Diario di viaggio 10 gennaio 2008
Sono stata in Palestina a natale, nelle vacanze di natale come diciamo noi insegnanti.
Sono tornata dalla Palestina muta, un silenzio che non riesco a rompere, un silenzio su cui s’incrostano come sempre i feroci ritmi quotidiani.
Feroci, uso parole inadeguate. Com’è andata mi chiedono, ma nessuna ha davvero voglia di ascoltare
Le fotografie che ho fatto sono ripetitive, muri macerie filo spinato.
Ho fotografato prigioni e gabbie perfino quando erano irrilevanti, fiori dietro la rete di un giardino, erba che cresce accanto a macerie come ce ne sono anche da noi. Ma quella è la Palestina. Un dolore che si rinnova dentro crescendo come una paralisi. Rinnova vecchi sogni in cui urlo in mezzo a tanta gente e nessuno ascolta.
Non riesco a dimenticare Nablus, forse perché era notte, forse perché eravamo passati a piedi da un check point , forse …
26 dicembre 2007
Arrivo con largo anticipo alla Malpensa. Mi accompagnano i ragazzi che restano finché non incontro la nostra referente, una solida energica pacata acuta sobria signora milanese, insegnante penso, e lei conferma sorridente, in pensione. Nel gruppo spicca una meravigliosa signora in rosso che, scopro in aereo, si occupa dell’eccidio di Cefalonia in memoria del padre, uno degli ufficiali fucilati.
Lunghissima attesa all’aeroporto di Zurigo, spazio lucido e rarefatto, conversiamo amabilmente di miele mangiando pessima pizza. Che cosa ci faccio qui? Cosa cerco?
Mi avventuro lungo larghi deserti corridoi in cerca di solitudine, ripasso mentalmente le tappe di una storia in cui s’intrecciano e divergono le decisioni dei governi, le tappe di crescita della società civile, le molte associazioni, le troppe vittime, le minute vicende individuali conosciute o immaginate.
La Palestina è una carta geografica sempre imprecisa, una vicenda spinta ai margini, dai manuali di storia, dalla politica, dalle coscienze.
Guardo da lontano il nostro piccolo gruppo, tranne una ragazza sono tutti più o meno della mia generazione, la tipologia cresciuta nei dintorni di quel tempo tra ’68 e femminismo che è diventato quasi un tratto etnico-geografico, senza che ci sia più un linguaggio davvero unificante.
Come se la diaspora delle molte sconfitte avesse fatto di noi gli abitanti di una nuova babele.
Sconfitte… generalizzo e non dovrei, qualcuno si è dedicato al proprio particulare e si considera vincente.
Comprendere le vicende della Palestina significa ripercorrere la nostra storia e insieme il silenzio di una memoria collettiva in cui la storiografia scolastica da manuale e la religione dominante hanno depositato gli stereotipi dei miti nazionali che ancora avvelenano la convivenza europea.
Miti nazionali, etnici, religiosi, razzisti, maschilisti, sessisti, violenti.
Martellano ancora le domande degli studenti, sempre le stesse, e nel ricordo sento solo la fatica delle mie risposte che pure sono state sempre precise documentate convincenti.
Nella storia insegnata a scuola pochi giorni separano il racconto della Shoah dalla fondazione dello Stato d’Israele. In un paio di settimane arriviamo a parlare del ’67, ma in mezzo ci stanno l’Algeria e la decolonizzazione, la Costituzione italiana e il governo Tambroni, l’assassinio di Gandhi, e poi il Vietnam e poi la Cina, la Cambogia… E le donne, dove sono le donne?
Difficile spiegare le questioni a chi pensa di abitare in una terra per diritto acquisito e guarda con insofferenza i pellegrini della modernità, che approdano al nostro lusso volgare e spocchioso con enormi valige e occhi pieni di speranza.
Si può amare una terra e sentirsi stranieri. Più che straniera mi sento spesso ripudiata dal mio paese, ma il mio è un sentimento muto, un dolore nascosto dietro la quotidianità del lavoro nella scuola dove ormai sono un’anziana insegnante stimata e rispettata.
Difficile insegnare a distinguere i governi dalle popolazioni, e dentro le popolazioni le tante diverse storie e dentro le storie gli individui e tra gli individui gli uomini e le donne, le ragazze e i ragazzi, età provenienze inclinazioni talenti possibilità scelte vincoli occasioni perdite stagioni …
Non so perché sono qui, non voglio una vacanza e non lo sarà: mi fido di chi ha organizzato, mi fido di me stessa e dei miei ricordi, del poco che mi basta per capire in un volto una storia, anche se si tratta di anni e anni fa, in quella preistoria della mia vita in cui credevo davvero potesse avere un senso la mia passione per la politica, per la cittadinanza.
Questa giornata è come un limbo, un luogo di decantazione dei pensieri; nell’anonimato elegante pulitissimo e semideserto dell’aeroporto di Zurigo formiamo un gruppo di calore umano.
All’imbarco per Tel Aviv c’è un gruppo di ebrei ortodossi. Sono infastidita dai commenti che suscitano. Mi sembra nient’altro che l’altra faccia della medaglia di quello che loro rappresentano.
Trovo insopportabile che qualcuno tenti di spiegarmi le ragioni dei Palestinesi e la malvagità dei coloni. Non sopporto i fondamentalismi e non provo interesse emotivo per le religioni, ma ho imparato che l’unica strada per la convivenza è guardare l’altro come un possibile “convivente” e soprattutto cercare sempre oltre le apparenze.
Ho imparato a convivere con il fondamentalismo cattolico che spesso i cattolici non riconoscono. Non m’importa come si vestono gli ebrei ortodossi, m’importa l’uso politico che fanno dell’abbigliamento quando significa occupazione, esclusione, subordinazione, razzismo, sostegno alle pratiche di apartheid, violenza e terrore nei confronti di popolazioni inermi. Ma di questo ogni responsabilità ha nome e cognome. Quel ragazzo goffo nell’abbigliamento tradizionale potrebbe diventare domani una mano tesa verso la pace, verso il suo vicino palestinese, perfino senza cambiare abbigliamento, anzi no, potrebbe innamorarsi di una ragazza palestinese… Fermo il pensiero, non ho scelto questo quaderno per scrivere un romanzo.
Lunga e difficile è la strada della cittadinanza, siamo ai primi passi.
Per fortuna arriva il gruppo romano, ragazze e ragazzi che ci turbinano intorno nella festa delle presentazioni. La maggioranza sono assistenti di deputati europei.
27 dicembre
Dopo il buio denso della notte, appesantita dalle faticose lentezze di ogni tappa del viaggio, mi sveglio nella straordinaria luce di Gerusalemme che inonda la stanza come un suono di trombe e campanelli.
Alla riunione con Luisa Morgantini prendo appunti diligenti del programma. Lei è la stessa donna che ricordavo, solo un velo di stanchezza nello sguardo, occupa una prestigiosa carica istituzionale eppure è qui con noi, infaticabile come sempre, tessitrice attenta di relazioni umane intorno alla necessità della giustizia che cerca con passione da sempre per questo angolo martoriato di mondo. L’avevo conosciuta al primo incontro nazionale delle Donne in nero a Roma e ricordo di allora la straordinaria capacità organizzativa, che certo non ha perso con gli anni, anzi.
Mi guardo intorno, visi interessanti, avverto in tutti un filo di emozione. Si parte.
