Piattaforma per una contrattazione di genere: questo è il titolo che abbiamo dato a un testo elaborato nel 2017 da un gruppo nazionale dell’UDI al termine di un percorso, durato tre anni, che ha visto il momento culminante nel seminario “Lasciateci lavorare”, di cui sono disponibili gli atti.
A tre anni di distanza ci troviamo collocate nella discontinuità introdotta dal Covid19 e quindi in un tempo che richiede almeno la revisione e aggiornamento dei criteri con i quali ci siamo mosse nella politica.
Nella storia dell’Udi considero questo testo il punto d’arrivo di una lunga storia di contrattazioni efficaci che hanno contribuito a conquistare una democrazia paritaria, come si usa dire, vincendo la lunga lotta per l’emancipazione, parola che la mia generazione, le femministe degli anni ’70, ha compreso pienamente solo nell’età adulta, quando abbiamo imparato a conoscere e vedere le lotte delle donne e la loro lungimiranza dentro il contesto di epoche e leggi che, proprio grazie a loro, ci sono state risparmiate.
Il testo (allegato in fondo) è già di per sé il frutto di una contrattazione collettiva sul significato dei termini come sulle richieste e se da un lato rappresenta una significativa elaborazione dell’associazione dall’altro non ha trovato realizzazione per la mancanza di condizioni concrete che consentano davvero la contrattazione, che non può mai essere solo un atto unilaterale, una dichiarazione di piazza, un piano attuabile direttamente, ma ha bisogno di pratiche agite da soggetti dentro luoghi, istituzionali e sociali, e perfino privati.
Questo testo non ha trovato una sua utilizzazione concreta ed è stato di fatto accantonato, spero temporaneamente, anche dall’Udi, perciò mi assumo la responsabilità di rendere visibili alcuni pensieri sparsi che mi hanno accompagnata nel lavoro e che non ho avuto modo di condividere.
Un contratto, come sappiamo, è più di un accordo e persino di un patto perché nella legislazione è anche un istituto giuridico regolato che riguarda prevalentemente il patrimonio.
Il patrimonio è, nel significato originario, il dovere del padre, ciò che spetta di fare al padre e a lungo la legislazione ha protetto la linea paterna e maschile delle proprietà ed eredità dei patrimoni.
La contrattazione stessa era ambito e prerogativa maschile, mentre le donne erano costrette a muoversi sul terreno ambiguo della manipolazione, dissimulazione, compiacenza, menzogna, servilismo, ancillarità per godere dei benefici dei capitali in circolazione, non solo di quelli economici ma anche dei capitali culturali e sociali, perfino minuscoli.
Imparare o meno a scrivere, anche in una famiglia proletaria, faceva la differenza tra maschi e femmine, così come poter accedere liberamente a luoghi esterni alla famiglia, fruendo di quel piccolo capitale sociale di conoscenze umane che favoriva le relazioni tra maschi mentre quelle tra donne, spesso molto più significative proprio ai fini della sopravvivenza individuale e famigliare, restavano invisibili e senza valore.
La maggior parte delle donne si è mossa a lungo in forme di contrattazione sommersa, implicita, allusiva più che prescrittiva e quando donne e gruppi hanno voluto presentarsi sulla scena politica hanno conosciuto la repressione violenta.
Del resto anche oggi i femminicidi sono sempre l’esito dell’incapacità da parte dell’assassino di tollerare l’autonomia femminile, rappresentano il rifiuto della contrattazione perfino quando è definita dalla legge.
Mi limito a questi cenni frettolosi per evocare una lunga e complessa storia che riguarda l’uscita delle donne dallo stato di minorità al quale erano state condannate dalla legislazione moderna e i diversi posizionamenti di donne e gruppi femminili dentro questa storia politica e sociale.
