CARTE PER LA MEMORIA: L’UDI E IL MOVIMENTO FEMMINISTA A BERGAMO NELLE CARTE DELL’ISREC
In Storia delle donne: la cittadinanza, Quaderni della Fondazione Serughetti-La Porta 79/2002
Archivio dell’UDI e Fondo Lastrea
Come nasce un archivio?
Quelli delle donne hanno storie molto diverse dagli archivi tradizionali e molto diverse tra loro, anche se possiamo rintracciare alcune caratteristiche comuni per “generazioni politiche”.
Ptremmo perciò parlare davvero di “storie d’archivio” prendendo a prestito il titolo di un bel saggio di Natalie Zemon Davis.[1]
La presentazione dell’Archivio dell’Udi e dei collettivi di Bergamo chiude una storia cominciata per me vent’anni fa, che quindi in parte è anche la mia storia e forse proprio per questo tra la fine del riordino dell’archivio e la sua presentazione pubblica oggi sono trascorsi ancora molti anni.
Ho cominciato a pensare a un archivio quando sono entrata la prima volta all’Udi: la sede provinciale di Bergamo consisteva in due microstanze dentro la sede dell’Arci, di cui potevamo usufruire, per le riunioni, anche di una sala discretamente grande.
Ero tornata, carica d’entusiasmo, dal X Congresso nazionale al quale ero stata invitata come femminista, ‘non iscritta’, perché quello fu appunto il Congresso dell’apertura al femminismo e della sperimentazione di parole e forme politiche nuove.
Di quell’esperienza ricordo lo slogan “La mia coscienza di donna in un grande movimento organizzato per cambiare la nostra vita”; i gruppi di discussione tumultuosi, in cui si parlava e si ascoltava mescolando, più o meno creativamente, autocoscienza, analisi politica, racconto autobiografico e cronaca; l’arrivo di Camilla Ravera, piccola, vecchissima (così mi sembrò) che passava solenne tra due ali di giovani donne festanti, la presenza di donne più vecchie di me, della generazione di mia madre, tra cui alcune di cui avevo letto su libri e giornali; il grande girotondo finale che non si sarebbe mai più ripetuto nella mia vita così spensierato e incosciente.
La sede di Bergamo non corrispondeva certo all’immagine del Congresso, ma la delusione maggiore fu proprio la mancanza di un archivio. Dov’erano le donne che avevano costruito l’Udi a Bergamo?
L’attività frenetica dei quattro anni successivi che ci portarono a quell’XI Congresso che segnò la svolta politica dell’Udi, accantonò la questione archivio: mi limitavo a riempire casa mia di cartelline ordinate, ma in sede non c’era tempo nemmeno per tenere un archivio corrente, figuriamoci una ricerca sulla storia precedente.
Nel frattempo ero diventata anche segretaria provinciale e l’attività politica mi assorbiva completamente, attività in cui non mancava l’attenzione alla storia delle donne, allora agli inizi in Italia, ma eravamo così occupate ad ‘essere nella storia’ che la percezione del tempo era interamente sul presente, tanto che molti volantini portano la data senza citare l’anno.
Riordinare era difficile: nella primavera del 1981, in piena campagna referendaria per la difesa della 194, ho partorito il mio primo figlio, mentre alcune compagne facevano il trasloco dell’Udi in una sede autonoma; scrivevo lettere e volantini a casa mia e andavo a “tenere dibattiti” prima con la pancia e poi con il bambino nella cesta, mentre la sede dell’Udi era il centro di smistamento delle iniziative e della stampa; era appena finito il referendum e cominciavamo la mobilitazione per il Congresso che si tenne nella primavera del 1982.
Del resto non potevamo pensare alle carte, proprio perché il nostro tempo era occupato dalla politica e ogni tanto penso che l’interesse attuale per gli archivi nasce anche dalla difficoltà di ritrovare nelle nostre vite il senso della politica.