Primo incontro. Il funzionario dell’OCHA parla lentamente usando termini precisi, ascolto la traduzione di una delle ragazze, ma molte cose le intuisco. I dati sono impressionanti. Parla di Gaza: dal settembre 2007 dal confine non passano lavoratori, commercianti, merci, il mare è agibile per 12 Km. dalla costa, i dati sono gli stessi che ho già letto, ma qui sono di colpo fisici: persone, donne uomini anziani adolescenti di cui si discute il futuro, bambini blindati nelle case, mille e mille voci che non trovano ascolto e il mio stomaco che si contorce. Illustra i muri della Cisgiordania, la mappa degli insediamenti israeliani che nessuno riesce a fermare, il numero dei check point che deve essere continuamente aggiornato: si tratta di apartheid, non c’è altra definizione se non questa che ci è già tristemente nota.
Usciamo nel sole, senza parole. So che questa è solo la premessa, le carte che ci ha illustrato sono la mappa da usare come moltiplicatore dei frammenti di realtà che incontreremo. Ci affrettiamo verso l’autobus.
Due soste sul monte degli ulivi. Prima il paesaggio dell’apartheid che deforma lo sviluppo urbano della città: ci indicano le strade vietate alle auto palestinesi, le nuove costruzioni ebraiche conficcate nei quartieri palestinesi dall’iniquità di leggi dichiaratamente asimmetriche, i lunghi muri di cemento sono cicatrici visti dall’alto, da lontano l’occhio riporta al cervello la sua percezione limitata, so che sono ferite aperte nella vita delle persone.
Come se il governo israeliano riversasse qui, con una compulsione autodistruttiva, l’atroce storia dei ghetti costruiti in Europa fino al piano di Hitler. Perché se oggi le vittime sono i palestinesi, nessun israeliano sarà al riparo da questo disastro. Un’ipoteca spaventosa sul futuro di figli e figlie.
Questo è uno Stato senza costituzione e il fondamento religioso diventa sempre fondamentalismo legislativo. Non potevano ignorarlo nel ’48 alle N.U.
Trovo una certezza per me. La terra a cui sento di appartenere è la carta costituzionale, quei primi 11 articoli in cui ci sono anch’io, donna, figlia di operai, stirpe di analfabeti, serve, contadini, emigranti.
Una carta, fragile, aggredita. Ho vacillato nel ’91, quando la guerra è riapparsa nella mistificazione di parole e immagini.
In fretta in fretta su una terrazza che si apre sullo splendore di Gerusalemme sdraiata nel tramonto. Al centro la cupola della moschea riverbera oro. Fotografo un cammello messo lì per i turisti, il suo quieto sguardo indifferente e bonario, noi intorno siamo goffi e scomposti con le nostre macchinette per la memoria e parole insulse.
So che saranno giorni così: immagini veloci e un chiodo conficcato nei pensieri.
Arriviamo ad Anata. Entriamo in un salone che poi ci diranno adibito anche a palestra. Una lunga fila di tavoli al centro fino ad una pedana con microfoni. Lungo un lato una fila di bambini e bambine di età diverse si esibiscono in un saggio di judo. Il nostro applauso è debole, penso che siamo sopraffatti da un’accoglienza che non sentiamo di meritare.
Luisa fa spostare i tavoli per consentire la vicinanza ed evitare i microfoni. Ascoltiamo il sindaco e poi Bassam, padre di Amira, uccisa bambina da una pallottola israeliana, e poi un ex militare israeliano. Storie di disertori, di rifiuto della guerra dall’una e dall’altra parte. La traduzione mi arriva necessariamente sintetica, ma gli sguardi sono interi discorsi. La scelta nonviolenta come unica strada per la pace è cresciuta nei pensieri come in ogni muscolo di questi uomini, sui volti i segni di un lungo percorso. Trattengo la commozione che sarebbe banale quanto le parole.
Il posto mi ricorda le vecchie case del popolo e gli uomini quel mondo onesto di impegno politico e sociale che ho conosciuto quando sono entrata nel PCI, trent’anni fa. Mancano le donne, come allora, come ovunque. Assenti le avverto presenti, come sempre, come ovunque.
28 dicembre
Partiamo puntuali. Lungo le strade si aprono file di negozi con merci dall’identità incerta, forte odore di spezie e zaffate di fritture dolci, sopra si alza lo sviluppo architettonico delle case che presentano rifiniture approssimate, tutto sembra incompiuto o appena costruito. Porte e finestre dal bel disegno antico si aprono sulle facciate da cui penzolano grovigli di fili elettrici, balconi e terrazzi sono il sostegno di parabole e antenne, la sobria eleganza di archi a sesto acuto a cui mancano fioriture. Palazzoni si stagliano contro il cielo porcellanato e non riescono ad essere brutti come i nostri. La città qui sembra indossare una sobrietà dimessa ma funzionale, un taglio essenziale adeguato ad una vitalità dignitosa, che resiste alla mortificazione delle risorse e delle possibilità.
Mi trovo di colpo davanti al muro, uno dei tanti, rinuncio alla penna per la macchina fotografica, dieci metri di cemento sovrastati dal filo spinato tagliano in due la strada, i disegni di ironica denuncia aggravano il senso di morte dei negozi sprangati, delle onnipresenti macerie. All’angolo una torretta evoca sinistri ricordi, ma non ho mai visto niente di simile piantato nel cuore vivo di una città. Un cancello blindato tiene prigioniera la tomba di Rachele. Una religione che diventa una prigione.
Siamo a Betlemme.
L’autobus ci porta alla piazza della chiesa. Entro per lo stretto necessario, mi allontana l’acuto odore d’incenso, risalgo l’odore di spezie e di fritto lungo la strada che ci porta alla Conferenza.
Grande edificio pieno di gente, gli organizzatori si riconoscono dalla tensione degli occhi, serpeggia emozione, dietro il palco campeggiano grandi carte geografiche con le aree dell’occupazione dal ‘48 a oggi e, scritto in grande, Resistenza nonviolenta; mi siedo accanto a due ragazze che chiacchierano fitte, abbigliamento tradizionale molto molto curato e sguardo fiero, chiedo se posso fotografarle, voglio ricordarle quando i ricordi si confonderanno, acconsentono con un accenno di sorriso. Non ho una lingua per farmi capire, ma ci guardiamo e immagino che basti per l’essenziale. Catturo l’immagine delle belle mani strette sopra la borsetta di raso cupo, miscuglio di ricordi. Modi volti e gesti della mia infanzia, il silenzio eloquente delle donne che ancora risuona nei miei pensieri.
Ascolto i discorsi nella traduzione inglese, capisco il senso e mi sento rappresentata da Luisa, il suo discorso rispecchia esattamente le mie istanze di cittadina e mi porta un sentimento di fierezza che non provavo da anni.
Sono critici con i vertici internazionali, chiedono che venga attuata la stessa strategia che è stata vincente per il Sudafrica: sanzioni, boicottaggio, solidarietà. Tutti i dati dell’apartheid. Non tutti, sarebbe impossibile. Un popolo che non vuole assistenza, chiede dignità. Penso che qualsiasi aiuto dato a loro è a nostro favore, per il nostro futuro. Le tragedie si consumano, si moltiplicano, si preparano per la miopia e l’ignavia dei governi.
E innominabili interessi privati.