Tutta la storia umana può essere riletta anche dal punto di vista della capacità contrattuale delle soggettività sociali e politiche in relazione all’acquisizione delle risorse per la vita, quelle risorse che Bordieu definisce e rilegge appunto come la complessa intersezione di piani tra capitale economico culturale e sociale dentro il mondo che noi definiamo come “storia accumulata”[1].
Il contratto passa da pratica economica al pensiero politico proprio attraverso quella locuzione di contratto sociale che ipotizza il processo di contrattazione nell’emergere della società dallo stato di natura.
Chi ha potere assoluto fa un piano e lo impone, diversamente si contratta a tutti i livelli delle relazioni umane a cominciare da quelle più intime, da legami che sembrano naturali ma passano immediatamente dalla cosiddetta natura alla cultura sociale acquisita e poi rielaborata.
Chiunque abbia cresciuto una bambina o un bambino, anche in una relazione non genitoriale, conosce bene la complessità dialogica che si instaura quando emerge nelle piccole persone il bisogno di affermare la propria esistenza e l’intuizione che i propri sentimenti riguardano la vita e quindi la libertà di esprimerla nella sua potenzialità.
Il termine contrattazione riesce a nominare il confronto tra parti che misurano il reciproco interesse, perfino attraverso una valutazione non sempre cosciente, e quindi spesso difficile da esplicitare, delle proprie istanze fondamentali e del loro valore.
La contrattazione infatti riguarda sempre uno scambio di valore, che sia economico, simbolico o sociale e l’abilità delle parti riguarda il potere di stabilire i criteri del valore.
L’operazione sembra essere più facile sul piano economico ma i piani si intersecano e l’esempio più vistoso è proprio quello dell’appropriazione di tutto il lavoro o attività erogate prevalentemente dalle donne a sostegno invisibile, e quindi non riconosciuto, di tutto il piano economico degli scambi e accumulazione della ricchezza.
La parola contratto viene ripresa da Carol Pateman nel 1988[2] con l’intento di dimostrare in che modo proprio la narrazione che attiene al contratto sociale come fondamento del mondo politico moderno sia solo metà della storia, perché occulta il contratto sessuale respinto nell’oscurità del dato naturale per il quale il processo della riproduzione umana è analogo alla fertilità della terra, ricchezze naturali appunto di cui si regola l’appropriazione da parte degli uomini.
La cultura politica moderna è la strada maestra attraverso la quale il patriarcato si conserva modificando e adattando le strutture del dominio che restano prevalentemente inconsce, frutto di dispositivi che scattano prima che possiamo perfino pensarli, come avviene del resto per la lingua che parliamo, prima e più importante forma di espressione dell’essere umano e umana e deposito della cultura di lunghissima durata.
Aver presente la cultura implicita dentro la quale emerge ogni nuova contrattazione, anche la più minuta e concreta è quel processo che noi femministe abbiamo definito autocoscienza e significa affinare continuamente la capacità di ripercorrere le strutture simboliche e reali del dominio non solo nelle grandi scelte di vita ma nelle minuzie del vivere quotidiano e dell’interazione continua con persone istituzioni e complessità delle reti sociali nelle quali siamo inserite.
Per questo a me sembra utile la parola CONTRATTAZIONE per definire la cornice delle questioni che possiamo considerare ancora aperte per la piena esistenza sociale delle donne.
Contrattare significa prima di tutto aver consapevolezza di sé e del valore che abbiamo a disposizione, per la collettività delle donne significa affermare nuovi criteri di attribuzione del valore e renderne visibile l’oggettiva presenza nella vita reale.
Il fatto che lo sciopero, azione nonviolenta potente inventata dal movimento operaio, che dovremmo cominciare a definire anche in modo diverso per rendere visibile l’apporto fondamentale delle donne e quella presenza che, soprattutto in Italia, vide il protagonismo di categorie capaci di sfidare anche il fascismo, come quella delle mondine, non sia del tutto praticabile per i lavori della riproduzione, da quella biologica e domestica ad alcuni lavori sociali come la sanità e l’assistenza, ci deve suggerire che dobbiamo cercare un’altra strada collettiva e molto più incisiva e potente perché il tempo è arrivato.