Dopo l’XI Congresso tutto era da reinventare, in un clima che cominciava ad essere quello pesante degli anni ’80, votati al rampantismo sociale, che vendeva alle giovani donne un’immagine di noi, allora poco più che trentenni, ridicolmente ‘vetero’, favorendo quell’interruzione di memoria che cominciavamo a studiare nel passato.
Si tratta di una storia ancora tutta da scrivere, che non si può quindi ancora sintetizzare a scopo divulgativo, ma proprio la sensazione che venissero messe in atto operazioni insieme sofisticate e visibili (almeno per molte di noi) finalizzate a cancellare la realtà di un ‘appena ieri’ che cominciava a sembrare lontanissimo, mi spinse a cercare di salvare le ‘carte’, perché un archivio è prima di tutto la testimonianza di un’esistenza.
Cominciai dalla Resistenza, indagando la presenza dell’Udi nei verbali del C.L.N. presso l’I.S.R.E.C.: non conoscevo le donne di cui si riportavano gli interventi, ma potevo rintracciarle, intervistarle. Andai a trovare Lavinia Guastalla, Lina Dasso e, più avanti, a Roma, Velia Sacchi, ma anche questa è un’altra storia che ho portato a compimento, in parte, solo di recente.
Allora la mia voglia di ricerca si scontrava con le esigenze del lavoro, di due bambini piccoli, dell’abitare in provincia e forse soprattutto della solitudine politica che avvertivo e pativo come incapacità personale.
Quando, insieme a donne che provenivano dall’esperienza dei collettivi, fondammo il Centro Culturale Lastrea e cominciammo a raccogliere i documenti di quella che era stata l’esperienza, ormai quasi definitivamente chiusa nel 1983, dei collettivi femministi bergamaschi, sembrò naturale, alle compagne dell’Udi rimaste, affidarmi l’archivio provinciale.
Mi portai a casa due scatoloni, pieni di volantini avanzati, qualche quaderno con i conti scritti a mano, come si usava allora, e qualche cartelletta piena di fatture e ricevute: i cambiamenti rapidi, nei pochi anni dopo l’XI Congresso, avevano rimescolato quel poco ordine che avevamo cercato di fare negli anni precedenti.
I primi tempi mi dedicai a raccogliere quello che restava dei vari circoli Udi o in casa di singole compagne e voglio ricordare che il materiale oggi in archivio proviene, oltre che dal mio fondo personale, dai Circoli di Calusco, Cortenuova, Romano L. (che era il mio gruppo d’appartenenza) e dalle carte date con generosità dalle compagne Luciana Pecchi di Bergamo e Tina Filippi di Rogno che avevano conservato anche molti materiali precedenti il 1978.
Così cominciai l’operazione, non facile, di riordino, avvalendomi della preziosa consulenza di Giuliana Bertacchi dell’ISREC.
Scatoloni, cartellette, fasci di manifesti e di mostre occuparono il mio garage e le mie estati per qualche anno; non era facile venirne a capo, non solo perché si trattava spesso di dare una collocazione cronologica alle carte, pescando nella memoria, ma soprattutto perché molte di quelle carte riguardavano direttamente la mia storia, c’era la mia calligrafia su volantini e manifesti, le mie parole, rigorosamente a firma collettiva, gli errori dovuti alla mia imperizia con la macchina da scrivere: ricordo la parola “divisamente” invece che “visivamente” nella lettera che richiamava ad una manifestazione collettiva in occasione della mostra “La città della pace” per l’8 marzo 1982; correggerla o no? Per noi le lettere erano una sorta di adempimento burocratico, poco curato, perché la comunicazione passava con l’informalità di quello che chiamavamo “tam-tam”, ma per una futura storica quella parola sarebbe stata un rompicapo? Problemi di collocazione delle carte e problemi futili come il colore dei faldoni: entrai in crisi quando dovetti aggiungerne alcuni blu, perché non erano sufficienti quelli verdi che avevo acquistato tutti insieme.
