LA CASA CHE SI TROVA OLTRE IL PONTE
Rosangela Pesenti
In AAVV, PRESENTE COME VITA, I quaderni della Porta, Effatà Editrice, 2017
I Ponti di Schwerin è il libro meno conosciuto di Liana Millu, eppure è il libro che più di altri rivela la sua straordinaria qualità di scrittrice e non solo di testimone.
Nell’Omaggio a Liana Millu, pubblicato nel 2000 sulla rivista del Centro La Porta, lo definivo
“un libro di cui abbiamo bisogno, un racconto che colma un vuoto in quella storia della letteratura che stenta ad essere scritta perché non riesce a comprendere scritture femminili che non possono appartenere ai criteri, alle definizioni, che hanno costruito in forma monumentale la storia della letteratura maschile.
Un testo necessario per quello che dice e straordinario per come lo dice, accostando i due piani della memoria, il prima e il dopo lager in una sorta di contrappunto al quale fa da sostegno armonico la strada del ritorno, sulla quale il capolinea di Schwerin è insieme la ricostruzione della vita e la scelta della propria identità, in un mondo in cui il prima e il dopo si saldano nelle stesse ipocrisie.
Scritto in un tempo in cui la moda presentava altre evasioni all’immaginario collettivo questo libro è apparso però con straordinaria puntualità all’appuntamento con un’intera generazione di donne che scopriva allora, collettivamente, l’autonomia come appartenenza a sé e responsabilità della propria vita.
C’è qualcosa di colpevole nel fatto che poche però allora l’abbiamo conosciuto (pure era stato finalista al premio Viareggio) e credo meriti un riesame attento e non superficiale, che contraddica anche quel giudizio su ‘uno stile non precisamente d’avanguardia’ che resta una svista madornale nella bella recensione che allora apparve su Repubblica e oggi nella nuova edizione. Non solo infatti il contenuto, che pure propone temi come lo stupro, l’aborto, l’intrinseca sopraffazione della sessualità maschile tradizionale, di un maschio che ancora non si è misurato con la crisi del soggetto, temi a lungo rimossi dalla letteratura e non solo, ma proprio lo stile rivela un modo di essere donna che non ha bisogno di stereotipate enunciazioni perché sa rendersi visibile nella singolarità di una narrazione che si esprime in una lingua appartenente al mondo dell’esperienza femminile fin nel tessuto delle metafore.(…)
Le immagini, i ricordi, le esperienze di Elmina, la protagonista, sono rese nel romanzo, con felice invenzione narrativa, con una lingua aderente, impastata col sentire stesso di una donna che è certo l’autrice, ma anche ognuna di noi, ed è qui la sua grandezza, che nelle sue parole riconosce il proprio modo di percepire il mondo fin nelle fibre più intime di quel corpo-pensiero che troppo spesso resta muto.”
Si tratta di un altro sguardo sul mondo, che viene da quell’alterità negata nella concezione dell’umano ancora oggi mortificata nell’UOMO astratto della concezione filosofica occidentale.
Nel romanzo un essere, una donna, si misura con l’emergere di se stessa come soggetto che percepisce il mondo e cerca nuove parole per dirlo, dopo aver attraversato l’inferno di una cancellazione atroce.
Solo la miopia della politica editoriale ha fatto mancare questo appuntamento alla generazione di donne che negli anni ’70 cercava parole da investire nella liberazione delle storie, dei gesti, dei sogni; io stessa ho conosciuto il libro solo con l’edizione del 1998, con vent’anni di ritardo, eppure il libro era e resta straordinariamente attuale.
Liana Millu era una donna colta, cresciuta quindi dentro l’ordine del discorso così come si è costruito nella dominanza linguistica e letteraria del maschile, eppure riesce a elaborare una lingua radicata nell’esperienza biostorica femminile, non nel senso di un linguaggio intimistico sentimentale, nel quale era confinata tanta letteratura femminile, o di un essenzialismo della differenza di un certo tipo di femminismo, ma una lingua che restituisce l’interezza dell’esperienza umana così come si radica in un corpo femminile costretto a confrontarsi con aspettative sociali, censure, interdizioni, violenze, definizioni costrittive ma anche con il desiderio di libertà, la speranza, e soprattutto la propria forza, tenacia, intelligenza, creatività.
La quotidianità delle donne diventa per la scrittrice un luogo da cui guardare il mondo, capace di fornire un tessuto di metafore che consentono di elaborare il vissuto, così come l’esperienza del lager diventa un filtro e insieme una grammatica incisa nel corpo prima che nei pensieri.
