Molti anni fa Lidia Menapace nel necrologio per la morte della madre scrisse di essere contenta di aver avuto come madre non una madre simbolica, non una madre badessa, non una regina madre, ma una ragazza emancipata allegra e ironica.
A noi ragazze ricordava sempre che sua madre si definiva una ragazza emancipata durante il fascismo, quando l’aggettivo significava puttana e perciò le figlie ragazzine si stupivano un po’ imbarazzate.
La madre di Lidia non ha mai dimenticato di essere stata licenziata quando si è sposata e, ancora in tarda età, amava affermare che il sindacato aveva perdonato questa ingiustizia ma lei no.
Parto da questo ricordo perché c’è qualcosa che mi disturba nell’elogio delle madri costituenti, e del resto non amo neppure la definizione di padri, invalsa nell’uso, anche perché molti di quegli uomini mi sarebbero piaciuti molto come padri reali mentre altri non li avrei voluti nemmeno come zii.
La Costituzione è il frutto di un grande e perfino diffuso dibattito e della convergenza migliore che ci poteva capitare tra bisogni di quel presente e visioni del futuro, concretezza e lungimiranza.
Sono grata alle ventun donne che hanno scritto la Costituzione molto più che ai cinquecento (e rotti) uomini, perché la loro capacità di presenza è stata non solo abile, tenace, consapevole, competente, intelligente, sensibile alle esistenze reali del mondo che usciva dalla guerra, ma perché la loro azione in quel momento, e ancora dopo a lungo, è stata capace di illuminare la strada che noi avremmo potuto percorrere.
Alla Costituente c’erano padri e madri reali, che avevano vissuto la lontananza e perfino la perdita di figlie e figli, ma tutte e tutti erano lì per costruire la libera cittadinanza, una democrazia fondata sul lavoro e non sul profitto, attenta alla tutela delle famiglie ma non familista e proprio quelle donne sono state per tutta la vita attente ai diritti dei bambini e delle bambine a prescindere dalle famiglie di appartenenza, a prescindere dal fatto che fossero figlie e figli di qualcuno o di nessuno, come si usava scrivere per chi nasceva fuori dal matrimonio.
Essere soggetti di diritti in quanto nate e nati: questa è stata la lungimiranza che le ha guidate anche nella scrittura di quell’articolo tre a cui ancora possiamo appellarci.
Le madri presenti alla Costituente hanno pensato alle madri e alla maternità senza presentarsi come tali, consapevoli della trappola del materno continuamente aperta per ingabbiare e mortificare le donne, di cui molte avevano memoria nella retorica della prima guerra mondiale, assunta poi dal fascismo per il quale le donne avevano come unico scopo di essere madri e di piegare se stesse alla mera riproduzione di vite al servizio dell’eugenetica di uno stato dittatoriale, razzista e quindi sessista che le sfruttava, emarginava, mortificava e perseguitava.
Erano donne straordinarie, chi le ha conosciute sa bene che sono rimaste le ragazze di una giovinezza dell’anima mai piegata, mai mortificata, mai compromessa, antifasciste per modo di vivere prima ancora che per scelta, pagata anche nell’esilio, nelle carceri, nel confino, nel lager.
Non pieghiamole a un immaginario enfatico che nell’evocazione di una grandezza materna (quella che in genere copre la mortificazione delle madri reali), le definisce con una parte per il tutto, le riduce a un aspetto oscurando quel loro essere pienamente donne che hanno conquistato a prezzo altissimo e ci hanno regalato con la bussola della cittadinanza per trovare il cammino.
Sono sorelle, così come diventano le madri reali quando figlie e figli diventano donne e uomini adulti, prima di essere a loro volta accudite nella vecchiaia.
Sorellanza è forse la più vera tra le parole che ancora non avevano per dirsi, perché chiarissima nella loro pratica politica, cominciata nell’antifascismo, cresciuta nella resistenza, continuamente attenta a far crescere, negli anni difficilissimi del dopoguerra, associazionismo femminile e mobilitazione creativa, intelligente, solidale delle donne.
Sono le sorelle che hanno aperto la stagione dei diritti delle donne e quindi di una democrazia che si sono impegnate a inventare passo dopo passo, insieme alle parole per esprimerla.
Noi non siamo le figlie, siamo eredi di una storia, noi donne e anche gli uomini che decidono di percorrere questa strada e non altre: possiamo assumerla nella responsabilità che ancora oggi chiede, come allora, la nostra presenza lungimirante e innovatrice, capaci, come sono state loro, di scavare nelle parole per capirne le potenzialità e le trappole, e andare avanti.