’inviolabilità del corpo diventeranno le priorità per la generazione del neofemminismo che scoprì e rilanciò il dialogo e il patto tra diverse generazioni politiche di donne.
Oggi il nuovo femminismo sembra presentarsi sulla scena politica e nelle piazze praticando un patto trasversale con i maschi o con soggettività lgbt (movimento nel quale le donne sono ampiamente presenti ma non altrettanto ampiamente visibili), e si affida alla diffusione globalizzata delle lotte per riconoscersi in parole e icone di riferimento, ignorando, con rinnovato provincialismo, e senza intenzione né dolo, la complessa storia politica delle donne italiane, soppressa nell’immaginario utilitaristico del presente insieme alla storia tout court.
Le donne che hanno un potere nei media e ovunque sono mediamente molto più competenti dei colleghi, più acute, più argute e in maggioranza integrate, donne che rivestono perfettamente ruoli maschili con risultati più elevati e stabili eppure i cambiamenti sono lenti e loro stesse non sono contrattuali sul piano della complessiva rappresentazione femminile nei luoghi stessi in cui operano.
Le altre donne, giovani, meno giovani e vecchie, fanno quello che da sempre fanno le donne, oltre a lavorare: curano, soccorrono, tamponano, riparano disastri, sono la maggioranza del volontariato, più che paritarie nelle ONG, tenaci nei lavori precari, creative nella vita personale, impegnate a conquistarsi uno spazio.
Vale per tutte l’impegno delle sportive che conquistano spazi e traguardi, senza chiedere sconti, senza blandire dirigenti, senza sminuire i propri talenti.
Leggere il presente non è facile e la massa di informazioni da cui siamo raggiunte mi sembra talvolta a senso unico: racconta un protagonismo delle donne e forme dell’esistenza femminile che non vedo nella realtà, certo piccola, con cui sono in contatto.
I traguardi di minoranze quale effetto possono avere sulle vite delle badanti, delle raccoglitrici di pomodori, delle operaie, delle addette ai servizi della distribuzione, e di mille altre categorie per non parlare dell’opacità di quel grande numero che sono le donne senza occupazione retribuita, che certamente non sono tutte indigenti, ma certamente sono tutte scarsamente autonome e dipendenti dal reddito di qualcuno, condizione poco felice nei casi di separazione e soprattutto di violenza domestica.
Per non parlare delle forme di insediamento sul territorio grazie a leggi che hanno consentito l’accumulo di capitale urbanistico per minoranze dentro le quali le donne sono ancor più minoranze.
Nei grandi momenti di crisi di un sistema e di transizione, che può durare anche qualche secolo, le donne sono il fattore riproduttivo fondamentale che funge da cerniera attraverso la divisione dei percorsi e la manipolazione dell’immaginario: quote di donne vengono cooptate (mai gratuitamente) in vari ruoli legittimamente gratificanti e una massa di donne vive dentro un immaginario egualitario condizioni di varia subalternità.
Divide et impera: nulla di nuovo sotto il sole, ma sempre nuova, per chi la vive, è la pericolosità di una condizione, soprattutto quando si conclude con la tua morte.