Un’esperienza che non è mai solo un insieme di vissuti situati da qualche parte nella memoria, ma memoria incarnata che modifica per sempre la natura dei sensi che percepiscono il mondo.
La lingua di Liana trascrive la costrizione e la liberazione dei corpi femminili, come la narrazione restituisce le segrete connessioni tra la vita e il lager nei passaggi di andata e ritorno.
Così la protagonista, esclusa dalla preghiera a scuola per la condizione di ebrea, di cui non è ancora consapevole, resta “sciupata e come rattrappita, strinata come il nylon toccato dal ferro caldo.”1 E non c’è paragone più appropriato per dire il segno irrimediabile di una violenza subita nell’infanzia quando il mondo emerge alla prima conoscenza attraverso il nome delle cose e l’esclusione diventa un marchio che niente può riscattare.
Più avanti i segni sul territorio della Germania sono “le unghiate furibonde della guerra”2 mentre la fede necessaria per sopravvivere in lager è “una cosa buona, come l’olio sulle bruciature, come stare in braccio alla mamma”,3 esperienza sconosciuta a Elmina come alla piccola Liana, precocemente orfana di madre.
E poi la convinzione delle donne in lager di avere una forza “tenace ed elastica”, 4 la stessa che rievoca nel ritorno come impegno a opporre la “resistenza elastica dove le difficoltà sarebbero rimbalzate”5 a qualsiasi cosa potesse capitare.
Il carattere del cugino, chiamato il fascistone per il servile e arrogante ossequio al regime, resta fissato nella “dieta di idee fisse” 6 di cui si nutriva, che lo rendono meschino anche nel dolore per la perdita del piccolo Marcolino, quando le rinfaccia di essere sopravvissuta, lei, considerata una poco di buono dalla famiglia.
Dal diario scritto a matita nel ritorno dal lager dovrà nascere il libro “di cui è già incinta.”7
Liana ha la capacità di andare al fondo della propria esperienza e restituirla nella sua levigata essenzialità, specchio di una condizione individuale che proprio nella sua unicità sa rivelarci i nodi cruciali, le scelte inevitabili, universali, di ogni vita.
Sono i corpi a pensare ma è la lingua che parliamo a formare e deformare il nostro pensiero. Le condizioni di vita, la nostra storia, non sono solo il contesto in cui cresciamo e viviamo, diventano carne della nostra carne, la piegatura dei gesti, le abitudini del quotidiano, la forma della nostra sintassi, il vocabolario dei significati profondi.
Il tema del libro è il viaggio di ritorno dal lager, ricordato per tappe e frammenti. Piano piano, come in uno spartito musicale, alla trama principale del racconto fa da contrappunto la memoria: ogni evento, ogni gesto, ne richiama un altro del passato e a poco a poco la continuità del tessuto si rende visibile, il prima e il dopo lager si fondono negli stessi pregiudizi, nella realtà di un mondo inconsapevole di ciò che ha prodotto.
Un mondo che non vuole sapere.
Il ritorno è quindi il tempo della memoria e delle domande, del giudizio e delle scelte, nel cammino di una donna che torna dal lager spogliata della sua identità umana e riconquista se stessa interrogandosi su ogni aspetto di quell’identità.
Schwerin è una città del Meclemburgo, una regione della Germania del nord, che fu luogo di smistamento dei deportati sopravvissuti dopo la liberazione dai campi.
Una città circondata da laghi, quindi i deportati favoleggiavano di un ponte a cui arrivare, un ponte da attraversare verso un altrove in cui li aspettava di nuovo la vita.
Il campo di Malkow era stato liberato dai russi alla fine di aprile e da lì comincia il cammino della protagonista, Elmina, verso Schwerin che dista circa 80 Km.
L’immagine del ponte indica una separazione e una connessione, in mezzo c’è qualcosa che taglia il cammino, che bisogna superare, ma il plurale del titolo ci indica già che non si tratta solo del racconto del ritorno, anzi, il ritorno è il motivo narrativo, ma non è il tema profondo del romanzo: il ponte reale si rivelerà nella sua pochezza materiale, diroccato, più una passerella che un ponte,8 mentre per la protagonista c’è un secondo ponte a cui giungere, simbolico ma ben più importante, che si rivelerà all’improvviso, come una scelta necessaria e discriminante della vita, un ponte che aspetta ognuno e ognuna di noi.