Non mi dilungo su questa parte, sulla quale ho già scritto molto, ma l’ho accennata solo per ricordare che le lotte vincenti sono quelle che hanno radici profonde nella vita reale e quindi nella vita reale delle donne.
Una lotta può richiedere impegno e fatica, non mi piace usare la parola sacrificio che ha un’aura sacrale pericolosa, soprattutto per le donne alle quali il sacrificio è stato per secoli indicato come copione di vita, ma una lotta collettiva deve saper commisurare impegno e fatica con la meta e i risultati possibili.
Per questo avere chiara una piattaforma per la contrattazione è, a mio avviso, necessario per definire un percorso, le tappe, le azioni ma anche, non meno importante, le alleanze e, fondamentale, la rete di legami solidali che storicamente abbiamo definito sorellanza, anche e soprattutto per chiarire che la parola fratellanza, nella famosa trilogia politica rivoluzionaria, non ci comprendeva e quindi non ci riguardava.
Legami spesso ancora invisibili e fragili, tanto più oggi che la raggiunta emancipazione ha immesso le generazioni delle donne cresciute a partire dagli anni ’80 nell’opportunità di acquisire posizioni sociali pari agli uomini e di questa parità giuridica farne anche, purtroppo, omologazione al maschile, quando non direttamente asservimento e perfino approvazione acclamazione consenso, tornando inconsapevolmente proprio a quelle forme di dipendenza o addirittura subalternità, non del tutto occultate dallo status raggiunto, che le lotte per la parità volevano comunque superare.
Dal crollo del fascismo in Italia fino alla fine degli anni ’90 del Novecento le lotte delle donne, sparse, organizzate in associazioni, riunite in varie aggregazioni fino a quello che abbiamo definito Movimento, hanno conquistato la cittadinanza giuridica modificando gli accessi sociali come la cultura delle relazioni anche attraverso pratiche di contrattazione efficaci tra pensieri e condizioni diverse ma soprattutto tra donne con ruoli istituzionali e donne della società civile organizzata.
Una storia per molti versi invisibile che investe proprio la capacità di incontro, mediazione e quindi contrattazione tra donne per darsi reciprocamente forza e valore e farne buon uso nei luoghi istituzionali dove la presenza era numericamente scarsa.
L’incontro tra UDI e femminismo fu visibile nelle piazze ma trovò piena espressione al X congresso, dove le delegate provinciali regolarmente espresse dai circoli, così si chiamavano i gruppi dell’UDI che facevano riferimento a un Comitato provinciale, sono state invitate a portare una femminista, che nella maggior parte dei casi si iscrisse all’Udi mutandone in parte la rappresentazione politica.
Resta ancora sconosciuta e invisibile, nonostante pubblicazioni e testimonianza, anche a causa delle gravi deficienze di scuola e università, la storia delle relazioni tra donne dentro il Parlamento, dalla Costituente agli anni ’90, appunto, che si fondava anche su vaste e consolidate relazioni con l’associazionismo femminile.
L’UDI stessa è stata a lungo il luogo di forza per le donne elette nelle istituzioni da un partito per la contrattazione dentro il partito stesso. Ricordo sempre che nella comunicazione informale del PCI si distingueva tra le donne comuniste e le comuniste dell’Udi.
Una storia ancora da indagare, che ci sarebbe utile conoscere proprio per le competenze inventate e accumulate sul piano della capacità di contrattazione, dietro la quale c’era la consapevolezza dell’esistenza collettiva che, pur nelle multiformi differenze, riusciva a costruire condivisioni vincenti.
La stessa contrattazione ha attraversato il cattolicesimo grazie alle donne dentro le associazioni tradizionali e poi, soprattutto, nelle riflessioni e pratiche religiose di molti luoghi, come ad esempio le Comunità di base.