Usciamo veloci perché ci aspetta la manifestazione per i 20 anni delle Donne in nero a Gerusalemme.
Nella sosta ai bagni scambiamo parole, italiano inglese arabo, una confusione sorridente in cui la cosa più semplice è abbracciarsi, le giovani lo fanno in modo spigliato, allegro, le più anziane si commuovono. Ancora, le donne della mia infanzia, contadine, in cascina, un sentimento dimenticato che azzera i pensieri. Non potevo nemmeno lontanamente immaginare che mi sarei sentita a casa a Betlemme, sicura tra questa gente, in queste strade.
La piazza circolare in cui ci ritroviamo a Gerusalemme si va riempiendo di gente, ma siamo comunque poche e pochi rispetto ai presidi militari che ci controllano e al traffico che scorre intorno.
Vent’anni e si tratta quasi di ricominciare da capo. Ma non sappiamo da quale filo riprendere la tessitura continuamente strappata.
Per fortuna le donne prendono tutto con maggiore ironia, allegre e tenaci, capaci di parlare e di cantare, con i cappelli fioriti e le buffe mani nere alzate a disegnare un profilo di speranza nell’azzurro assolato di questa città sconosciuta e di colpo familiare.
Torniamo a Betlemme in tempo per entrare nella manifestazione contro il muro organizzata da Al Mubadara/PNI. Tanti giovani, anche ragazze. Si cammina veloci. Sotto il muro i ragazzi sventolano bandiere palestinesi, chiedono di essere fotografati. Mentre sono distratta dalla presenza di Mustafà Barghuti che rilascia un’intervista cominciano i sassi. I ragazzi li lanciano contro la torretta e i soldati, invisibili così in alto, rilanciano contro la folla, contro di noi. Mi rendo conto del pericolo mentre penso che se non c’è un ascensore interno alla torretta, e non credo ci sia, i soldati si sono portati su a mano tutti quei sassi che ora stanno lanciando su di noi con il rischio concreto di un ennesimo incidente. La guerra richiede un addestramento alla stupidità dei gesti.
I nostri accompagnatori ci fanno scorrere lungo un lato della strada e di colpo siamo fuori dalla manifestazione e dai sassi.
Entriamo in una mostra-negozio di oggetti e abiti palestinesi.
Compro vestiti e regali, non mi rilasso del tutto. Vorrei sgomberare i pensieri che se ne stanno lì, ancora a ridosso del muro, nella luce abbagliante del pomeriggio che s’infila nel cuore.
Tornando passiamo a far visita ad un amico di Luisa, morto di cancro, case povere tirate su in fretta, gli uomini sostano davanti alla porta di un circolo, proseguiamo solo noi donne verso la casa, la veglia funebre è separatista. Ci accoglie un grande cerchio di donne intorno alla vedova, italiana, ci fanno sedere, ci offrono caffè al cardamomo e datteri.
Un’anziana ostetrica italiana, penso che sia una suora in abito laico, ci intrattiene, racconta tragedie con voce pacata, paziente nel rispondere alle domande, ci prega di non fare il suo nome perché il suo permesso di soggiorno è legato a un filo. Qualcuna le chiede se tornerà a casa, ci guarda stupita, “questa è la mia casa”. Mi guardo intorno, ha ragione. Mi sembra incredibile aver ritrovato qui i volti e i gesti della mia infanzia. Tratti somatici diversi, abbigliamento diverso, case diverse, eppure tutto così familiare.
I poveri e i contadini si assomigliano ovunque, lo diceva Silone.
Dal finestrino dell’autobus guardo scorrere un paesaggio che alterna costruzioni e distruzioni, compatti insediamenti dall’anacronistica architettura europea dove un tempo la collina era verde, muri e check point che deturpano l’abitato e distruggono convivenze propagandosi come una malattia terribile.
La politica di apartheid contro i palestinesi segna il territorio come una ragnatela di ingiustizie nuove che incancrenisce le vecchie.
Che cosa spinge uomini e donne a vivere in villaggi protetti da soldati e filo spinato, quale povertà di condizioni o abbrutimento dell’anima li spinge ad ascoltare promesse scellerate di un governo che semina mine sul suo stesso futuro?
Sono sopraffatta dalla stanchezza, ma so che la pace è esattamente nella ricerca di tutte le possibilità, nel qui ed ora della propria vita. Non ho una posizione che mi consenta di pensare davvero a ciò che si può fare, intanto sono qui, ascolto e vedo…e annuso.
A cena per mia fortuna abbiamo al tavolo una meravigliosa Carla italiana, docente di storia dell’arte, che lavora con i palestinesi alla conservazione del patrimonio culturale. Il suo sguardo sulla situazione è lucidamente pessimista, ma i suoi occhi continuano a sorridere, non solo per la passione archeologica, ma anche perché la straordinaria quotidianità del suo lavoro riguarda un laboratorio di mosaico con i bambini, che rappresenta un’occasione soprattutto per le bambine di uscire dalla casa nella quale sono confinate, oltre che dalla condizione politica, dalla cultura maschilista.
Fine del terzo giorno. Testimonianza quotidiana che si può agire, sempre.
29 dicembre
Lunghissimo viaggio in autostrada dentro il paesaggio dei territori occupati dai coloni, andiamo verso Tulkarem per la conferenza contro il muro, organizzata dall’Università col patronato del primo ministro.
All’arrivo arranchiamo disordinatamente dietro Luisa, accompagnata dal consigliere di Salam Fayyad, dal Coordinatore e un altro membro del comitato di resistenza nonviolenta di Bi’lin, e non ci accorgiamo di un picchetto militare che si esibisce in un saluto in nostro onore.
Non amo il militare, ma questi ragazzi mi fanno tenerezza, lo sguardo tra l’interrogativo e l’imbarazzato che contrasta con l’ordine dei gesti con cui rispondono al comandante, ignorando o perdonando la nostra goffaggine.
Nell’enorme sala sono tutti seduti intorno ai tavoli, coperti di bianco come le sedie che hanno lo schienale cinto da una grande fascia rosa legata con un fiocco.
Una cura che suscita tenerezza e commozione per le molte mani che hanno preparato questa scenografia in cui tutti si muovono con un misto di orgoglio e attesa. Ognuno di loro ha una storia di piccola grande resistenza, di piccola grande tragedia. Sono sempre più mortificata per il mio inglese abbandonato da anni che non mi consente scambi diretti.
Sono assegnata ad un tavolo di “simili”, dove avremo come traduttore uno straordinario medico che ha studiato in Italia, con il quale posso finalmente scambiare riflessioni più approfondite.
Ci alziamo per l’inno nazionale e poi per ricordare i martiri.
Finalmente posso prendere appunti più precisi dei discorsi politici.
L’esempio di Bi’lin diventa centrale perché può restituire voce alla società civile palestinese attualmente incastrata nel conflitto tra Hamas e Fatah che di fatto non la rappresenta.
So che l’Europa potrebbe avere un ruolo importante, Luisa viene applaudita a lungo soprattutto dalle donne e non è solo per il ruolo che riveste, ma anche per il suo modo di presentarsi come donna che non dimentica mai di esserlo, sempre all’altezza dell’occasione politica e sempre umanamente vicina. Sono poche, osserva qualcuno; mi guardo intorno, noi italiane non siamo certo né meglio né più rappresentate di quanto lo siano le palestinesi qui. Sappiamo davvero troppo poco per commentare.