Il libro non è un’autobiografia, non ha quel senso convenzionale e illusorio che anni dopo Bourdieu avrebbe indicato utilizzando la negazione per il titolo del libro in cui espone alcuni elementi della propria auto-analisi.9
La protagonista non è Liana Millu, si chiama Elmina Misdrachim, eppure nel libro c’è tutta la materia viva dell’esistenza di Liana. Non è un diario e nemmeno la rielaborazione di quello che davvero scrive lungo la strada del ritorno, il Tagebuch10 che noi conosciamo dopo la sua morte grazie alla scelta di pubblicazione di Piero Stefani a cui Liana l’aveva affidato, anche se il tempo del racconto che fa da filo conduttore alla storia è, fino a un certo punto, lo stesso del Tagebuch, infatti cominciano entrambi i primi giorni di maggio.
Elmina, la protagonista, parla del tagebuch in uno dei primi capitoli, quando deve ripartire dalla fattoria in cui hanno fatto sosta e l’amica le ricorda di non dimenticarlo. “Piuttosto avrei dimenticato il pane. Quel Tagebuch con la copertina di finto coccodrillo e la serratura antindiscreti l’avevo raccolto il primo giorno della fattoria, tra libri sfasciati e una radio fracassata a calci. Dentro, era ancora tutto bianco.
Dimenticarmi il diario? Con una matita e una scheggia di specchio mi nutriva più di quello che mettevo nello stomaco. Quando avevo scritto ‘Forse, oggi è il 3 maggio’ era stato un momento grande. Potevo ancora scrivere!”11
Il Tagebuch reale testimonia il ritorno alla scrittura e alla vita accompagnando Liana fino a casa e porta come ultima data il 1 settembre.
Il Tagebuch del romanzo torna alla fine, per il Natale del ’45, il primo desiderato Natale in libertà trasformato nel tristissimo Natale del dopo, che le fa rimpiangere quello dell’anno prima in lager. Tornando verso casa dopo un pranzo abbondante Elmina confronta la situazione attuale in cui ha tutto ciò che aveva desiderato e scopre di avere nostalgia per il Natale precedente, nel gelo della baracca.
“C’era dunque una fame, una sete, una insonnia dell’anima più lancinante e dolorosa di quella del corpo?”12 si chiede, e immagina il proprio suicidio. Poi torna a casa, beve “rotta dalla stanchezza di quell’attacco acuto di infelicità”, prende il tagebuch, scrive la data: “Natale 1945 era …”13 poi non prosegue, si addormenta con la luce accesa.
La pagina bianca del tagebuch del romanzo è la porta aperta verso il secondo ponte, quello decisivo della sua vita, con cui concluderà la storia.
Stefano Zampieri nel suo libro Il flauto d’osso, proprio dopo aver citato una testimonianza di Liana, ci invita a non confondere la testimonianza letteraria con il documento, perché non ha una simile attendibilità, ma
“ciò non significa che valga di meno, anzi al contrario. La testimonianza letteraria si sovrappone al semplice documento introducendovi quell’elemento umano, di allargamento del discorso, di visione ulteriore, di sfondamento dei limiti, attraverso cui riusciamo a ricavare il valore più profondo dell’evento. Nessun documento, nessun elenco di dati, nessuna statistica, nessun verbale, nessun atto ufficiale, potrà mai presentare alla nostra coscienza il lato spaventosamente umano della realtà. Soltanto una testimonianza letteraria, magari attraverso l’imprecisione della soggettività, dell’apparenza, della sensazione, dell’immaginazione, può darci autentica presentazione dell’umano nel lager.”14
Anche nel suo primo libro, Il fumo di Birkenau,15 scritto subito dopo il ritorno, Liana ha scelto di non parlare in prima persona. Conosciamo la sua esperienza, che più avanti prenderà la forma generosa della testimonianza16, dallo sguardo con cui ci restituisce frammenti di vite raccolte dalla memoria come schegge che brillano per un attimo sull’orlo della voragine prima di essere inghiottite dal nulla.
Dopo questo romanzo tornerà alla forma del racconto per la raccolta La camicia di Josepha,17 pubblicata dieci anni dopo, in cui mette nuovamente in scena le contaminazioni tra vita e memoria.
Liana utilizza liberamente, anche se in modo rigoroso, i materiali della sua esistenza, perché ci vuole dire qualcosa di più, qualcosa di altro, che è certamente radicato nella sua esperienza di deportata, di destinata allo sterminio, ma non può essere circoscritto solo a questo.
Il filo cronologico del ritorno a casa, con le vicende che si snodano tra la fattoria del Meclemburgo, prima sosta dopo la liberazione di Malkow, nel maggio del ’45, e la conclusione, in un caffè di Genova all’inizio del ’46, viene continuamente interrotto dai flash back della memoria.