Con il femminismo abbiamo reso visibile l’intollerabilità dei vissuti femminili nelle relazioni più intime e abbiamo reso visibile la contrattazione dentro le coppie e le famiglie, riassumendo la pratica disseminata nelle tante storie di vita con lo slogan “il personale è politico”.
Personale per dire che tutto ciò che attiene all’esistere come persone ha un aspetto politico, a cominciare dall’attribuzione del genere alla nascita e dal significato sociale attribuito alla differenza sessuale femmina-maschio in relazione alla sessualità e riproduzione.
Abbiamo contrattato continuamente, ma non abbiamo quasi mai usato la parola contrattazione per definire l’azione politica che agivamo, politica anche quando era personale.
La vita viene prima delle parole che la raccontano perché la vita accade e le parole ci servono per comunicarla, dovrebbero servirci per comprenderla ed esprimerla ma qualche volta la cancellano, la camuffano, la distorcono.
Per questo trovare la parola efficace per dire, come evocava il bel titolo di un libro di Marie Cardinal, ci porta su un piano di esistenza e, per noi, di esistenza politica.
Entriamo nella vita sociale con un nome e un cognome che indicano una contrattazione avvenuta, in privato per il nome, dentro le leggi che disegnano il patto sociale per il cognome.
L’attribuzione del cognome indica l’affiliazione da parte di adulti e adulte nei confronti di un/una minore e indica sempre il piano simbolico delle relazioni umane innanzitutto tra i due generi maschile e femminile, e di conseguenza il piano materiale delle condizioni in cui veniamo collocate e collocati con la concretezza dei diritti ereditari economici, determinati nelle leggi, ma anche l’accesso ai capitali culturali e sociali veicolato dalla prossimità e appartenenza famigliare.
La democrazia è prima di tutto un sistema di regole condivise per la costruzione di un terreno di contrattazione, sempre mobile e aperto all’invenzione delle soggettività politiche.
Inizialmente escluse come genere, incluse in forme paritarie che ci assomigliano poco, ora forse è tempo di inventare il nuovo, proprio a partire dalla consapevolezza della nostra capacità contrattuale.
La Piattaforma dell’Udi è stata un tentativo in questa direzione e può avere un valore perfino oltre la mera testimonianza storica, me lo auguro.
In DONNE E POLITICA IERI OGGI E DOMANI: UNIAMOCI PER ESSERE LIBERE TUTTE, Atti del Convegno dell’A.DO.C. Assemblea Donne del PCI, Milano 3 ottobre 2020, Ed. La città del sole, 2021
[1] Cfr.: Pierre Bourdieu, Forme di capitale, Armando editore, Roma 2015
[2] Cfr.: Carol Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997
UDI- UNIONE DONNE IN ITALIA
PIATTAFORMA
PER UNA CONTRATTAZIONE DI GENERE
Noi donne, come genere, siamo state a lungo escluse dal governo della terra che abitiamo e di cui riproduciamo la vivibilità per la nostra specie.
Da sempre le parole dell’economia non sono adeguate a comprendere i corpi viventi femminili, tutta una enorme parte dell’agire umano, e questo perché l’economia si è concentrata su un’astrazione, quella dell’homo oeconomicus produttivo, che in realtà risulta nei fatti essere il maschio bianco occidentale adulto sano, il soggetto dominante nella rappresentazione culturale che cancella e/o mistifica la realtà della differenza di genere e di tutte le differenze, oltre che del transitare umano nelle diverse età della vita.
La femminilizzazione della povertà si accompagna da sempre a quello che è stato definito sviluppo economico capitalista, attraverso il controllo e il mutamento di significato sociale della presenza femminile, lo sfruttamento e l’assoggettamento dei corpi, l’uso della violenza e la manipolazione dell’immaginario.