Si parla di Gaza, della conferenza di Annapolis, mi stupiscono le domande di qualcuno di noi perché, perfino senza aver seguito la vicenda palestinese, il dossier di Luisa e le sue instancabili precise spiegazioni in autobus sono state abbastanza esaurienti.
O forse no, sono tali e tanti i fronti di guerra aperti che si può essere esperti dell’Afganistan senza sapere nulla della Palestina. Ma ora siamo in Palestina e informarsi è un dovere morale. O forse no, la libertà è poter scegliere di non sapere? Mi accorgo che per me la parola libertà coincide con responsabilità.
Non so che cosa è stato chiesto al nostro paziente interprete, ma la sua risposta è illuminante. Ricorda che da ragazzo era completamente preso dalla politica finché suo padre non gli ha detto “se vuoi fare davvero qualcosa per il tuo popolo, studia e cerca di fare un lavoro che sia concretamente utile in ogni situazione” .
La possibilità non è solo nell’infinitamente grande, ma anche nell’infinitamente piccolo.
Questo è quello che capisco per me.
Ho vissuto negli ultimi vent’anni la progressiva velocissima riduzione degli spazi di dibattito politico in Italia, tanto che qualche volta mi sembra di vivere in clandestinità, ma se è completamente precluso l’orizzonte dei grandi progetti c’è una quotidiana testimonianza che si può agire nelle microscelte apparentemente insignificanti, sempre.
Non so a cosa serve e se serve, ma per questo, io che non faccio viaggi né vacanze, sono venuta in Palestina.
Anticipano per noi il servizio del pranzo, sala poco lontana allestita in bianco e lilla. Fastidiosa discrasia tra i pensieri e la goffaggine dei gesti, metti e togli la giacca, apri la borse, apri e chiudi la macchina fotografica, apri e chiudi il quaderno, cerca la biro l’acqua le caramelle il fazzoletto.
Il dolore al braccio mi ricorda i miei limiti e la stupidità con cui ripeto gesti consueti che avrei dovuto modificare, come infilare la giacca dalla sinistra invece che dalla destra.
Se non ci fosse stato il cancro non sarei venuta ora in Palestina. Qualcuno mi rimprovera di averlo preso alla leggera: non è così. Il corpo ha dato uno scossone ai pensieri. Sembra paradossale ma è stato liberatorio.
Stiamo andando a Nablus.
Al check point dobbiamo scendere dall’autobus e attraversare a piedi, dall’altra parte ci aspetta un altro autobus, anzi no, si tratta del modello anni ’50 che chiamavamo corriera, ce n’era ancora qualcuna quando ho cominciato la prima media nel ’64. Sgangherato, ma tutto sommato più comodo, ci mette una strana allegria perché toglie quella patina da turisti in vacanza di cui un po’ ci vergognamo.
Ovunque ci offrono rinfreschi, questo che ci distribuiscono ancora caldo, mentre seduti intorno al tavolo del consiglio comunale di Nablus ascoltiamo i saluti del sindaco e le parole di Luisa; è un dolce meraviglioso di cui devo trovare la ricetta. Peccato che siamo reduci da un pranzo già troppo abbondante, ma non possiamo offenderli ignorando l’impegno che questo rinfresco ha richiesto. Non si tratta di qualche confezione di biscotti, ma di un vero e proprio lavoro. Donne, penso, e una dimensione di cura casalinga, anche di amore per le istituzioni, impensabile per i nostri riti incartati, la spocchia dei nostri buffet piccolo borghesi. L’immagine di mia nonna che sbatte le uova, un matrimonio in cascina nella preistoria della mia vita. Mi sento a casa e, come in sogno, in una casa perduta.
Ci guidano a piccoli gruppi nella notte della città vecchia.
Città di pietra e macerie, i manifesti sono volti di ragazzi assassinati, su ogni casa. Buio di stelle tra vicoli sporchi e antichi archi. Vestigia di flebili sfarzose memorie e sporcizia di poveri negozi. Occhi profondi di bambini. M’investe il profumo di arance e di cannella come un incantesimo che fissa i ricordi in un quadro intriso di mistero.
La voragine tra due case, opera di un carro armato che ha sorpreso e ucciso un’intera famiglia nel sonno, è il suono dell’inglese lento di una bella ragazza dal viso sereno e passo leggero che s’intreccia alla traduzione inorridita di una giovane dolcissima compagna di viaggio.
Scrivo per allusioni perché niente della Palestina vada perduto, anche se so che niente della Palestina andrà perduto dentro di me.
I due bambini che chiedono di essere fotografati hanno forse un anno di differenza e pensieri diversi, l’uno preso dalla fierezza della sua infanzia sfrontata si mette in posa, l’altro è incerto tra condividere l’innocente esibizione e il dubbio, non so quale. Forse si chiede chi siamo, e se siamo affidabili, e se la foto è uno sconto ingiusto sulla propria dignità fatto a stranieri che non capiscono. Forse non ha le parole per formulare i suoi pensieri, è troppo piccolo, forse i nostri sguardi sono affettuosi e convincenti, acconsente al richiamo dell’amico. Poi è il primo, quello più deciso, ad avere dubbi, ride, si fa serio e ci ringrazia, prima di correre in casa, tornato bambino, con un gesto regale come di chi sa di aver concesso una grazia, lui a noi, piccolo signore di questa città di dolore e tenacia. Ed è così.
Non si scelgono i luoghi della memoria. Non potrò dimenticare Nablus.
Di nuovo sulla vecchia corriera, di nuovo al check point. Il paesaggio notturno ne viene abbrutito e la nostra allegria mortificata. Guardo una famiglia che lo percorre in senso inverso al nostro, tornano a Nablus, forse con uno dei tanti taxi in attesa, con borse della spesa, l’uomo ha un bambino in braccio, nel passeggino hanno appoggiato altre borse, due piccoli si trascinano a piedi, visibilmente stanchi.
Non possiamo fare niente. Distratti seguiamo il percorso nella larga strada riservata alle macchine, ci viene naturale occupare lo spazio più grande, disordinatamente, come persone libere. Il soldato con il mitra imbracciato ci rimanda indietro e dobbiamo percorrere in fila indiana il lungo corridoio ingabbiato nella rete di fil di ferro. Mentre ci controllano i passaporti uno ad uno, lentamente, Luisa spiega chi siamo e non perde l’occasione per discutere, veramente instancabile nella sua missione di pace. Sono contenta che lo faccia perché ogni soldato è sempre anche un possibile disertore. I piccoli faticosi passi per chiedere pace. Dal parlamento europeo ad uno dei tanti check point della Cisgiordania.
Dopo cena. Riepilogo la giornata mentre parla un attivista israeliano contro la colonizzazione. Ci parla con amarezza, attraverso i dati, della guerra del Libano, della deriva autoritaria di uno Stato lottizzato ormai tra il militare e il business. Con i dovuti distinguo abbiamo problemi analoghi, visto che da noi la popolazione sembra porre speranze solo in provvedimenti che disegnano una democrazia autoritaria con forti elementi xenofobi, razzisti, patriarcali. Penso all’astio crescente nei confronti dei Rom.