Questi termini, interruzione e flash back, mi sono sembrati quasi imprecisi per descrivere la struttura di questo testo, per il quale trovo più adeguata la metafora del contrappunto, perché il linguaggio musicale è costruito con rigore matematico ma arriva alle nostre orecchie come l’armonia che sa toccare le corde più profonde dell’animo.
Il libro, corposo, più di 300 pagine, è diviso in due parti: la prima di 37 capitoli, verso il primo ponte, Schwerin, e la seconda, 17 capitoli, con ritmo più incalzante; la linea melodica del contrappunto si snoda attraversandolo, trascinandoci dentro la storia che ci sorprende continuamente, per l’improvvisa torsione del pensiero dell’io narrante che in principio sembra parlare in prima persona nel presente e in terza persona dell’Elmina lasciata dietro di sé, ma poi ci confonde con i pronomi e il passato diventa anche quello del lager e il presente non è solo quello attuale del cammino di ritorno, è il presente del dopo, il presente storico della memoria.
C’è una continua connessione, contaminazione, come se le persone, gli oggetti, gli accadimenti del viaggio avessero un intrinseco dispositivo capace di attivare quelli che Liana definirà “i pulsanti magici della memoria” che attraggono nel presente i frammenti salienti della vita precedente di Elmina fino alle vicende che ha solo sentito narrare e che hanno portato alla sua nascita.
L’intreccio tra il prima e il dopo diventa così stretto che nella trama narrativa quasi non ci accorgiamo dell’arrivo al ponte di Schwerin, la cui presenza è modesta sul piano reale e non determinante sul piano simbolico.
Le contaminazioni della memoria innestano sequenze narrative diverse, continue. Tra le tante, una delle più significative è quella delle violette. Dopo una notte in cui ha sognato il ponte, Elmina si prepara a ripartire verso la meta di Schwerin e si chiede perché non sogna Oal, l’uomo da cui l’ha separata l’arresto a Venezia, eppure in lager era perfino riuscita a sentire il profumo delle violette che lui le aveva offerto una sera.
Le violette rappresentano una delle esperienze più intense di Liana, tanto che le troviamo già nel Tagebuch, quando Liana ricorda il cammino con le compagne, strette in cinque, nella notte gelida di Malkow, in marcia verso la fabbrica, ricorda il freddo, la stanchezza, il rumore degli zoccoli, “Eppoi improvviso il profumo delle violette”. Non scrive altro nel Tagebuch, non ha bisogno di scriverne perché le ricorda.
Le racconta qui, nel romanzo, riprendendo l’immagine del cammino verso il lavoro nella notte gelida del lager, quando cercava di rievocare le violette regalate da Oal più che la sua persona: “Amava Oal. Ma l’istinto di conservazione la spingeva a cercare conforto non tanto nel ricordo della sua persona, ma in quello delle cose, degli sfondi che con la sua persona erano connessi. Le cose, infatti, mancano del risvolto doloroso inscindibile da ogni relazione umana. Si dedicava alle violette di Oal evocandole con pedanteria, fino a vedere il filo bianco che le teneva unite, il puntino giallo nel cuore violetto scuro delle corolle (…)
Le pensava intensamente e con calma. (…) E, finalmente, le violette arrivarono. All’improvviso. (…) lLe vide e nello stesso istante le sentì sul viso. Una carezza profumata sulla bocca e il naso e le guance, una sconvolgente carezza di velluto”.18 Poi tutto torna buio, la foresta gelata in cui camminano, le compagne che la rimproverano perché ha sbandato.
Un’esperienza che definirà paranormale in un racconto successivo19, in cui di nuovo parlerà delle violette che diventano una sorta di correlativo oggettivo dell’irrompere del mistero nell’esistenza umana, il mistero che riguarda le domande fondamentali della vita.
Chi sono? È la domanda che apre la narrazione, e non a caso, visto che si finiva in lager a causa di un’etichetta identitaria: una legge ti definiva ebrea e la tua vita ne era travolta. Venivi estromessa dal consorzio civile prima e poi dal consorzio umano, fino all’annientamento. In lager diventavi una cosa, uno strumento da lavoro, un pezzo da eliminare.
Se l’identità è un insieme di etichette, queste etichette possono sempre diventare marchi dolorosi, ferite incise nella carne, cicatrici indelebili.
Nella fattoria della prima sosta, dove Elmina comincia a ritrovare se stessa, il primo elemento di percezione di sé è legato al corpo, che si misura con la frattura tra il bisogno di cibo e l’incapacità di assimilarlo. Il corpo sopravvissuto ha bisogno di un tempo per trasformarsi, ridiventare normale. Il cibo tanto desiderato può essere mortale.
“Ci invitavano a mangiare e noi ci si abbuffava finché, sporgendo dal tronco scheletrito, lo stomaco sembrava un pallone e quasi ci impediva di respirare.