Il carattere patriarcale della società è sopravvissuto a grandi mutamenti intrecciandosi a ogni nuova forma dell’economia, dentro le leggi, la forma dello Stato e delle istituzioni.
Dobbiamo ricordare che la cittadinanza in Europa nasce proclamando libertà e uguaglianza ma escludendo, a lungo, in modo violento il genere femminile.
Noi donne siamo state troppo a lungo straniere senza diritti, dentro le nostre stesse case, per non capire il legame profondo tra gli attacchi alla nostra autodeterminazione nelle scelte procreative e di vita, le nuove forme di sfruttamento e subordinazione del lavoro e il rinascente sessismo che, insieme a omofobia e razzismo, rilancia arroccamenti identitari affermati con la violenza.
Il diritto al lavoro, fondamento della Repubblica italiana, è il mezzo attraverso il quale affermiamo la nostra autonomia e la libertà della nostra esistenza, che non possono essere assoggettate a un modello monosessuato mortificante e lesivo per i nostri corpi e la nostra dignità.
Non è più tempo di chiedere tutele, inclusioni, parità: non siamo una minoranza che chiede di essere ammessa a godere dei diritti pensati escludendoci.
Le nostre vite sono il criterio con cui vogliamo misurare la politica perché un mondo a misura di donne è un mondo a misura di tutti.
LE QUESTIONI DA CUI SIAMO PARTITE
1)- Stare al mondo, mettere al mondo, venire al mondo.
La vita delle donne è strettamente legata al tema della maternità che coinvolge sessualità, contraccezione, salute riproduttiva e parto. Ancora oggi il corpo delle donne è più oggetto di ricatti e baratti politici che di attenta e approfondita riflessione; questo ci riguarda per l’enorme difficoltà di circoscrivere, nei termini possibili per una legge o per più politiche, temi come la maternità, la contraccezione, il desiderio di maternità, il rifiuto della maternità, la sterilità, e avere piena soggettività personale e sociale nelle scelte relative alla riproduzione.
Per quanto riguarda la gravidanza per altri pensiamo che il corpo delle donne non si affitta e non si compra perché bambine e bambini non possono essere oggetto di mercato. Ricordiamo gli innumerevoli problemi di salute fisica e psichica della donna che si presta a tale pratica.
La salvaguardia della vita e il desiderio di maternità rischiano oggi di essere assoggettati ai criteri del rendimento produttivo trasformando figlie e figli in oggetti di investimento a disposizione di chi vuole governare il destino dell’umanità attraverso la riproduzione delle gerarchie sociali ed economiche.
2) Quale mondo?
L’assoggettamento dell’agricoltura alle logiche capitaliste del profitto e del mercato ha compromesso gravemente l’equilibrio degli ecosistemi e nel nostro paese ha significato un dissennato abuso del territorio insieme al rilancio del lavoro schiavile, cancellato dalle leggi e quindi governato dalla criminalità organizzata.
Allo stesso modo oggi la forma neoliberista del rilancio capitalista sta conquistando l’area della riproduzione umana assoggettando al binomio sfruttamento-profitto tutto il lavoro di manutenzione della vita e la sua stessa riproduzione biologica e culturale.
La resistenza delle donne che alimenta il modello cooperativo delle relazioni umane, fondamento della conservazione della vita, vuole oggi rendersi visibile come base concreta per il rilancio del patto democratico costruito dopo i disastri delle guerre mondiali nel Novecento, che oggi viene mortificato e aggredito da fondamentalismi vecchi e nuovi, dall’autoreferenzialità della classe politica che si riproduce negli ambiti e sotto l’ala del potere economico sottraendo agibilità democratica alla cittadinanza e diffondendo modelli passivizzanti e aggressivi nelle relazioni umane.
