Cos’è accaduto a quel mondo comune delle donne in cui la molteplicità dei pensieri delle vite delle storie delle appartenenze navigava sul mare della solidarietà e del rispetto, sulla base dei diritti conquistati?
Dove sono finiti i vent’anni di straordinaria sperimentazione politica dell’Udi tra l’XI e il XIV Congresso, 1982-2003, il dibattito sul rapporto tra rappresentanza e rappresentazione, l’appartenenza non come dichiarazione ma come storia, biografia individuale che s’intreccia nella collettività tra convergenze e divergenze, le responsabilità condivise e mai individualmente affidate, il criterio della rotazione delle funzioni, la trasparenza dei bilanci, mai semplicemente economici?
Com’è accaduto che le uniche donne sulla scena politica siano quelle omologate ai modelli femminili funzionali al patriarcato o, nei casi migliori, persone cresciute politicamente nei partiti nel sindacato o nell’università?
Eravamo giovani e abbiamo fatto anche errori: l’indifferenza verso la possibile costruzione di un patto tra soggetti diversi per un accesso a finanziamenti che garantissero spazi ad esempio, la chiusura aristocratica di alcuni centri con accessi privilegiati alle risorse che non hanno capito in tempo quanto anche il privilegio possa essere fragile se non è fondato su un allargamento democratico del diritto.
Non abbiamo capito che la concretezza degli spazi politici può essere abitata e sperimentata dalle generazioni successive perché la democrazia è un modo di muoversi nel mondo prima di diventare quel deposito legislativo che definisce lo stato di diritto.
Non abbiamo capito o siamo state sconfitte in una lotta impari contro poteri consolidati che hanno usato tutte le tecniche e gli strumenti della modernità per interrompere la memoria della nostra giovane esperienza politica.
E poi ci sono state, (lo ricordiamo?) certe incaute dichiarazioni di principio sull’avvenuta libertà femminile, quando nei fatti si trattava del compimento di quell’emancipazione che consentiva l’accesso ai diritti così come la politica dal ‘700 ad oggi li aveva costruiti.
Diritti fragili se non sono davvero per tutte, se definiscono la cittadinanza per esclusione, se non ne viene insegnata la storia, se non costruiscono dialogo politico, e infatti sono stati piano piano disattesi e poi velocemente aggrediti con arroganza nelle strutture sanitarie, nei posti di lavoro, a scuola, nell’immaginario di quell’interazione quotidiana in cui si costruisce l’idea di mondo comune.
In fondo sapevamo, quando, all’inizio, la parola d’ordine era per tutte “Liberazione”, che non di un fatto o solo di qualche legge si trattava, ma di un processo che avrebbe potuto coinvolgere tutte e tutti.
Diffidavamo, e oggi penso anche giustamente, della sola emancipazione e colgo meglio ora, con i miei cinquant’anni passati, quanto ci fosse di borghese in quell’avere semplicemente accesso a tutti i diritti.
Non la rinnego perché è certamente il punto di partenza ed è grazie a quell’uguaglianza dei diritti che io oggi scrivo, ma non abbiamo fatto i conti con quanto l’accesso all’eredità dei patrimoni famigliari e sociali avrebbe inciso sul tessuto di quella giovane solidarietà cresciuta sulla percezione di uno stereotipo identitario che solo insieme potevamo modificare.
Non ci sono eredità innocenti, neanche per le donne.
Oggi di fronte alla violenza che minaccia le nostre vite, e c’impone neppure troppo subdolamente vecchi stereotipi del femminile a ingabbiare i nostri sogni e mortificare la realtà, dovremmo avere il coraggio di fare una moratoria sulle differenze e ricominciare a tessere il tessuto della vicinanza.
Quando le donne rinunciano a pensare alla propria esistenza libera come luogo di costruzione di un processo pacifico di giustizia sociale, di pari opportunità per le generazioni successive (e non solo per i propri bambini e bambine), quando si chiudono dentro le piccole strategie di conquista del proprio microterritorio, (che sia una casa o una carriera) il patriarcato vince su tutte e i diritti vengono corrosi ad ogni livello.
Assistiamo indignate e offese all’erosione dei diritti come alla volgarità delle dichiarazioni pubbliche, gli uomini si esibiscono tra arroganza ignoranza e paternalismo, ma noi sappiamo che il patriarcato non vince senza le nostre piccole/grandi quotidiane complicità, senza i nostri silenzi, le nostre omissioni, la nostra accondiscendenza, il nostro rinchiuderci nel piccolo orizzonte delle sopravvivenze personali, delle necessità di accudimento famigliare, dei piccoli privilegi faticosamente raggiunti, dello smarrimento di fronte alle troppe cose da fare, del perbenismo, della rassegnazione, della stanchezza.
La più potente delle donne è comunque assoggettata ai giudizi di un’immaginario collettivo sempre più immeschinito così come l’ultima delle ragazzine che si prostituisce sulla strada.
Oggi nessuna donna è esente dalla paura della violenza e non è certo un privilegio che amplia la libertà quello di potersi pagare magari qualche guardia del corpo.
La sicurezza è inscindibile dalla libertà, perché è prima di tutto quella certezza felice che abbiamo dichiarato gridando “io sono mia”.
Non abbiamo mai lottato per avere la proprietà del mondo, ma solo la certezza di poterlo agire senza divieti senza guerre senza paure, vivere in pacifica libertà.
Scrivo noi perché ho ancora memoria di quel mondo comune delle donne che non è stato solo un sogno, ma la pratica generosa e coraggiosa di un modo d’essere che ha reso le nostre vite migliori e di questo “meglio” ha saputo contagiare tante e tanti che non possono aver dimenticato.
Scrivo noi perché resta in ogni dialogo in ogni scambio della mia vita quella straordinaria eredità
La nostra forza più grande è sempre stata la capacità di pensare in piccolo e agire in tempo.
Possiamo fare che il tempo sia ora?
Ognuna sa di quali e quante risorse dispone davvero, noi siamo abili amministratrici, possiamo metterne un pezzetto a disposizione di luoghi e tempi in cui costruire possibilità?
Rosangela Pesenti