Allora dicevo a Jeannette: vieni, andiamo sotto il mio ciliegio e lei si alzava a fatica, sbuffando e boccheggiando. Ci si ritirava, prima che i soldati cominciassero ad allungare pacche”.20
Poi nella fattoria, dove i soldati russi hanno portato del cibo, arrivano anche soldati francesi e questo è il secondo momento del confronto con l’identità: il riconoscimento da parte degli altri.
I soldati francesi, accomunati a Jeannette dalla lingua, la includono amichevolmente nel gruppo, mentre prendono immediatamente distanza da lei perché è italiana, quindi fascista, quindi persona di cui diffidare.
Torna con la memoria ai russi entrati come liberatori nel lager, che l’hanno apostrofata subito come “Italianka fascista capitalista”.
Elmina, come Liana, è stata catturata perché faceva parte della Resistenza.
“immaginarmi capitalista mi veniva da ridere e non ero nemmeno convinta di essere giudea, ero per la libertà, appassionatamente, perciò mi pareva che non bastasse nascere in famiglia ebrea per essere ebrei, bisognava prima di tutto sentirsi circoncisi nell’anima. Non amavo i supervisori divini, di conseguenza sia il Cristo, sia il Dio d’Israele erano fuori dalla mia orbita. Le chiese, tutte le chiese, solo quelle mi piacevano. Una moschea, per esempio; che intimo, fresco senso di raccoglimento doveva poter donare! Atea, ero ecumenica senza saperlo”.21
Un rifiuto delle etichette, che diventano sempre discriminanti, quando non peggio. Quell’etichetta identitaria di cui aveva già sofferto da piccola, quando a scuola veniva esclusa dal rito comune della preghiera cattolica imposta dal fascismo, era diventata condanna a morte per milioni di donne e uomini.
Italiana invece le sembra un tratto in cui può identificarsi. Lo discute prima e dopo la guerra, quando si parla di noi e voi. Litigava su queste distinzioni con il fidanzato e gli opponeva i fatti, raccontando che il nonno ebreo era stato con Garibaldi nella spedizione dei Mille. Il fidanzato le rispondeva che il nonno ebreo l’avrà fatto per interesse, facendo entrare in funzione il dispositivo pregiudiziale secondo il quale gli ebrei sarebbero caratterizzati da avidità e avarizia.
Il pregiudizio sotteso a quel ‘noi e voi’ si era tradotto nelle leggi razziali che l’avevano esclusa dall’identità italiana però in lager sulla stella gialla lei aveva la I a segnalare la nazionalità. Quindi lei dice: sono italiana perché sono nata in Italia.
Un’affermazione importante, forte, ancora attuale per il dibattito sullo jus solii nel riconoscimento della cittadinanza.
Rivendica quindi il senso di appartenenza a un territorio, non per tracciare confini nazionalistici basati su un diritto proprietario di origine famigliare, ma semplicemente perché il territorio in cui sei nata e cresciuta ti definisce, è la tua culla linguistica, culturale, ambientale, e la nascita è l’evento che rinnova il mondo.
Elmina si riconosce italiana e in questa scelta di appartenenza c’è anche l’assunzione della responsabilità di fare i conti con la storia di questo territorio politico.
Il tempo interiore della scoperta di sé, delle scelte, si misura lucidamente con il tempo esterno, quello del fascismo, dell’adesione di tanti, delle complicità, dell’ignavia, di come il fascismo continui anche dopo e sia presente nelle pesanti tracce lasciate nelle coscienze.
Anche nella lingua restano queste tracce: nel dopoguerra gli amici parlano di razza senza sentire, scrive, l’odore di corpi bruciati, l’odore di sterminio che esala da questa parola. Come possono parlare di razza, pronunciare questa parola che prima delle leggi non esisteva in quest’uso.
La questione dell’identità, continuamente imposta dalle circostanze esterne come uno schiaffo, costringe Elmina a fare i conti con se stessa: “Ad ogni modo fu sotto quel ciliegio e in seguito alla scortesia con quel Gilbert che cominciai a vedere l’Elmina che ero stata, che il tempo aveva dissolta, di cui ero contemporaneamente la spettatrice, il giudice e l’erede”.22
Queste tre modalità del rapporto con se stessa guidano tutto il testo, sono la chiave di lettura delle connessioni della memoria.
La spettatrice: è il modo con cui guarda l’Elmina che è stata, spettatrice che indaga, decifra, rielabora, riporta alla memoria il dolore e la fatica di una ricerca di sé che richiedeva la ribellione alla famiglia, alle consuetudini, alle definizioni del femminile, per poter liberare il respiro e i pensieri.
