Intervista di Monica Lanfranco a Rosangela Pesenti

pubblicata su Liberazione il 23 agosto 2005


Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone
(Audre Lord)


1)Cominciamo proprio da Audre Lorde e la sua frase: sei d’accordo con lei? e cosa ti evoca questa affermazione?


Sono i corpi a pensare e la lingua che parliamo a formare e deformare il nostro pensiero. Le condizioni di vita, la nostra storia non sono solo il contesto in cui cresciamo e viviamo, diventano carne della nostra carne, la piegatura dei gesti, le abitudini del quotidiano, la forma della nostra sintassi, il vocabolario dei significati profondi.

Non svaluto la capacità di “pensare” il cambiamento che è stata la grande illusione della mia giovinezza, ma appunto parlo di illusione perché dove le parole non si sono radicate nei corpi, dove non c’è stato il coraggio di riconoscere le proprie radici e decidere il da farsi senza ipocrisie o infingimenti, le parole sono state svuotate di senso ed ora sembrano fuori uso.

Sono d’accordo con la frase di Audre Lord per ognuna delle parole che propone: parto dall’ultima “padrone” che evoca la presenza di servi o schiavi (condizione giuridicamente poco differente tanto che storicamente per alcuni secoli l’una e l’altra si sovrappongono e in parte si confondono) e ho la sensazione che le donne abbiano riscoperto “la morale dello schiavo” come risorsa su cui costruire la propria vita. Il buon matrimonio sembra ridiventare la carriera da perseguire e fare bambini la nobile occupazione che giustifica il mantenimento nel chiuso del nido.

Non faccio un’osservazione moralistica sulla vita delle singole donne, ma guardo una rappresentazione sociale molto presente nel “profondo nord” ricco e immeschinito di cui non si riesce poi a cogliere la realtà dei vissuti se non in un crescente disagio sociale e nell’infelicità dipinta perfino sui volti dei bambini, che faticano a reggere la recita del perenne sorriso predicata dalla TV.

L’esito della sconfitta politica delle donne italiane negli anni ’80 è socialmente visibile per chi come me è nata dopo la guerra e ha voluto vivere fino in fondo la sua vita come cittadina, lavoratrice, madre e continuare sempre a cercarsi e interrogarsi nel suo essere prima di tutto donna.

“Io sono mia” continua ad essere una frase che mi emoziona perché non fornisce una definizione o una certezza, afferma semplicemente una responsabilità nell’accettazione della propria nascita, del proprio essere nel mondo, definisce l’unico vero spazio di possesso non prevaricante.

Intorno al padrone noi donne costruiamo la casa, anni fa dicevo che noi mandiamo in giro gli uomini “lavati, stirati e mangiati” e loro fanno finta di saper governare il mondo.

Ci vuole coraggio a smantellare una casa, luogo di tutte le ambiguità a cominciare da quello che davvero vogliamo per i figli e le figlie.

La casa è prima di tutto il luogo in cui si costruiscono i legami e le eredità. Siamo in grado come madri di pensare giustizia e uguaglianza da lasciare in eredità a figli e figlie? Chi detiene privilegi sociali è in grado di pensare i propri figli e figlie come parte di una collettività che esercita insieme diritti uguali.

Il benessere ha generato nei nostri cervelli un perverso corto circuito affettivo: più conosciamo le condizioni disperate di altri più cerchiamo di proteggere chi ci è caro svendendo ideali e principi morali. Come se davvero fosse possibile salvare i nostri figli mentre gli altri muoiono delle nostre complicità.

Ora in gioco però ci sono anche l’aria e l’acqua, non potremo blindare le nostre case.

Sarebbe il momento di smantellarle, è questa davvero la parola giusta che non significa distruggere, ma smontare la vita e ricostruirla in modo diverso. Si tratta di fare un trasloco, attività in cui siamo ancora maestre perché in qualche remota fibra del nostro essere sopravvivono certamente le antiche competenze del nomadismo.

Si può smantellare la casa del padrone. Resta la questione degli attrezzi, che non è da poco. Gli attrezzi vanno definiti e costruiti uno ad uno, non sono parole astratte, di un attrezzo si definisce l’utilità e il modo d’uso.