Scrivo frasi salvate dal mare di stanchezza che rischia di sommergermi. L’impotenza della società civile si chiama rassegnazione. Il cambiamento non è imminente. Italia e Germania hanno il movimento pacifista più forte del mondo anche se oggi non sono in grado di mobilitare l’opinione pubblica (sic). Dopo Rabin è cominciato un grande sabotaggio del movimento pacifista.
Sono stremata, ma resisto. Dalla traduzione e dal mio inglese scalcinato capisco che sta esaminando con lucidità la situazione di Israele collocandola nel contesto internazionale. La popolazione benestante di Gerusalemme (così come quella di Milano o della bassa bergamasca) non immagina quale prezzo in vite umane venga pagato per quel mostruoso impasto di affaristi e militari che governa, avvolto da una nube di vacui slogans sulla sicurezza e lo scontro di civiltà.
Il silenzio ottuso di tanti miei adolescenti è lo spaventoso prezzo pagato in stupidità per quel degrado umano che chiamiamo benessere. Forse esagero. Sono stanca.
Sono qui da tre giorni e penso già a quando e come potrò tornare.
30 dicembre
Mando a casa messaggi sintetici e collettivi la sera, al mattino leggo le risposte, diverse da ognuno.
Apprendo in autobus che il programma è cambiato: non si va alla Knesset perché Colette Avital si è ammalata quindi anticipiamo la visita a Jaffa.
Rinuncio al pranzo di pesce e resto qui, davanti ad un paesaggio che si sta omologando in chissà quanti posti del mondo. Sullo sfondo del golfo piatto, casermoni squadrati ricordano le orribili cartoline di Rimini e vicinanze, che ci arrivavano negli anni ’60 da quelli che “andavano in vacanza”.
Faccio una foto, per pura testimonianza.
Non saprei dire perché Jaffa non mi piace, ma c’è qualcosa di finto che mi respinge. Non mi parla questa città, e il ricordo di Nablus è stridente. Case così perfettamente restaurate da sembrare false, smalti azzurri ingentiliscono le porte e le volute di ringhiere in ferro battuto intorno a persiane e decori d’autore. Li trovo stucchevoli. Eppure è molto bella. Eppure non mi piace. Ecco, ho trovato, non ci sono odori a Jaffa, nessuna zaffata di cucina aperta sui vicoli, nessun bambino che corre nelle stradine tranquille, negozi per turisti ricchi e nessuna bottega, di verdura di spezie di cibo, non ci sono uomini al lavoro né donne affaccendate. Ho incrociato una scolaresca di studenti in gita, sguaiati e distratti, adolescenti senza direzione, come i nostri. Non c’è vita a Jaffa. Qui è la tomba della Palestina dimenticata. Spero sia solo questa piccola parte, che ci sia un altrove ancora in vita. Fotografo un micio. Grande pacifica popolazione che segue rigorosamente le stesse regole di vita ovunque. Si capirebbe perfettamente con i miei, e senza bisogno dell’inglese.
Peres Center. Il direttore generale illustra il suo curriculum costellato, soprattutto dal ’93, di buone azioni nei confronti dei palestinesi, ONG, associazioni, emergenze, e poi lobbies forum cooperazione progetti per i giovani. L’elenco è lunghissimo. “Vogliamo arrivare ad una relazione più simmetrica”: dentro la concretezza delle azioni descritte questa è decisamente una caduta di stile, un sintomo, quasi un lapsus. Vogliamo chi? E in cosa consiste la simmetria? Parola decisamente fuori luogo quando si parla di relazioni sia individuali che di gruppo. Nei conflitti le metafore spesso non spiegano ma mistificano. In un passaggio dice che le ONG israeliane si muovono meglio perché sono più ricche. !!!
Ripete per tre volte che ci vogliono due Stati con due capitali per due popoli. Non abbiamo competenze per prendere posizione e penso che in questo momento vanno sostenute tutte le associazioni e le persone che lavorano per la concreta “riduzione del danno” in tutte le situazioni, ma avverto tutta la pericolosità delle cosiddette soluzioni etniche, terribile involuzione del terreno democratico e molto incerta garanzia per un futuro di pace.
Non commento perché non sono sicura di aver capito tutto e non voglio affidarmi alle sensazioni. Comunque qualcosa in lui non mi convince. Ma la pace appunto si fa con quelli che non ci piacciono, non ci convincono, non inviteremmo a cena. Amen
Dopo di lui una meravigliosa Lily, donna in nero israeliana di origine cilena. Un luogo dell’anima il Cile: lei è arrivata qui dopo Pinochet, una tappa della mia maturazione politica è cominciata con le notizie del golpe cileno, con la conoscenza dei profughi cileni. All’esame di concorso in geografia mi hanno chiesto il Cile, l’unico Stato al mondo di cui conoscessi il tutto necessario. “La pace è un interesse di tutto il mondo” e prosegue, con la stessa concretezza, ad elencare tutte le singole azioni necessarie per contrastare quel muro sociale culturale e reale che è diventato una forma naturale del vivere.
Mette in luce le discriminazioni presenti nell’una e nell’altra parte, le difficoltà ad affrontare la violenza che diventa invisibile. Parla anche di donne, anche di bambini, anche di minoranze, anche di storie e risorse diverse, non elude né riassume la complessità. Lei è lì dove può agire.
Terzo incontro col direttore del Mossala. La minoranza araba di Israele. Non ci avevo mai pensato eppure è ovvio, è così in ogni paese, la popolazione è attraversata in lungo in largo dalle differenze e le generalizzazioni rappresentano spesso un sostegno alla violenza razzista, alle pratiche di discriminazione. Ricorda che Israele non ha una costituzione, ma questo non lo dimentico mai.
Mi sarebbe piaciuto in questo viaggio leggere ad alta voce ogni tanto un passo di Fortini, dal libro “I cani del Sinai”, così, per trovare un ritmo ai pensieri, ai commenti.
La notte dell’autostrada è uguale ovunque, ma so che attraversiamo valli e colline su cui i primi coloni hanno piantato improbabili abeti. Penso agli ulivi centenari deportati nei nostri giardini padani. Solo la scuola potrebbe contrastare la diffusione della logica coloniale ovunque, ma ormai si riduce ad un vuoto accumulo di nozioni per passare sotto le forche caudine di diplomi e lauree verso non si sa cosa.
I pensieri sono così fitti che scavano voragini di silenzio, basta un inciampo qualsiasi. Ogni giorno qualcuno cade e a volte basterebbe una parola a fare da parapetto.
Dopo cena il bel volto aperto di Nurit Peled circondata da figli e marito. Sono tutti attivisti in prima persona nel Parents Circle e nei Combatants for Peace, ma è lei il centro vitale che irradia energia.
Ci parla a lungo della ricerca sul razzismo nei libri e nelle scuole israeliane: attraverso la cancellazione e la deformazione si insegna il disprezzo nei confronti dei Palestinesi. Come la capisco! Bambine e bambini crescono fiduciosi che quella insegnata sia la realtà, la verità. Così s’insediano nelle parole, nei pensieri, nei gesti, il razzismo, l’etnocentrismo, la xenofobia, il sessismo e lo stesso antisemitismo. Pensarsi superiori è il primo passo verso la gabbia. Penso alle vignette antiebraiche circolate in Germania e Francia e a come la Shoah sia stata costruita passo dopo passo. E ogni passo poteva essere diverso, poteva modificare la direzione. La Shoah qui viene utilizzata per giustificare l’ingiustificabile.