Giudica: se stessa prima di tutto, descrivendo il percorso dei sentimenti dentro l’accadere degli eventi.
Infine l’eredità: scopre di aver avuto in eredità se stessa, il fardello della vita dopo l’inferno di cui nessuno vuole sapere, una vita che significa assunzione della responsabilità di scegliere.
Camminando verso il ponte Elmina scopre che la responsabilità è proprio il cammino.
Il ritorno è perciò il luogo in cui il prima trova significato, viene disvelato nel suo essere anche preparatorio del dopo, come se tutto ciò che è accaduto prima le fosse improvvisamente più chiaro, come se riuscisse a dipanare, ricordo dopo ricordo, non solo la sua storia, ma la storia dentro cui si è sviluppata la sua esistenza e la piega spaventosa che ha preso. Elmina-Liana decifra la cultura della sua epoca, il fascismo nella meschinità quotidiana e la cultura su cui si innesta: quella delle relazioni fra esseri umani, tra classi sociali, il sistema parentale, i rapporti tra uomini e donne, i pilastri invisibili che sostengono tutta la struttura la sociale.
Perché il dopo, per chi torna dal lager, inizialmente è insensato. Lo è prima di tutto per il corpo, rispetto al quale la percezione degli altri diventa specchio straniante.
Elmina è a disagio, non si riconosce nella donna che vedono gli altri. Sembra che tutti vogliano dimenticare, infilare la guerra, e soprattutto il lager, in una parentesi, separata dal prima e dal dopo.
Comincia la seconda parte del romanzo scrivendo: “Del ponte di Schwerin, che non era un ponte, raccontavo poco … Rievocazioni me ne chiedevano tante che a forza di essere ripetute cominciavano a diventare piuttosto meccaniche”. 23
Il giudizio opera anche sulla nuova Elmina, quella tornata, quella che viene portata in giro a parlare, a testimoniare la condizione del lager.
L’inizio della seconda parte del libro si lega all’inizio della prima parte, per il fastidio dell’etichetta, che ora è diventata quella del testimone.
Viene portata in giro a parlare, le chiedono di mostrare il numero impresso sul braccio, poi la portano a pranzo, sono gentili.
In uno di questi pranzi osserva severamente se stessa che racconta l’Elmina di un anno prima ed è a disagio, perché le immagini non combaciano: “quella di un anno prima non aveva niente in comune con l’Elmina che sedeva a capotavola, con i capelli lunghi, qualche dente nuovo, cipria, rossetto e la carrozzeria provocante. Quell’Elmina rimessa a nuovo ne aveva un’altra che la guardava, dall’interno, con distacco e tristezza. Insoddisfatta.”24
Le cose non possono tornare come prima. L’allegria, la gentilezza, le parole stesse: tutto le sembra falso come se fosse investito dalla deformazione delle nuove convenzioni dentro le quali perfino la testimonianza rischia di diventare un rituale addomesticato.
Sente che perfino il giusto ritorno del corpo alla salute le pesa quasi come una maschera e c’è un’insofferenza dell’anima molto più grande di quella del corpo.
Una sofferenza che riguarda l’essere donna, riguarda lei nel suo essere donna, e torna con la memoria all’ospedale di Merano, l’ultima tappa prima del ritorno a casa.
Nella stanza, dove sta con la sua amica, fa caldo e se ne stanno sul letto nude godendosi proprio in quella nudità la nuova libertà del corpo. Un corpo che avevano conosciuto straniero nella ripugnanza dei giorni in cui erano solo pezzi, strumenti da lavoro.
Il rimprovero dell’infermiera arriva come una doccia fredda. Sono sporcaccione, depravate, le guarda con il sospetto con cui verranno guardate tutte le donne che tornano dal lager, il sospetto che abbiano fatto le prostitute.
Le parole in bocca all’infermiera suonano atroci sarcastiche violente: “Troppo comodo imputare tutto al lager, avete sempre il lager in bocca, ma queste sono abitudini vergognose, vanno bene solo in certi posti, non c’erano camicie in lager, non c’erano reggiseni, mutandine?”.25
Con questo romanzo Liana ci mette davanti al dopo, che fu doppiamente amaro per le donne e solo con fatica emerse approdando alla parola, alla scrittura, alla conoscenza.
Elmina, che giovanissima ha cominciato a scrivere per un giornale, ha sognato di diventare giornalista, poi ha vinto il concorso magistrale e si è allontanata da casa per lavorare ribellandosi alla famiglia e al destino confezionato per lei.