La libertà sbandierata da una parte di ceto politico femminile solo una decina di anni fa ora è muta, a malapena abbiamo avuto la libertà di ereditare, ognuna per sé, patrimoni opportunità privilegi che ci ha offerto la casualità della nascita. (ma questo era solo il primo passo, l’emancipazione). Chi ne ha avuti di più se li gode in silenzio, se è sfrontata (o stupida) mette in piazza soprattutto la propria capacità di averli saputi utilizzare, che infatti qualcosa conta in una società dove il successo si misura con le rendite ed è tollerato solo lo sperpero dei beni pubblici e solo se produce profitti privati.

Nell’Udi, dove sono stata a lungo come dirigente nazionale, ci siamo molto appassionate sulla questione delle forme della politica, che sono appunto gli attrezzi, e proprio lì ho scoperto che le condizioni di vita materiali (dove e come vivono e sopravvivono i corpi pensanti) sono ancora il vero inciampo della democrazia, la realtà continuamente rimossa e accantonata.

Ho dovuto cedere al fatto che non mi posso permettere di fare politica, di esprimere politicamente quella che sono e quello che sento. E’ una condizione oggi di tante donne. Ognuna penso continui come me a smantellare la sua propria casa del padrone, a organizzare traslochi, ma è un’operazione che avviene quasi in clandestinità, un’attività che svolta da sole comporta prezzi e fatiche che rischiano di diventare insostenibili.


2)Pur con alcune eccezioni sembra che anche le donne con le migliori intenzioni, una volta arrivate ai vertici del potere, si uniformino ad esso, diventando una fotocopia dell’agire maschile. Dove sta il problema: nella politica o nelle donne?


La politica seleziona abilmente le donne a cui consente di arrivare al potere, la prima condizione è che non abbiano fatto esperienze politiche tra donne, che i loro corpi siano vergini da questo punto di vista, che non presentino alcun segno di una storia che è già stata rimossa per l’ennesima volta.

Le donne che fanno politica spesso con la loro presenza coprono la voragine di un’assenza e nemmeno lo sanno, pur essendone pienamente responsabili.

I gradi della complicità sono molti, basterebbe smantellarne alcuni.


3)Si può cambiare la politica, e il mondo, senza prendere il potere, come sostiene Halloway?


Ho pensato fosse possibile e sono contenta di averlo pensato e praticato, ma oggi che persino quando parlo ai miei alunni e alunne, che pura mi stimano e mi amano, sento che le mie parole sono in parte incomprensibili, che sono diventata un dinosauro (solo ossa, carne e pelle virtuali), oggi che guardo impotente la fatica delle/dei giovani che più amo per stare in questo mondo e vedo in questo l’esito della mia sconfitta, oggi non so più cosa pensare. Semplicemente continuo a fare quello che so fare, continuo a vivere intera, senza recriminazioni o nostalgie, coltivando la memoria nello stesso terreno della speranza perchè dal piccolo luogo in cui vivo non riesco a sapere né pensare altro. Ma se tu mi hai raggiunta con queste domande e io ho ancora voglia di rispondere pur avendo poco da dire e niente da proporre, se molte e molti fanno piccoli gesti che s’incontrano tutto diventa possibile. Mai e sempre sono due parole poco adatte a raccontare la nostra specie.

4)Se sei stata attiva nella politica istituzionale (o in gruppi di donne extra istituzioni) a qualunque livello puoi raccontare i punti di forza e quelli di debolezza della tua esperienza? 


Il punto di forza è secondo me identico a quello di debolezza e sta nel modi con cui si costruisce collettivamente il rapporto tra risorse e relazioni umane.

Omettere i dati di realtà, deformarli a proprio favore, cancellare le differenze, nascondere la pochezza degli obiettivi dietro parole altisonanti, negare l’evidenza delle sconfitte, scegliere l’adattamento per non affrontare la fatica della mediazione, assecondare le esclusioni, rimuovere le voci scomode, utilizzare la dimensione affettiva per procurarsi la fedeltà delle alleanze, e tutte le varie pratiche da “cresta sulla spesa” che le donne conoscono bene possono servire alle singole per trovarsi il proprio piccolo spazio, ma sono elementi che determinano la scomparsa politica di tutte, nessuna esclusa e in pochi anni, come abbiamo potuto constatare.

