Per spiegare cose nuove, chi insegna, spesso ricorre a metafore, similitudini, invenzione di parole.
Da molti anni, all’inizio del piccolo ciclo di lezioni su matrici culturali, radici storiche e persistenze antropologiche della violenza maschile sulle donne, che tengo per le volontarie dei centri antiviolenza, uso una metafora così stravagante ed estrema che sposta immediatamente l’uditorio dal comodo giaciglio di luoghi comuni, creando quella confusione e disorientamento che possono indurre a pensare di avere qualcosa da imparare e che io, forse e quindi, ho qualcosa da insegnare.
“Per capire questo fenomeno dovete fare una torsione del pensiero”, enuncio. La torsione è un’attività del corpo, una postura inconsueta che costringe la muscolatura a sperimentare la propria flessibilità e potenzialità, che ognuna/o può solo sperimentare su di sé, come ogni esperienza del corpo, con esiti imprevisti e perfino sorprendenti. E sempre liberatori. La torsione del corpo genera energia e rilassamento rigenerando anche lo spazio dei pensieri.
Noi pensiamo e ricordiamo per immagini, perciò ho trovato un’immagine, di cui ho verificato l’efficacia, che illustra la metafora.
La propongo perché in questo momento, se vogliamo capire cosa accade e cosa fare, abbiamo bisogno di una “torsione del pensiero” che significa prima di tutto pensare a partire dalla propria condizione e dalle proprie responsabilità, ma su questo tornerò.
Non penso infatti che siamo cambiate e cambiati solo perché la nostra vita è cambiata per due mesi; il cambiamento è un processo lento e l’esperienza che ci sta accomunando richiede forse una mutazione, cioè un cambiamento irreversibile e simile a quello del virus stesso, nel salto di specie raccontato da chi se ne occupa in modo scientifico.
Porto con me una striscia di carta e una graffettatrice o lo scotch, e già questo rappresenta uno spostamento che induce curiosità in un paese in cui il sapere passa ancora prevalentemente dal modello cattedratico della conferenza e viene ignorata la potenzialità didattica del fare, indagata in Italia dalla genialità di Maria Montessori e praticata da generazioni di maestre (e qualche maestro) nella scuola elementare.
Presento la striscia di carta perfettamente stesa e faccio osservare le due facce per cui è possibile percorrerne una senza mai raggiungere l’altra, se non attraversando la linea di demarcazione costituita dal bordo o bucando la superficie, che quindi ha, convenzionalmente, un lato “superiore” e “inferiore”, oppure “interno” ed “esterno” se la piego a forma di cilindro.
Poi prendo la striscia di carta e, imprimendo un mezzo giro di torsione, unisco i lati corti ottenendo una figura geometrica con proprietà completamente diverse.
Infatti non ci sono più due facce del foglio ma esiste un solo lato e un solo bordo; dopo aver percorso un giro, ci si trova dalla parte opposta; solo dopo averne percorsi due ci ritroviamo sul lato iniziale. Se si trattasse di una strada si potrebbe passare da una superficie a quella “dietro” senza attraversare il nastro e senza saltare il bordo ma semplicemente camminando a lungo.
Si tratta del nastro di Moebius (o Möbius), matematico e astronomo tedesco, che nel 1858 introdusse per la prima volta questa figura in un trattato sui poliedri.
La storia della scienza è piena di episodi di questo genere e sull’argomento specifico potete trovare interessanti approfondimenti, applicazioni urbanistiche e artistiche, perfino racconti letterari.
Io mi limito ad invitare chiunque lavori con le persone in relazioni di accudimento, aiuto, sostegno, insegnamento, educazione, cura, terapia, trattamento, guida, responsabilità, a tenere sulla propria scrivania un nastro di Moebius per ricordare che l’ovvio può diventare straordinario, ciò che sappiamo è solo un’infima parte di ciò che potremmo sapere, avere una ricetta (una competenza certificata, una preparazione documentata) è importante ma una buona idea può arrivare in modi e da fonti o persone impreviste.
Le nostre certezze sono labili come le nostre immagini mentali ed è fondamentale averne consapevolezza.
Perfino i numeri sono meno certi di quanto pensiamo e dato che di questi tempi consigliare libri sembra diventata un’attività quasi nobile mi adeguo e suggerisco Il meraviglioso mondo dei numeri, di Alex Bellos, Einaudi 2011, che può aiutarci nella torsione, perché comincia proprio raccontando come vivono le popolazioni che non usano i numeri, esperienza inimmaginabile per noi.
Per dare i numeri nel bollettino dei morti siamo scesi a trecento e poi meno, numeri enunciati con sollievo, tranne che per i morti stessi e i parenti ovviamente, che quindi non ci emozionano più. Trecento migranti sono annegati insieme in un passato recentissimo che abbiamo già rimosso insieme allo stillicidio di molti altri numeri atroci. Ci hanno emozionato le sessantacinque bare uscite nella notte sui camion militari dal cimitero di Bergamo ma oggi ne possiamo ignorare trecento.
Questo ci dice che le emozioni sono importanti ma non del tutto affidabili, esattamente con le nostre immagini mentali e le nostre convinzioni.
Quando ero una ragazza mi piaceva l’idea dell’immaginazione al potere, che significava creatività, lungimiranza, apertura verso risorse intellettuali impreviste.
Il virus ci ha costrette e costretti a vedere la straordinaria risorsa intellettuale di quello che abbiamo definito lavoro manuale, dimenticando che le mani sono legate al corpo e mosse dal cervello, che per fare una cucitura diritta, lavare una persona anziana, svuotare i cassonetti della spazzatura, fare un’iniezione, pulire un pavimento, battere scontrini alla cassa, “lavorare” pacchi, come si usa dire nella logistica, scrivere a computer, attivare videochiamate, far giocare bambine e bambini, governare adolescenti, e potrei continuare per pagine e pagine, si usa il corpo intero, cervello compreso.