Nella sua ricerca di emancipazione aveva già conosciuto, prima della guerra, la violenza sul corpo femminile, che è l’interdizione degli spazi, la manipolazione della coscienza, l’impedimento alle scelte, al dispiegarsi dei talenti, anche l’esperienza della relazione con l’uomo di cui le donne vengono definite appendici, a cui sono destinate con il matrimonio, e la scoperta di una sessualità maschile che è subdola violenza nelle carezze lascive dell’amico di famiglia pedofilo che approfitta di lei,26 e poi violenza dell’imposizione, che diventa stupro,27 inganno, abbandono, fino all’esperienza clandestina dell’aborto.28
Le leggi razziali hanno interrotto bruscamente il suo cammino di liberazione eppure non è tonata a casa, si è adattata a fare la serva pur di essere indipendente. Poi è entrata nella Resistenza e poi … la fine di tutto, la deportazione.
Nel ritorno dal lager le scelte precedenti diventano consapevolezza del suo esistere come donna. Un’esistenza che viene indagata, con l’occhio del giudice, come se l’esperienza del lager fosse anche una lama di luce che svela gli angoli bui della coscienza, ricavando però dalla concretezza dell’esperienza storica femminile, anche in lager, strumenti di lettura per una forma di comprensione della realtà utile a tutti.
Anche l’amore cambia: quello brevissimo con Willem, l’olandese, un attimo sulla strada del ritorno, fatto di tenerezza, comprensione, reciprocità tra due esseri che hanno attraversato lo stesso inferno e si riconoscono nei gesti di un rapporto che sa essere anche compassione, fa parte della scoperta di sé, di una nuova verità dell’anima rivelata nell’esperienza del corpo.29
Willem non sopravvive al viaggio, di cui diventa il ricordo più caro. Un ricordo che non può raccontare, ma che dà forma allo sguardo con cui giudica il rapporto con l’antico amore ritrovato, l’uomo con cui era stata arrestata e che torna a cercare a Venezia.
Il primo Natale a casa, tanto desiderato, è triste, la vita che riprende come prima, con gli stessi riti, non le appartiene più e si trova incredibilmente a fare il confronto con il Natale del ’44, in lager.
“Un anno fa. Anche il natale in lager aveva avuto le sue discussioni. Con le fette di pane, il boccone di margarina e il cucchiaio di marmellata del supplemento natalizio, Jeannette intendeva preparare tante tartine piccolissime. Io invece sostenevo che era meglio farne una sola, grande. Da addentare! (…) E la presentazione, il modo di presentare è molto importante. Prima di tutto devono essere soddisfatti gli occhi! (…) Jeannette mi guardava disgustata.”30
Hanno mangiato le tartine sedute sotto i ghiaccioli che pendevano dal soffitto della baracca eppure Elmina lo rievoca con rimpianto, come un Natale pieno di speranza.
Il cibo è un codice per esprimere sentimenti, relazioni, un linguaggio in cui il lager non può entrare, che trasferisce la dura realtà di deprivazione, un’unica fetta di pane, in uno spazio simbolico capace di farsi reale più della realtà.
Il cibo rappresenta il recupero di un mondo femminile che non è quello della subalternità, della chiusura negli spazi angusti del gesto ripetuto per costrizione e noia, ma è quello della creativa aderenza ai bisogni della vita, in cui mangiare non è mero atto fisico, trasformazione chimica, ma è atto pienamente bio-logico, bio-storico.
Liana ne ha parlato anche nella sua testimonianza al convegno sulla deportazione femminile del 1994, raccontando la resistenza minimale delle donne fatta di gesti quotidiani, perfino di gesti frivoli, come quello della sua amica Jeannette che invece di leccare il residuo di margarina rimasto sulla mano se lo passava intorno agli occhi, come crema antirughe, o quello raccontato dalla sua amica Bianca Paganini Mori che a Ravensbruck cercava di sistemare i capelli appena cresciuti con bigodini di fortuna.
Le donne insaporivano lo scarso e deprimente cibo del lager con i racconti e le ricette dei loro paesi ed anche questo era un modo di avere fede “Quando tu verrai a Parigi … quando voi verrete a Genova”.
Anche gli uomini parlavano di cibo: “Ma poteva capitare un Jean Améry seccatissimo: lui voleva parlare di filosofia, discutere con interlocutori dotti: le ricette culinarie della moglie che insisteva a raccontargli un compagno di letto lo esasperavano.
Anche tra le donne c’erano delle intellettuali. Ma, sicuramente, nessuna avrebbe rifiutato un’apertura gastronomica. Nella saggezza femminile c’era anche questo”.31
Il Natale del ’45 torna il rito che si svolge intorno al cibo abbondante. Lei ha mangiato, bevuto, dormirà in un letto comodo eppure tornando da quel pranzo pensa al suicidio.