Penso che molti israeliani siano intrisi di antisemitismo: l’affermazione violenta della propria superiorità nasce dalla inconfessata convinzione di essere in qualche cosa inferiori.
Grovigli interiori, storie dolorose, crimini orrendi con cui l’Europa non vuole fare i conti, che uomini politici dissennati hanno catturato e piegato ai propri interessi. Vanno smascherati uno per uno. Un tempo avevamo la locuzione “interessi del capitale”. Non credo sia meno vera oggi.
Il silenzio dei governi democratici è colpevole oggi come nel 1938.
Sui loro volti si legge tutta la disperazione degli israeliani di cui ci parlano.
Penso a certe pagine di Liana Millu, all’incontro con il cugino “fascistone”, dopo il ritorno da Birkenau. Al fatto che è ancora una scrittrice sconosciuta in Italia.
Qui è inevitabile pensare agli ebrei. Qui è inevitabile pensare che il nome collettivo di un popolo uccide gli individui quando viene usato come arma, come scudo. Penso a quanto sarà difficile il dopo per israeliani e palestinesi, penso che più si prolunga questo disgraziato “prima” più il dopo diventa impraticabile. I pensieri pungono come aghi. Infibulazione del cervello.
Penso alla scuola che macina le intelligenze e mortifica la coscienza, anche la mia.
31 dicembre 2007
Partiamo per Hebron, la città più grande di tutta la West Bank, una delle città più vecchie del mondo. Città divisa, con i coloni insediati nei punti nevralgici e l’economia in ginocchio.
Siamo accolti dal sindaco in un meraviglioso centro polivalente per i ragazzi, e c’è anche un consiglio comunale dei ragazzi di cui conosciamo il giovane sindaco. Ci raccontano i dati del disastro che provoca l’occupazione sul territorio e sulle coscienze, ma ci tengono a rappresentare tutte le forme di resistenza positiva al degrado e l’uso che fanno degli aiuti internazionali.
Penso a come costruire una lezione a scuola, cartine, fotografie, dati. Penso a come coinvolgere, come far capire … la Palestina è una piccolissima disperata terra che scompare tra le tante disperate terre che scorrono nei telegiornali sulle nostre quotidianità oppresse dall’indifferenza.
Ascolto: il sindaco parla del problema delle giovani generazioni che vedono solo crimini. Impegno per la diffusione delle piccole e medie industrie, dopo la crisi dell’agricoltura dovuto all’occupazione. Buon rapporto con l’Italia, soprattutto Bari. Mandano i ragazzi a studiare all’estero perché possano conoscere realtà democratiche, imparare un lavoro e tornare qui a studiare. I ragazzi che frequentano questo centro possono sviluppare le proprie attitudini, imparare a stare insieme, studiare e divertirsi, ma non basta, soprattutto per i ragazzi della città vecchia.
L’università organizza corsi a distanza per le donne, che ovviamente hanno più difficoltà.
In questa città ci sono 400 coloni e 1500 soldati a difenderli.
Scrivo sull’autobus, accanto a Marcella, ho riempito il cuore più della macchina fotografica.
Non potrò dimenticare Hebron.
Ci hanno accompagnati nella città vecchia, divisi in due gruppi. Prima guardiamo la città da un tetto: torrette muri cancelli e lunghe colorate file di panni stesi a testimoniare la resistenza della vita. Ci indicano le molte case dei coloni ai piani superiori, da quali rendono impossibile la vita a chi abita il piano terra.
Entriamo nella città da un check point, lungo un percorso tortuoso perché ai nostri accompagnatori è proibito attraversare diagonalmente un piccolo slargo all’incrocio.
Camminiamo lungo le strade di una città morta: negozi chiusi, case disabitate, un muro all’ingresso di ogni vicolo, km di filo spinato, in quella che era una clinica ostetrica si arrotola nel cortile, sale le scale, si intravede dalle finestre, ovunque vetri rotti e macerie.
Ci addentriamo lungo una stradina accompagnata ai lati da negozietti aperti, sopra le nostre teste è tesa una rete metallica lungo tutto il percorso, ne scopro subito l’utilità: protegge la povera economia del vicolo dall’immondizia che i coloni buttano dall’alto. Camminiamo sotto la spazzatura, smetto di guardare in alto e fotografo. Un abito usato, un etto di caffè al cardamomo, una collana, due borse: compro per non pensare, compro senza pensare.
Con noi, in attesa del secondo gruppo, ci sono dei bambini, qualcuno regala palloncini e poi scherzosamente chiede il pagamento, il più grande, che si era tenuto in disparte, si affretta a tirar fuori i soldi dalla tasca, lo rassicuriamo, sorridiamo, anche lui sorride imbarazzato. Non sono mendicanti, sono bambini a cui nessuno può spiegare le complicazioni di un mondo adulto di violento surrealismo.
Il dolore dell’impotenza fa vergogna, ma non è per questo meno pungente.
La luce di Hebron ha squarciato per noi le ferite della città, mi accompagnano gli occhi dei bambini, una bimba ci guarda dall’alto di una scala mentre arranchiamo su per la salita verso l’autobus, con i nostri travestimenti da turisti, le nostre stanchezze, i nostri commenti insulsi.
So quanto sono densi i pensieri dei bambini dietro lo scarno vocabolario che li separa dalle nostre ottuse supponenze.
Sosta in un Centro Donna, ascolto a tratti, ma qui mi sento davvero a casa. Mi ricorda le nostre sedi degli anni ’70 e negli abbracci ritrovo la mia storia, quella che ormai vive clandestina, mortificata nel tran tran quotidiano. Ad ogni passo la Palestina mi chiede conto, mi costringe a chiudere bilanci da troppo sospesi. La pelle è un confine fragile tra questi vecchi muri, i sorrisi, i racconti, l’elenco dei problemi, l’elenco dei progetti, il caffè, i biscotti, le mani che stringono, ringraziamenti immeritati e pensieri parole emozioni cicatrici che tirano, percezioni semplici, stanchezza fame mal di testa mal di braccio. Sono, siamo, parte viva e dolente dei molti territori che ancora affaticano l’anima.
Mezzanotte è passata da più di un’ora qui a Gerusalemme e da dieci minuti a casa: su questo granello di sabbia che gira, tutto è relativo, ma per fortuna non abbiamo sempre tempo per pensarlo.
Il viaggio di oggi si è concluso in un Centro donna antiviolenza a Beit Sahour. Un edificio bellissimo, costruito con la collaborazione della cooperazione italiana. Conosco Differenza Donna. Sembra la realizzazione di un sogno che non ho mai visto così da vicino in Italia. Piccole isole di resistenza. Le storie delle ragazze, che ci vengono incontro mentre visitiamo le stanze e i cortili interni, mi commuovono profondamente. Sono simili a quelle che ascoltavo nella preistoria della mia vita, giovane femminista prima dei consultori, della legge contro lo stupro, a ridosso della denuncia di Franca Viola che come storica considero periodizzante. Ma è una storia che non si insegna a scuola, cancellata. Anche qui con le nostre ragazze italiane non oso parlarne.
Capisco che alcuni guardano e non capiscono tutta la lunga storia di cui questo centro è segno tangibile e porto sicuro.
