Famiglia-famiglie

Quand’ero piccola (ma non tanto da non essere già in grado di guardare e pensare il mondo) la famiglia era una variegata costellazione di persone adulte, zie, nonne e cugini di ambo i sessi prevalentemente, di diverso grado di parentela, che ruotavano nella vita dei miei genitori (e quindi mia) enunciando regole e percorsi obbligati in cui avrei dovuto incanalare il mio futuro di femmina.
Fece scalpore, a non so quale pranzo appunto di famiglia, una mia ingenua e limpida dichiarazione di preferenza per la condizione di prostituta che, rispetto a quella di moglie, mi sembrava di gran lunga più onesta e libera.
Avevo quattordici anni e nessuna conoscenza, esperienza, certezza, solo una grande curiosità e un sentimento di avversione profonda  per la rete, che a me sembrava ipocrita e meschina, di relazioni tra adulti dei due sessi di cui noi piccoli eravamo il frutto e l’investimento.
La parola famiglia m’ispirava un’istintiva ribellione radicata in un dolore a cui non sapevo ancora dare nome nonostante amassi disperatamente i miei genitori di cui ero l’unica desiderata figlia.
Quella famiglia è uno sfondo lontano nel tempo e nella memoria, un’immagine di cui ho cercato di decifrare ogni sfumatura collocandola nella luce del paesaggio storico a cui appartiene e attualmente non so quale immagine e risonanza emotiva evochi la parola famiglia per i miei figli ormai grandi.
Pienamente adulta, se non matura, come si usa dire della mia età, so di aver dato il mio piccolo contributo, contrariamente alle mie divagazione ed utopie adolescenziali, alla creazione di un insieme di relazioni umane che viste dall’esterno viene sbrigativamente definito famiglia.
Se guardo, in occasione di qualche pranzo meno quotidiano del solito, non solo i figli che ho partorito e “affiliato” (cresciuti e amati facendomi riconoscere come madre non solo perché partoriti e giuridicamente accolti come figli) e il loro padre con cui ormai ho condiviso tante e diverse stagioni (non solo genitoriali o coniugali), ma anche le altre persone che siedono con me intorno al tavolo grazie a un legame che non ha definizioni giuridiche o affettive correnti, la parola famiglia, che pronunciamo con la dovuta consapevole ironia per le varie e diverse esperienze pregresse dei più adulti tra noi, mi appare calda e vitale come il fuoco del camino (debitamente alimentato e protetto) che accompagna le nostre serate.
Una parola che sintetizza il felice esito di una ricerca che ha conosciuto qualche epifania, la reciprocità solidale e rispettosa, la fiducia che sostiene le discussioni feroci e qualche accadimento gioioso.
La dicotomia emotiva evocata dal termine famiglia non è però solo di ordine temporale, ma anche espressione di una divaricazione non facilmente componibile tra interno, quello che vivo nel mio cuore e nella mia casa, ed esterno, la mia collocazione nelle leggi e consuetudini che regolano la convivenza tra individui sul territorio che abito.
Fuori dalla porta della mia casa la famiglia mi appare talvolta come un’ideologia subdola che sintetizza elementi, pratiche e pensieri vari potenzialmente minacciosi per quella comunità di affetti e solidarietà che costruisco giorno per giorno.
Il legame tra famiglia e matrimonio come unione astrattamente funzionale alla procreazione (perché poi la realtà è più complicata e creativa) e quindi obbligatoriamente tra due individui di sesso diverso, mi appare ad esempio di inquietante arcaicità di fronte alla ricerca aperta dalle nuove libertà che donne e uomini hanno da poco intuito nella possibile definizione della propria soggettività, anche a fronte delle scoperte scientifiche, oltre che delle acquisizioni culturali e politiche, che rendono possibile uscire da un immaginario di genere bloccato da alcuni millenni su una presunta diversità condannata ad una disparità di potere e di opportunità di crescita.