Non si sentono rullare i tamburi nei passaggi cruciali della vita: sono momenti in cui è lo scatto della coscienza a trasformare tutto dando una nuova direzione a tutta la vita futura.
A Venezia Elmina aveva ritrovato il suo amore, quello sognato a lungo in lager, che però nel frattempo si era sposato.
Ridiventano amanti, ma quando lei gli si rifiuta, perché non vuole seguirlo sulla strada della falsità e dell’ipocrisia, la prende con la violenza.
Il secondo stupro del libro, al quale la protagonista riesce a sottrarsi solo perché i lavori di Auschwitz le hanno rafforzato i muscoli,32 si presenta nella quotidianità di una violenza maschile sulle donne che riusciremo a nominare pienamente solo dopo anni, come dimensione delle relazioni e non emergenza occasionale o crimine eccezionale che sono gli eventi aggravanti di una normalità criminale legittimata ancora a lungo perfino dalle leggi.
Elmina si sottrae, lo abbandona e se ne va in un bar, sola, desolata.
Si sente abbandonata, senza certezze, senza sapere da dove ricominciare a vivere, poi guarda le sue mani, vede le sue mani, e qualcosa la spinge a posare una mano sull’altra, come se l’una potesse infondere sicurezza e conforto all’altra.
“Ti darò una casa, disse a se stessa, ti proteggerò. Quella schiarita interna diventava sempre più vivida, comunicandole un senso di liberazione e di luce, come un orologio che ha ricevuto la carica la sua mente cominciò a pensare, il suo cuore ad aprirsi. Era sola, era libera, era forte. Quante cose aveva davanti”.33
C’è una casa che va lasciata e c’è un tempo nomade per trovare se stesse, prima di quella casa che si trova solo oltre il ponte.
C’è un pezzo dell’esperienza femminile che va riconosciuta, nominata e lasciata. Non possiamo dire che tutta l’esperienza delle donne è ricchezza perché sarebbe la riduzione all’indistinto di una generalizzazione falsificante.
Il pezzo che va lasciato del femminile è la subalternità, la dipendenza dell’animo, l’assunzione dello sguardo maschile su di sé come forma di colonizzazione del pensiero e mortificazione della vita.
Elmina ci indica il ponte al quale tutte dobbiamo arrivare, lo indica alla generazione di donne nata dopo Auschwitz come dovere morale di assumere una cittadinanza facendo i conti con la storia delle donne che hanno aperto la strada con le parole e le opere.
Qualche anno fa, scrivendo proprio di cittadinanza, affermavo che dietro lo sfavillio delle parole libertè, egalité, fraternité gli uomini hanno nascosto la realtà oscura della cittadinanza fondata sull’esclusione, sulla proprietà, anche delle donne, e sul mestiere delle armi.
La rivoluzione delle donne ha come parole chiave: Autodeterminazione, Responsabilità, Cura e l’ultima pagina di questo libro le esemplifica nel modo più limpido.
La sensazione di Elmina è l’eredità in cui possiamo riconoscerci: “Aveva la mente piena di pensieri che non pesavano.
Finalmente. Prese la borsa, il giornale. Col suo lungo passo deciso si avviò verso il nuovo ponte di Schwerin della sua vita”.34
Tutte noi dovremmo avere il timore di Elmina di essere, nel dopoguerra, “ingrassata nell’animo”.35
L’11 maggio del 2000 Liana Millu mi scriveva ringraziandomi per “La sua recensione così completa e così acuta. Che dimostra così chiaramente di aver capito, ciò che quasi tutti gli altri non hanno capito (o non hanno voluto capire) Cioè che il libro non è solo il ‘ritorno a casa’ (che poi non c’era!) ma è la ribellione di una ragazzina degli anni ’30, femminista senza neppure conoscere la parola e il durissimo, infelicissimo lungo cammino per raggiungere i 21 anni e potere rompere i ponti e andarsene a lavorare, a essere libera. Durò un solo anno, 37/38, poi … verso la tragedia.
Un’infanzia (senza madre) malinconica, una adolescenza e prima giovinezza infelicissima, una gioventù tragica. E ora? Una vecchiaia bella, “non temo, né spero, né aspetto, ma guardo fisso il sole che tramonta” (Levi) e ho gioie come quella di leggere il suo articolo e l’iniziativa di La Porta. Dio la benedica. Grazie”.36
Il bene dire di Liana ancora mi accompagna come un dono che si rinnova continuamente nella vita.