Se vengono meno i diritti sociali è quasi impossibile avere accesso a quelli politici per le donne che non hanno “i privilegi della proprietà”.

La competenza politica non s’improvvisa se vuole esprimere e rispondere alla parte femminile del mondo, oltre che a quella maschile, si impara solo in una collettività politica femminile non omologata, che in questo momento non riesco a vedere da nessuna parte.


5)Quali possono essere gli alleati, e quali invece i peggiori ostacoli alla realizzazione di una diversa qualità della politica per le donne?


Per le alleanze ci vogliono patti chiari, ma non c’è dubbio che gli ostacoli più significativi possono essere le donne stesse. Quando le condizioni ti costringono a fare lo slalom tra sotterfugio e privilegio e la tua forza come la tua debolezza stanno negli affetti, non è facile pensare a far vivere una cittadinanza, parola del resto pensata contro le donne alle origini del pensiero politico moderno e nelle gloriose rivoluzioni di cui si vanta l’Occidente.

Ho la sensazione che gli uomini guardino al mondo delle donne senza capire o senza vedere e che comunque trovino la loro cecità molto comoda e funzionale al proprio modo di stare al mondo.

Il casalingato, che è la nostra catena, potrebbe essere il luogo della nostra forza, Lisistrata insegna, ma l’eroismo non è una pratica che si regge a lungo e nella solitudine di ognuna si sopravvive attraverso gli accomodamenti.

6)Sei arrivata ad una posizione di primo piano nella politica, e puoi scegliere cosa fare: le tue cinque prime azioni da realizzare subito.


Prima di tutto pensare che non posso fare e pensare da sola, che i cambiamenti collettivi richiedono di essere pensati dalla collettività.

Prima di tutto, trovare il modo di conoscere, scoprire, costruire collettività pensanti in cui vige la regola di non sopraffazione tra i sessi.

Prima di tutto considerare la concretezza delle condizioni definendo comunque un orizzonte della speranza e la praticabilità dei desideri facendo i conti con bisogni, deprivazioni e privilegi.

Secondo, terzo, quarto e quinto, in un mondo (il mio piccolissimo) in cui mi trovano strana se ricordo Srebrenica o se certe mattine quello che dice e quello che non dice il telegiornale forma un mulinello di parole nella mia testa che interferisce con i miei doveri, o se ho voglia di ridere ma le cose che fanno ridere gli altri a me fanno mal di stomaco, in un paese (il mio piccolissimo, poco più di mille abitanti) dove persino ora che sono un’anonima insegnante madre di famiglia la sedicente sinistra mi tiene alla larga come se avessi una malattia contagiosa, non ho tempo né sufficiente fantasia per pensare a cosa farei se…perché la mia giornata è già interamente occupata ad agire nel qui ed ora. Se mi trovassi “là e allora” posso ragionevolmente pensare, basandomi sui fatti della mia vita, che sarei in grado di realizzare cinque azioni e oltre senza fare danni.


Ci si radica nel presente se si ha memoria del passato, se si impara a decifrare ciò che è scritto sulla propria stessa pelle. Molte donne della mia generazione hanno cercato di capire quello che era successo “prima”, hanno interrogato le donne del passato cercando di evitare la tentazione dei monumenti che cancellano al pari dei disconoscimenti. Ho imparato la differenza tra complicità, passività e sconfitta perché l’esito biografico è molto diverso anche quando quello pubblico è la cancellazione di tutte.

Oggi avverto intorno, in ciò che rimane, molta retorica che, come sempre, copre la complessità del reale e impedisce l’elaborazione della memoria e il passaggio del testimone.

Il femminismo è stato prima di tutto una pratica politica che consentiva visibilità alle donne in tutte le loro differenze.

Oggi che la tipologia a cui assomiglio di più sembra sparita, la parola è alle giovani, la loro ricerca è l’unico reagente che può far riapparire una storia che sembra scritta con l’inchiostro simpatico. Difficile parlare nel vuoto, ma se qualcuna chiede, trova risposta.