In autobus sono rimasta in silenzio, senza poter scrivere. A tavola mi sono ricordata che è capodanno perché ci hanno preparato una cena da festa. Ho aspettato il brindisi nella hall resistendo alla stanchezza, chiacchierando con le due americane che ci seguono per girare un documentario. La ragazza è stata una piccola profuga vietnamita. La storia non mi da tregua.
Un bel capodanno, stiamo insieme senza aspettative e senza pensieri, solo per il piacere di esserci, umani e vicini per una manciata di giorni e molte emozioni condivise. Non vedo il futuro, non ho attese, calma piatta, la mente in riposo. Le due giovani donne che tagliano il panettone, i ragazzi che ridono, ogni gesto qui è un dono.
1 gennaio 2008
Mi piace questo albergo segnato dal tempo e molte vicissitudini, l’architettura esterna simile a quella dei tanti nonluoghi della modernità, all’interno i segni della sua storia, lavoratori e lavoratrici palestinesi, un arabo che recita con allegra fierezza una tipicità da manuale. Più di tutti mi piace il cameriere con i baffi che ci serve a tavola con piglio sbrigativo e il rimprovero per tanti non so che cosa, trattenuto nelle mani ma non dagli occhi. Mi ricorda mio nonno che non ho conosciuto, tornato stravolto dalla prima guerra mondiale. Lui è poco più vecchio di me forse. Tutti qui hanno una tragedia in famiglia, ci ha detto Luisa il primo giorno. Non lo dimentico.
La maggior parte del gruppo è andata sul Mar Morto, io con le tre milanesi abbiamo avuto una straordinaria visita di Gerusalemme guidate dalla meravigliosa Carla. Superlativi e iperbole si adattano poco alla sua lucida sobria ironica semplicità, al sorriso luminoso con cui ci ha lasciate con ottime indicazioni per il pranzo e il pomeriggio, ma non ho altro che le parole a disposizione. Le sue, di parole, sono candele accese fitte ad accompagnare, proteggere, un cammino. Senza il suo colto e preciso racconto la città sarebbe stata più opaca, nonostante la luce che non smette di incantarmi.
Ci ha guidate lungo il muro della città vecchia e poi dentro le stradine del mercato ancora palestinese e arabo e poi nell’intrico delle lottizzazioni religiose intorno al santo sepolcro. Ci ha lasciate vicino al quartiere ebraico, completamente rinnovato e anonimo. Non un’identità popolare, ma un business occidentale, uguale ovunque, ributtante.
Ci siamo allontanate verso il muro del pianto. Altra amara disillusione. Impalcature, imponenti edifici nuovi, percorsi obbligati, palizzate di separazione, tra donne e uomini, ortodossi e non, pellegrini e turisti e non so che altro. Soldati ovunque, mitra a tracolla, visi chiusi. Qui, come prima nella chiesa, il cuore pulsante delle religioni di cui tanto si narra è un paesaggio grottesco, deturpato da litigiosità meschine, ignobili interessi e violenta ottusità.
La gente in preghiera mi ricorda i molti e diversi fanatismi. Disagio e pena, per me e per loro, per noi tutti. Nessuna spiritualità e nessuna bellezza.
Il muro che Israele moltiplica, moltiplica il pianto. Turisti. La nostra ignavia occidentale che ignora i tanti muri di questo paese, i tanti muri dell’Europa.
Marcella provata dal malessere torna in albergo con il taxi.
Aspetto paziente l’ora in cui si può entrare alla spianata delle moschee. Penso che ne farei volentieri a meno visto che non si possono visitare. Penso con rimpianto a Istambul, a Konia, seduti insieme nella penombra, il suono lieve del silenzio interiore. Quella religione dell’accoglienza che lega ad un ricordo anche un’agnostica coriacea come me.
Invece.
Entriamo in un lavacro di luce e silenzio, la cupola d’oro, l’azzurro acuto degli smalti che distillano il cielo, il respiro si fa più profondo, deposita altrove ogni pensiero. Camminiamo in una gioia pacata, in sintonia con le famigliole che siedono raccolte intorno al picnic sul prato, dietro una cappella, vicino a un arco, in sintonia con le due gazze che si dissetano ad una pozzanghera oltre i nostri piedi.
In sintonia tra noi.
Usciamo con riluttanza per cercare il ristorante indicato da Carla. Meravigliosi falaffel, crema di ceci e succo di melograno. Vorrei ricordare nomi e ricette e non dimenticare tutto per la mia eterna distrazione.
Ornella ci porta, seguendo i suoi ricordi come un segugio, su un terrazzo in cima ad una bella casa al centro di una piazzetta.
Uno sguardo sulla città, la luce a ridosso del tramonto, ma l’occhio indaga i resti dei traslochi sui balconcini, le torrette in lamiera innalzate dai coloni ortodossi per controllare non so che cosa. Ovunque la città presenta il suo strazio, ferite portate con dignità dalla straordinaria bellezza che dura da secoli. Per quanti secoli ancora?
Sono tornata qui in albergo stremata anche oggi. Un paio d’ore di solitudine. Non c’è vacanza in Palestina. Sistemo borse e valigia. Mi sembra cominciato il conto alla rovescia.
Ritrovo una frase che ho scritto su un biglietto dell’autobus non so quando.
Mi avvicino a Gerusalemme di muro in muro
storie imprigionate in cui nessuno vivrà sicuro
Incontro con Amal che ci spiega la situazione di Gerusalemme. – Un tempo la città era ricca di culture, luogo di varie comunità che interagivano tra loro. Gli Armeni da 20.000 a 1.800, i Cristiani dal 20 al 2%. Viene imposto un cambiamento rapido e unilaterale. La politica del sindaco dopo il muro è esplicita.
Il confine della città è stato esteso 11 volte inglobando 28 villaggi attraverso operazioni di confisca. Il fine è fare di Gerusalemme la capitale dell’ebraismo. E’ stato confiscato il 35% del territorio palestinese.
L’Occidente distoglie lo sguardo, anch’io lo faccio, torno per un momento ai colori e odori del suk.
Sera. Ho riempito il quaderno di parole e parole che non rileggerò, così i giorni sono pagine chiuse e prevale il senso di inutilità. Cosa ci faccio qui? Questo è un viaggio per i giovani che possono pensare a progetti per la vita.
Avevo bisogno di odori e immagini per la Palestina che abitava ormai in silenzio i miei pensieri, per la Palestina che abiterà i miei pensieri per sempre.
Ricomincio a fare progetti nei quali nessuno mi seguirà.
2 gennaio 2008
Ramallah. Luisa è seduta in poltrona di fronte ad Abu Ala, negoziatore, segretario generale di Al Fatah. Sarà una giornata di incontri ufficiali. Luisa dice le cose che conosciamo, fa la sua parte con precisione, fermezza, senza sbavature, ma il dialogo sembra una fragile architettura che nasconde i veri pilastri. Un colpo di vento e può essere edificata una costruzione del tutto diversa. Non mi piace quest’uomo. Ma questa è la strada della pace, trattative con uomini che non ci piacciono.
Si ripassa la solita litania: gli insediamenti vanno congelati altrimenti il processo di pace non è credibile. Problema rifugiati, problema acqua, problema Gaza, problema Hamas, problema moralizzazione di Fatah, problema prigionieri politici… Sono solo i titoli dei problemi.