Ancora più inquietante, per citare un altro elemento, mi appare l’atavico rapporto tra matrimonio e patrimonio in relazione alla trasmissione di eredità ai figli legittimi (o altri diretti consanguinei com’è d’uso) oggi esente da tasse con il comune beneplacito come se si trattasse di mera questione privata.
Pur appartenendo alla diffusa categoria di chi lascerà alla prole a malapena un tetto, se la fortuna assiste, non mi sento ingiusta con i miei amatissimi rampolli se penso che preferirei una qualche redistribuzione delle risorse, tra le generazioni che ci succedono, anche nella forma molto molto modesta della tassa sull’eredità, per ricordare loro che il caso decide della nostra nascita, ma essendo tutti abitanti temporanei del pianeta la qualità della nostra vita dipende più dalla circolazione di affetti e pensieri che dall’accumulo di risorse, le quali meglio distribuite probabilmente li favorirebbero.
Non amo l’odierno rilancio culturale della famiglia come unica sede di decisione per le scelte e il futuro dei figli.
Se la difficoltà di leggere i processi (sociali, politici, economici, culturali e d’altro genere) dentro cui siamo immersi come pesci che, cresciuti in un acquario, vengano buttati nell’oceano, genera paure più o meno fondate che spingono i genitori ad un moto istintivo di protezione dei loro piccoli e piccole, non possiamo dimenticare che le forme sociali sono protettive per la specie solo se congruenti con le condizioni di vita.
In parole più semplici non è favorevole alla sopravvivenza di nessuno pensare di tornare alla tribù o perfino alla famiglia endogamica quando per mangiare dipendiamo dal mercato globalizzato.
L’iperprotezione dei cuccioli, trasformata in un pesante tentativo d’ipoteca sul loro futuro (tentativo perché poi molti cuccioli restano imprevedibili) rischia di trasformarsi in una non tanto antica pratica proprietaria che accomuna la prole ai beni mobili e immobili misurandola in termini di rendimento.
L’idea che voler bene ai propri cuccioli rappresenti il Bene in nome del quale ai genitori viene attribuita la libertà di qualsiasi scelta per il loro presente e futuro, come viene insinuato, nemmeno tanto implicitamente, dalla filosofia scolastica praticata dal Ministero dell’Istruzione, significa dimenticare che nella realtà l’esperienza ci insegna che i figli non ci appartengono perché attraversano la nostra vita e vanno oltre e che nella riflessione sul rapporto tra cittadinanza e democrazia un passo importante è proprio rappresentato dall’invenzione dello Stato sociale come luogo di concreta responsabilità collettiva e solidale degli adulti, uomini e donne, nei confronti delle giovani generazioni e della qualità umana e civile del loro futuro.
La genitorialità come atteggiamento adulto di responsabilità e di cura verso i piccoli della specie in quanto tutti unici e diversi, portatori di una minuscola ineguagliabile porzione di futuro, potrebbe essere un sentimento di gran lunga più piacevole e liberatorio per grandi e piccoli da sperimentare, rispetto a quel cumulo di responsabilità che troppo spesso carica di reciproche frustrazioni e sensi di colpo i rapporti tra genitori e figli.
Come diceva Natalia Ginzburg[1]conviene insegnare ai figli le grandi virtù, non quelle piccole, cominciando ad aprire le porte blindate della casa, del cuore e della mente ad una circolarità di risorse possibilità e opportunità che costruiscano un largo spazio condiviso percorribile liberamente da chi deve ancora crescere.
Affido a questo articolo solo alcuni scarni pensieri su una materia che ormai vanta una copiosa, anche se forse poco frequentata, bibliografia, più una riflessione sul senso e il percorso del mio vivere che un vero approfondimento, ma mi auguro che proprio dalle domande sulla propria “famiglia” si apra almeno uno spazio di dibattito in cui il vissuto reale si liberi dalle etichette e l’affetto per le persone più care diventi il motore per la ricerca di forme di convivenza che favoriscano se non la felicità, almeno le condizioni perché non sia eccessivo il carico di fatica e sofferenza per qualcuno.
 
In Marea 1/2004

[1]Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962