L’equilibrio tra territorio e urbanizzazione deve rimettere al centro il diritto alla casa come luogo in cui si riproduce la vita umana, presidio di buona gestione della quotidianità, riparo e sicurezza per ogni individua/o contro rendite e speculazioni che, in Italia, hanno svuotato i centri storici e tengono artificiosamente elevati i costi di mercato per chi cerca casa.
3)- L’importanza della cultura.
I contenuti della trasmissione culturale nelle istituzioni fondamentali del territorio, scuola università sistema informativo e mediatico, pubblici e privati, vanno adeguati alle tante raccomandazioni per un uso non sessista (e nemmeno razzista, xenofobo, etnocentrico e omofobico) della lingua e della cultura in generale.
La modifica dei libri di testo scolastici è inscindibile da una riforma della scuola che metta al centro la relazione educativa tra i soggetti attraverso le condizioni più adeguate di spazio, tempo e numero di insegnanti, educatrici/educatori, operatrici/operatori, organizzate/i secondo principi democratici rispettosi delle soggettività di chi lavora e di chi fruisce del lavoro.
Vogliamo potenziare e diffondere l’impegno a segnalare, contrastare, eliminare, con azioni e lotte, tutti i tipi di messaggio sessista e offensivo che possiamo trovare nelle nostre vite, nelle strade, nei libri scolastici, nella pubblicità, nelle trasmissioni tv e, non ultimo, nei reparti ospedalieri e sale parto dove la donna è troppo spesso vittima di prepotenze, condizionamenti, intimidazioni, distrazioni, minimizzazioni di carattere sessista.
4)- Quale lavoro?
Noi donne, nell’interezza delle nostre vite, vogliamo stare ovunque al centro dell’organizzazione del lavoro, quindi delle contrattazioni nazionali e locali.
Osserviamo che l’attacco al lavoro in generale rappresenta anche un’appropriazione indebita del tempo di vita, soprattutto di quello delle donne che erogano servizi fondamentali dentro le case e nelle relazioni famigliari a tutti i livelli di età, configurando una vera e propria economia sommersa di cui fruisce chi si appropria della ricchezza del paese.
Consideriamo tutti i lavori della riproduzione fondamentali per ogni società perché garantiscono lo sviluppo della vita umana primo fattore indispensabile anche per la produzione che l’ha inglobata definendola forza-lavoro.
Riteniamo che la produzione debba essere al servizio della vita e non viceversa, misuriamo quindi lo sviluppo economico dalla qualità di tutti i lavori della riproduzione biostorica, domestica e sociale che devono rappresentare, nella complessità della loro erogazione, il sistema di indicatori che definiscono il benessere individuale e collettivo qualificando quindi la cittadinanza democratica.
Sanità, scuola, pubblica amministrazione, servizi alle persone e all’ambiente, formazione e ricerca, alfabetizzazione e sviluppo culturale, sono lavori che richiedono un modello organizzativo specifico, investimenti e garanzie relative alla dignità delle persone e delle loro relazioni perché il benessere dell’utenza non solo dipende ma coincide con il benessere di operatrici e operatori.
Riteniamo che vada costantemente rilevato il lavoro della parte di popolazione femminile definita inoccupata, compresa quella di donne che fruiscono del pensionamento.
Si tratta di una mole enorme di lavoro di educazione, cura, assistenza e accompagnamento di bambine/i, anziane/i, malate/i, persone temporaneamente o stabilmente in condizioni di disabilità, erogato nella forma dello scambio famigliare e/o amicale che rappresenta una parte fondamentale di economia sommersa e contribuisce al benessere del territorio e delle persone che lo abitano.
Riteniamo che vada costantemente rilevato il lavoro cosiddetto di volontariato, svolto prevalentemente dalle donne nei settori indispensabili al mantenimento del benessere collettivo, compresi l’accoglienza e l’insediamento delle/dei migranti, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione delle associazioni e le differenze tra dirigenza e operatrici/operatori in relazione al genere.