Spesso invece dovevo sospendere il lavoro perché m’invadeva la tristezza per qualcosa di finito, per un tempo passato per sempre, ma ancora così vicino che non mi consentiva di guardare al futuro.
Mi interrogavo anche sulla legittimità del mio gesto: assumevo singolarmente la responsabilità di costruire l’archivio di un soggetto che era stato collettivo e che ora, proprio in quelle carte, mi appariva muto.
Le lettere, tenute insieme con spilli da sarta invece che da più “nobili” graffette, erano scritte in un politichese burocratico che maneggiavamo con qualche difficoltà, lontanissimo dal nostro modo di parlare, fitto e di tutto.
Era un’operazione, questa, la mia, che metteva in gioco la possibilità del permanere di una storia, ma anche il suo silenzio: gli archivi infatti sono muti se non c’è uno sguardo che li interroga, se qualcuno non restituisce voce alle parole. Mi sembrava di chiudere anche me stessa in quei faldoni, muta, in attesa di voci che non potevano essere la mia.
Pensavo al testo di Olympe De Gouges sepolto, credo, per quasi duecento anni nella Biblioteca Nazionale di Parigi, o al volantino di un’Associazione femminile per la pace e la libertà, fondata a Bergamo nel 1943, scoperto all’ISREC, che mi ha condotta a Velia Sacchi.
Nel frattempo avevamo chiuso di comune accordo l’esperienza del Centro Lastrea per la difficoltà di incontrarci, ormai prese tutte da altre storie, lavorative, familiari o sociali che fossero; nell’ultimo incontro, al quale non ero presente, le compagne decisero di affidarmi l’archivio, che avevamo raccolto e riordinato, dei collettivi bergamaschi.
Me lo comunicò Carmen Plebani e credo di aver provato un momento di emozione e di spavento: si trattava di un riconoscimento e di una responsabilità insieme.
Ero grata alle compagne per la fiducia, ma sentivo che il lavoro ora non poteva più essere dilazionato.
Completai quindi il lavoro di riordino e nell’ottobre del 1995 chiesi al direttore dell’ISREC, Angelo Bendotti, di depositare l’intero archivio presso l’istituto stesso, non essendoci a Bergamo un’istituzione archivistica delle donne.
Mancavano alcune carte del mio archivio personale (soprattutto fonti a stampa, che avevo lasciato al Circolo Udi di Romano, a quel tempo ancora esistente, che sono state recentemente depositate e integrate nell’archivio), ma il mio lavoro mi sembrava sostanzialmente compiuto.
Depositare l’archivio era un gesto che liberava la mia casa e i miei pensieri, non sentivo il bisogno di altro, anche se sapevo che sarebbe stata necessaria una qualche presentazione pubblica, almeno per correttezza d’informazione.
Solo recentemente, proprio l’eperienza di un interesse per la storia dell’Udi da parte di giovani ricercatrici, che ne hanno fatto oggetto della loro tesi di laurea in alcune città italiane, e l’opportunità di riprendere in mano la nostra storia, insieme alle donne della mia generazione e con le più giovani, che si è aperta con questo ciclo d’incontri promossi dalla Fondazione Serughetti – La Porta e dalla Convenzione delle donne di Bergamo, mi hanno fatto pensare che era il tempo giusto per portare a termine questo lavoro, presentando pubblicamente l’Archivio dell’Udi e dei Collettivi di Bergamo.
Ho raccontato, per brevi cenni, la storia dell’archivio, non la storia, o meglio le storie, che stanno dentro l’archivio.
Vent’anni sono molti per concretizzare un piccolo sogno, ma sono il tempo giusto per lasciare che cresca una nuova generazione alla quale consegnare un archivio e una certezza: nel passato delle donne non ci sono solo parole scritte nel vento, ma anche qualche “carta” da decifrare, per trovare le tracce di una storia che solo loro potranno raccontare.
Rosangela Pesenti
[1]Natalie Zemon Davis, Storie d’archivio, Einaudi Paperbacks, Torino, 1992 (Tit. orig. Fiction in the archives, 1987)