Passiamo in ospedale a visitare Mohammed del comitato di Bi’lin, vittima di un’aggressione da parte dei coloni. Ci lasciano entrare tutti, ci trattano con piglio familiare. Sono contenti della nostra visita e si vede, lui, la moglie, il bambino… E anche noi siamo contenti di essere accolti così, come quelli di famiglia. Un medico si ferma a lungo a parlare con noi, dispiaciuto che non ci sia qualche sardo perché lui è stato a lungo in Sardegna (e un po’ si sente).
Tutti in attesa, seduti intorno al lungo tavolo di lucido legno chiaro. Siamo stati al mausoleo di Arafat, un parallelepipedo bianco, un giardino appena sistemato, i versi di un poeta incisi nella pietra, dietro si vedono case appena costruite intorno al suo vecchio rifugio e le onnipresenti macerie.
Luisa porta una corona insieme a Marcella.
Passa dal ruolo istituzionale agli abbracci delle persone che hanno stretto con lei un legame affettuoso per la sua capacità di camminare accanto, lungo strade difficili.
Di nuovo in autobus verso un altro appuntamento.
E’ arrivato Salam Fayyad, il primo ministro palestinese. Luisa ci presenta come esponenti della società civile italiana. Straordinaria. Solo lei può raccogliere un gruppo sgarrupato come il nostro e portarlo fino a questo incontro. Lei è il volto migliore delle istituzioni, quello che pochi italiani conoscono. Si, siamo la società civile, mi guardo intorno e per la prima volta provo una specie di fierezza.
Ascolto e non scrivo, non ne ho più la forza. Ora siamo alla conferenza stampa di Luisa. Ormai capisco le sue parole senza bisogno di traduzione. Anche le nostre volonterose ragazze hanno l’aria stremata.
Di corsa all’incontro con i rappresentanti della campagna a favore dei prigionieri politici. Parlano la moglie di Marwan Barghuti e un ex prigioniero politico. E’ il giorno della politica e tutto è più difficile da decifrare.
11000 prigionieri, molti ragazzini, considerati adulti dopo i 14 anni. I prigionieri sono donne e uomini che hanno creduto al processo di pace di Oslo. 750000 palestinesi sono entrati in prigione dal ’67. Dei palestinesi si occupano le corti militari. Situazione che favorisce l’estremismo e la violenza.
Problema dei bambini, della loro educazione.
Scrivo sintesi, vorrei chiudere l’ascolto.
Volti intensi, parlano con generosità, con fiducia. Tornerò nel mio stupido paese, a fare le mie stupide cose e niente per loro. Mi sento un verme.
Incontro con il segretario del Partito del popolo. Sono esattamente di fronte. Ha l’aria stanca. Purtroppo i palestinesi non possono contare sulla solidarietà araba. La situazione della regione richiede un supporto internazionale. Da Oslo ’93 al 2006 il processo di pace ha deluso la gente. Quella di Israele è una pulizia etnica fin dal ’48.
E’ vero. Il problema è che anche l’Europa continuava la sua pulizia etnica. Molte ragioni e molti torti.
Mi ‘abbiocco’ sui miei pensieri. Pazienza. Vedo che anche Luisa fa fatica a seguire, anche lei è umanamente stanca, eppure nulla sfugge alla sua cura organizzativa.
Ultimo incontro alla chiesa quacchera che ospita gli esponenti della campagna Right to enter. Inimmaginabili problemi quotidiani, di lavoratori, di famiglie, di studenti, di emigranti, mogli e mariti, genitori e figli…Contro l’arbitrio quotidiano di chi nega permessi ci si appella al diritto internazionale. Nascere diventa problema d’iscrizione all’anagrafe. Per i più poveri i problemi si moltiplicano.
Ci fanno richieste esplicite per sostenere la loro campagna. I documenti sono già tradotti in italiano.
Dolori lancinanti allo stomaco. Somatizzo la giornata difficile. Difficile da digerire.
Riunione conclusiva. Prevale la stanchezza. Discutono di un libro, un video. Rappresentazioni o autorappresentazione? Anche noi prigionieri di noi stessi. Ho esaurito le parole.
3 gennaio 2008
Stagioni e volti sono viaggiatori in partenza, scrivo su un autobus ad uno dei tanti crocevia della vita. Il paesaggio dell’autostrada disegna luoghi omologati che accompagnano lo sguardo verso il rientro.
Ma non posso dimenticare i muri di Hebron, le cicatrici che percorrono strade e colline, la gente in fila ai check point. Non posso dimenticare la notte di Nablus, le voci pacate che raccontano orrore.
Ultimo incontro presso una chiesa evangelica che promuove il dialogo interconfessionale e si occupa di bambini poveri.
Non scrivo più, ho esaurito le parole. Mal di stomaco e di testa. Somatizzo la Palestina.
All’aeroporto aspettiamo pazienti il nostro turno e i lunghi controlli. Ci sentiamo vicini, solidali. I controllori sono ragazze e ragazzi. Per tutto il gruppo viene interrogata Marcella, guarda la sua interlocutrice con disponibilità materna senza abdicare minimamente alla sua naturale autorevolezza. Noi abbiamo più l’aria di scolari refrattari all’obbedienza, temporaneamente allineati nella fila.
Un lavoro come un altro e poter scegliere è un lusso per pochi. Uno dei tanti lavori inventati dalla modernità guerrafondaia, ma loro sono gli ultimi arrivati e purtroppo pagheranno anche troppo le colpe dei padri, le complicità delle madri.
Luisa ci saluta in lontananza, in coda per un altro imbarco, certamente stanca per la fatica organizzativa, oltre che emotiva, di questi giorni straordinari, già pronta a progettare altri viaggi e altri ancora, tenace e appassionata. Penso con rabbia a quanto, persino lei, sia una donna sconosciuta, cancellata dai media e certo mal sopportata dalla politica meschina che trasforma i cittadini in sudditi.
Confronto la sua spontanea capacità di avvicinarsi a tutti con certa spocchia dei politici nostrani e mi prende un senso di soffocamento.
Allontano i pensieri che m’investono per godere ancora un momento la sorridente solidarietà che ci lega.
Scrivo comodamente seduta in una poltrona della business class. Abbiamo brindato con prosecco a questo comfort inaspettato.
Buon pranzo, buona compagnia.
Sull’oblò di sinistra il tramonto stempera tutte le sfumature, dall’azzurro al blu, dall’arancio al rosso sopra lunghe nuvole nere come la terra che sorvoliamo. Il video ci informa che si tratta di Istambul. Intorno a me voci morbide come il plaid che mi copre inducono al sonno.
Allontano i pensieri e chiudo il quaderno. So che torneranno, i pensieri, anche troppo presto.
Trascrivere questo diario è riprendere parola e respiro.
Non serve ai palestinesi, agli israeliani, ai tanti diversi italiani, quelli che si chiamano ebrei, quelli che si sentono padani, altoatesini, siciliani, di Latina Militello Foggia Gorgonzola Novara Clusone, quelli che si sentono vaticani, quelli che si sentono giusti, a posto col senso del dovere, quelli di dio patria famiglia, quelli di sinistra, non serve ai Rom che vivono nella piazzola all’incrocio, agli albanesi guardati male, ai bambini soli nelle case troppo grandi, a quelli soli nelle stanze troppo affollate.
Non serve a niente questo diario, so quanto la brutta e la bella letteratura possano diventare complici dell’imbroglio.
Ma sono grata a Cecilia e Francesca per avermi chiesto di trascriverlo.