E’ dunque fondamentale una capillare raccolta dati, divisa per generi e per settori, che dia un’esatta idea di come si sta configurando tutto il lavoro femminile; in particolare per quanto riguarda i lavori della riproduzione e cioè tutti i settori della scuola, formazione e sanità, compresa l’assistenza e il sostegno a disabili, e tutti i settori della pulizia e cura degli ambienti, dalle case ai luoghi pubblici, dalla viabilità al territorio.
Riteniamo che per tutti/e le/i dipendenti dei settori della cooperazione occupate nei lavori della riproduzione sociale (assistenza, educazione, servizi alle persone nelle varie età e condizioni della vita) debba essere fissato un minimo di pagamento orario che complessivamente non possa dare un reddito mensile al di sotto del necessario per vivere dignitosamente e che quindi l’orario di servizio non sia frazionabile oltre una quota oraria che dia il reddito di cui sopra.
Vogliamo assumerci la responsabilità politica di sostenere concretamente le donne che svolgono tutti i lavori di servizio domestico e personale per una contrattazione che le renda cittadine a pieno titolo.
La visibilità di tutto il lavoro svolto dalle donne è la prima condizione per la crescita di un’economia sana.
Chiediamo che venga definito il diritto al tempo per sé, come tempo per la manutenzione della propria vita, l’autoformazione, la cura delle relazioni e quindi se ne tenga conto nella contrattazione del lavoro anche in relazione alle distanze da percorrere tra luogo di abitazione e luogo di lavoro, in particolare in presenza di figlie/i minori.
Ne consegue che:
a)- Una contrattazione di genere è necessaria affinché la concretezza dei corpi delle donne trovi risposte adeguate.
b)- La piena applicazione della legge 194 richiede una nuova regolamentazione dell’obiezione di coscienza, che garantisca (insieme al diritto individuale del medico) una presenza effettiva ed adeguata di medici non obiettori in tutte le strutture pubbliche preposte all’attuazione della legge. Le donne vanno sostenute nelle libere scelte che intendono operare in ordine a procreazione, parto, allattamento, puerperio. Consideriamo qualsiasi imposizione che metta il benessere del figlio/a prima di quello della madre, inducendo sensi di colpa e scelte lesive del benessere psicofisico della gestante/partoriente/puerpera, come una forma di violenza.
d)- Va ormai riconosciuto in modo oggettivo e non negoziabile che il lavoro, nella vita di una donna, si intreccia spesso, anche se non sempre, con la maternità e che questa non può più essere vista come una “sospensione”, ma ne può rappresentare una “diversa fase attuativa”.
e) Occorre promuovere e rifinanziare i fondi pubblici destinati a sostenere i congedi parentali, con riferimento a tutte le forme di lavoro, compreso il lavoro autonomo, dando veramente corpo al valore sociale e politico della maternità ed ai sostegni alla genitorialità.
Il congedo parentale maschile non può essere solo simbolico , come è ora di un giorno estendibile a tre e rivolto unicamente ai padri con rapporto di lavoro dipendente, ma di sostanza, con un numero di giorni congruo dal momento del parto, per significare pienamente la condivisione della nascita e dell’immediato contesto. Il congedo di paternità all’atto del parto, non può tuttavia essere inteso come condivisione del lavoro genitoriale che invece riguarda la cura della crescita di figlie/i e che necessita di norme precise e finalizzate ad hoc.
