CURA
di Rosangela Pesenti
(in Ritanna Armeni (a cura di), 2011, Parola di donna, Ponte alle Grazie)
Sostantivo femminile di origine latina (secondo il dizionario di Tullio De Mauro emerge nella lingua italiana nel XIII secolo) dai molteplici contigui significati: sfumature del pensiero, e del fare, che trovano posto in parole diverse, così come l’intera gamma dei colori, che s’allarga nelle più varie tonalità, è contenuta nel bianco che ne è sintesi e matrice. La cura è il bianco.
Premura, sollecitudine, impegno, diligenza, attività, compito, pensiero, preoccupazione, riguardo, assistenza, custodia: sono molte le approssimazioni sinonimiche di questo bisillabo, che trova anche un’applicazione più individuata in materia giuridica ed ecclesiastica ed ha una sua naturale estensione nel verbo curare, che ne declina l’intrinseca attivistica ragione: in termini moderni potremmo persino definirla mission, che è sempre ovviamente anche una vision: più che un modo di guardare il mondo, la cura è un modo di abitarlo.
Da noi in campagna si chiamava ‘cura’ l’attività di lavaggio annuale della biancheria da letto per riportarla al candore originario e, come il colore bianco, la cura è talvolta invisibile agli sguardi superficiali, ridotta da alcuni a non-colore, semplice base su cui esercitare ben altre competenze, la pagina su cui si scrive, la tela su cui si dipinge, la luce del mondo invisibile come l’aria che respiriamo.
Forse per questo, a mio avviso un po’ sbrigativamente, dagli anni ’70 è invalso l’uso di definire ‘lavoro di cura’ tutta quella miriade di attività sommerse, erogate prevalentemente dalle donne nella vita quotidiana, che non conoscono valorizzazione economica, oltre che scarsa e mortificante retribuzione monetaria, come se il termine potesse avere una perenne oscillazione tra generica utilità e specificità impossibili da catalogare non solo per la varietà, ma per l’intrinseca flessibilità.
Così è spesso la vita delle donne: mai interamente definibile nei suoi tempi e forme di lavoro anche quando ne svolgono uno preciso, con accesso al mercato, pari agli uomini.
Per Lidia Menapace, che fin dall’inizio del dibattito femminista ha nominato questo lavoro più precisamente come economia della riproduzione,[1] qualificata dai tre aggettivi: biologica, domestica e sociale che ne definiscono gli ambiti, la cura è il modo che ne caratterizza l’erogazione.
La cura è un modo, cioè una forma dell’essere, una sinergia di pensieri, gesti, atteggiamenti, posture, mimica del viso e degli arti, competenza prossemica, uso del linguaggio verbale, modulazione della voce, estetica del corpo e tutto ciò che realizza compiutamente una prestazione lavorativa nell’economia della riproduzione.
Economia che non riguarda lavori socialmente utili, ma variamente indispensabili, a cominciare da quello della riproduzione biologica, origine della stessa esistenza umana e fondativo della società, passando per quella domestica, inscindibile dall’abitare umano, fino a quella sociale: scuola, sanità e pubblica amministrazione, da cui deriva la forma stessa dello Stato.
La cura è il modo di svolgere un lavoro che non può dare profitto, infatti i figli non sono una proprietà, la scuola non sforna prodotti e l’ospedale non può essere il terminale delle case farmaceutiche.
Per questo però è così difficile riconoscere le forme organizzative e il valore di questo lavoro, fondato sulla cura, in un’economia appiattita sul modello aziendale e l’asservimento al mercato.
I lavori della riproduzione non si possono fare con incuria, noncuranza, trascuratezza, disinteresse, distrazione, indifferenza, negligenza. Senza cura questo lavoro non esiste perché non se ne configura l’esito, così come il pezzo sbagliato uscito dalla catena di montaggio non può essere definito prodotto e infatti si chiama scarto.
Come nella produzione delle merci la divisione del lavoro ha un suo limite quantitativo in una mansione non ulteriormente frazionabile, che deve essere ripetuta con precisione,[2] così nel lavoro della riproduzione esiste un elemento non qualitativamente riducibile, anche nel suo segmento più semplice, ed è la cura.
In medicina la parola cura viene sempre più sostituita da terapia, termine più articolato dell’antico rimedio, ma la cura resta l’unico modo di esercitare le professioni di questo settore in modo efficace per i/le pazienti, che si tratti dell’operazione svolta dal grande primario/a o dell’iniezione di un infermiera/e. Gli altri modi non sono previsti dal codice deontologico professionale.
Trascurare la cura nell’organizzazione dei lavori della riproduzione costringendoli nelle procedure e protocolli sperimentati (e non sempre con successo) per i lavori produttivi, significa mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa, minando alla radice le forme delle relazioni sociali.
L’impegno non è la conformità esecutiva, la diligenza non è la precisione, la premura è più dell’attenzione, la custodia non è il possesso, il gesto della cura non si ripete mai uguale perché si adatta alle circostanze, alle persone, agli eventi.
La cura non è solo una modalità trasmissibile, ma è il modo stesso della trasmissione, infatti diversamente dall’apprendimento semplice di una mansione o di un gesto del lavoro produttivo non prevede la ripetizione meccanica, al contrario richiede sempre che il soggetto agisca una indispensabile quota di libertà insieme alla parte di necessità, la libertà che attiva nel soggetto fruitore la capacità di modificare il gesto appreso dentro le circostanze che infinitamente diversificano il cammino umano su questa terra.
Di questa parte nascosta del cammino umano le donne ancora possono essere maestre per tutti.
[1] Cfr: Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Edizioni Felina Libri, Roma 1987; Scienza della vita quotidiana in Reti 1990, Crisi ed economia della riproduzione in “Su la Testa”, supplemento di Liberazione, n.1/2010
[2] Cfr: Adam Smith, La ricchezza delle nazioni