g)- Le politiche di conciliazione, di condivisione e di welfare, riguardanti uomini e donne in un percorso di genitorialità e/o di assistenza e cura, e di lavori domestici in ogni fase della vita debbono basarsi sullo stretto collegamento fra principi di welfare di carattere universale e generale, non derubricabili ed eludibili, e quelli di carattere locale e/o aziendale, che si aggiungono all’importante welfare familiare, dando valore al lavoro di sostegno degli anziani e di non autosufficienti,
h)- Occorre adeguare e rivalutare le forme di sostegno al reddito e gli sgravi fiscali previsti per la cura delle persone non autosufficienti. La cura delle persone è un lavoro che, al di là della cura familiare gratuita e relazionale – pur sempre spesso affidata alle donne di casa, quando non è sostenuta solo dal lavoro gratuito delle donne – è nella maggioranza dei casi esercitata da donne che lasciano il loro paese e le loro famiglie per occuparsi delle nostre famiglie. Questa contraddizione ci spinge a chiedere qualificazione e riconoscimento per il lavoro di assistenza e servizio alle persone che viene genericamente definito “di cura”.
i)- La condivisione del lavoro domestico e di cura di bimbi e anziani, ma anche la necessaria rivalutazione di tempo libero per sè e per gli altri, di benessere non legato al processo produzione-consumo; insieme alla rivalutazione dell’assunto “lavorare meno lavorare tutti”, richiede una riduzione dei tempi di lavoro per tutte e tutti.
l) Si raggiunga su tutto il territorio nazionale il numero di nidi adeguato alle aspettative europee che insieme con le scuole per l’infanzia, pubbliche, laiche ed inclusive, sono da considerare dentro al percorso educativo (0-6) di chi nasce e debbono essere gratuiti.
m) Va sostenuta e diffusa la cultura di una contrattazione di genere in tutte le relazioni affettive e/o di convivenza, affinché la DIFFERENZA paritaria diventi patrimonio comune e diffuso di responsabilità.
In conclusione
Una contrattazione di genere interroga in modo specifico le istituzioni, sia nazionali che locali (anche nel dialogo con soggetti diversi: imprese, sindacati, servizi, utenti degli stessi, associazioni di categoria, ecc.) e può davvero essere un punto di svolta per cambiare anche il volto della contrattazione sul lavoro e l’espressione complessiva di un diritto del lavoro che necessita di essere urgentemente rifondato in un’ottica inclusiva e di effettiva regolamentazione del rapporto, rimettendo al centro donne e uomini con i loro corpi e le loro relazioni.
E’ a partire dalle istanze delle donne che si devono ripensare le attuali strategie di superamento della crisi economica e sociale del Paese, rilanciando un dibattito trasparente e diffuso sulle scelte collettive relative al modello produttivo e ai parametri di valutazione dello sviluppo.
Questo, dal punto di vista delle aziende, è il concetto di responsabilità sociale; dal punto di vista delle leggi e delle Istituzioni è necessario consentire e costruire politiche che rilancino il lavoro inteso come diritto, come elemento di crescita umana e non solo economica; per le donne significa mettere al centro esigenze che diventano occasione di miglioramento collettivo.
Assumendo questo punto di vista possiamo affermare che le persone non sono il problema per la generale sostenibilità del sistema produttivo e sociale, ma il nodo nevralgico che ci obbliga a rivendicare una presa in carico collettiva del tessuto e del vissuto umano tramite l’istituzione del cosiddetto reddito di cittadinanza a difesa di una vita degna.
Nuovi lavori e nuove modalità di lavoro non sono esenti da altissimi livelli di precarietà e proprio su questo occorre intervenire, non bloccando le sperimentazioni, che spesso rispondono ad esigenze primarie di lavorare, ma governandole il più possibile immettendo criteri di sempre maggiore sicurezza e stabilità.
Il ritorno, con modalità differenti, alle attività nel settore agricolo, se è osservabile fra i giovani in generale, per le donne sembra davvero collegato, il più delle volte, ad un nuovo modo di vivere, di concepire orari e relazioni familiari e sociali e spesso si rivela essere una scelta per conciliare la propria vita con il lavoro oltre che con la difesa dell’ambiente e della salute.
Vogliamo aprire una contrattazione con le istituzioni perché tutte le decisioni politiche riguardano la nostra vita: le donne non sono il problema, ma parte fondamentale della soluzione.