Abbiamo ascoltato persone comuni, lavoratrici e lavoratori, esprimersi con chiarezza, precisione, proprietà di linguaggio e capacità di governare sentimenti con la consapevolezza del limite, mentre spesso giornalisti e perfino giornaliste si sono addentrate/i in slalom linguistici per coprire quel nulla, umano e comprensibile, che ha cancellato i nostri pensieri diventati ormai inadeguati, senza riuscire, almeno in un primo momento ad esprimere prima di tutto il proprio personale smarrimento, e non mi riferisco a chi, in malafede, persegue losche finalità usando la manipolazione e la menzogna, mi riferisco al giornalismo onesto.
La risposta all’imprevisto non può essere immediata perfetta e riconoscibile, anche i provvedimenti per far fronte all’emergenza non potevano esserlo.
Lo scrivo non per assolvere i fautori del neoliberismo che mettono in conto sacche di miseria e sfruttamento insieme a quote di mortalità, ma perché perfino loro si sono trovati spiazzati e se ci sono state inadempienze perseguibili penalmente, delle quali si occupa la magistratura, non possiamo dimenticare che c’è intorno a quelle inadempienze una vasta correità non perseguibile ma certamente centrale dal punto di vista politico dell’essere cittadine e cittadini di uno Stato democratico.
Come spesso accade ci si riempie la bocca della parola libertà dimenticando la responsabilità, che in democrazia non è mai interamente delegata o devoluta come nello Stato autoritario.
La complessità è refrattaria agli slogan. L’abitudine a semplificare attraverso l’omissione o sottrazione alla fine genera confusione.
Il riassunto è il testo più difficile da confezionare perché si tratta di un’operazione linguistica analoga a quella matematica del minimo comune denominatore ma non altrettanto semplice: si tratta di arrivare al nocciolo duro dell’informazione, spolpandola delle ridondanze, delle digressioni e delle infiocchettature, ma questo significa avere chiaro dove si trova il nocciolo altrimenti il rischio è quello di lasciare la buccia buttando via tutto il resto.
Quand’ero giovane detestavo i centrini all’uncinetto, non ho mai imparato a farli e per anni li ho dimenticati finché non mi sono capitati tra le mani quelli ereditati e riemersi dal fondo di un cassetto. L’intenzione era di buttarli ma di colpo, guardandoli, mi sono resa conto che questa tipologia di centrini è un frattale, oggetto geometrico dotato di omotetia interna, cioè una forma che si ripete allo stesso modo in scala diversa, così che una qualunque parte è simile all’originale, come i broccoli per capirci.
Allora il mio gusto per i centrini non è cambiato ma è cambiato il mio sguardo e mi sono chiesta perché quella forma ha appassionato tante donne, quale rispondenza tra forma e pensieri o quale risposta trovavano in una forma che diventava arredamento.
La torsione del pensiero, come il nastro di Moebius, parte dalla condizione reale, dai dati esistenti, e prova a piegarli in modo diverso.
Condizione reale significa anche partire da dove siamo, perfino dal disagio e dalla confusione per chiederci cosa possiamo fare, evitando la lamentazione rituale, la critica benaltrista (c’è ben altro a cui pensare), il delirio d’onnipotenza per il quale si stendono piani politici e suggerimenti di governo ma non ci si chiede in che modo si può dare una mano al proprio vicino di casa, o si organizza un’associazione non semplicemente a fini riproduttivi della propria esibizione.
La torsione del pensiero è utile per tutte e tutti.
Il governo che abbiamo ha fatto del suo meglio per quello che è nel concreto delle persone che lo costituiscono, in un momento che non ci saremmo proprio augurati di vivere. Cerco di guardarli anche come persone, donne e uomini segnati dalla stanchezza, sottoposti a una pressione certamente non invidiabile.
Si possono criticare certamente, la critica è il sale della democrazia, ma così come finalmente riusciamo a vedere tutto il lavoro umano che sorregge le nostre vite mi auguro che possiamo cominciare a vedere anche il lavoro politico nella sua dimensione di fatica, studio, ricerca, dibattito, ascolto, uso delle parole, in modo che possiamo chiedere, a chi lo svolge, onestà d’intenti, coerenza di pratiche e trasparenza di finalità.
In questo, ricordiamocelo per il futuro, la piena responsabilità è delle cittadine e dei cittadini, ma anche dei meccanismi attraverso i quali il cosiddetto popolo sovrano viene informato o manipolato.
Come anziana chiusa in casa ho visto più TV del solito e mi sono detta che la media delle persone che lavora (e intendo con lavoro anche crescere figli e figlie, accudire parenti anziane e anziani, curare animali domestici ecc.) non ha certo il tempo di seguire una comunicazione così ridondante, prolissa, ripetitiva e spesso noiosa. Lo è stata perfino sul Coronavirus diffondendo confusione.
La me stessa di tre mesi fa, pensionata attivista per almeno dieci mesi all’anno, già privilegiata e con tempo libero a disposizione perfino rispetto alla me stessa di un tempo, lavoratrice madre e figlia, non avrebbe mai seguito tanto sproloquiare su almeno dieci canali televisivi contemporaneamente.
Oltre un certo limite la libertà di parola di informazione di espressione diventa una confusione che ci ingabbia come un nuovo tipo di carcerazione, imponendoci un’autostrada per i pensieri che corrono troppo veloci per vedere il contesto e una postura rigida, esattamente come la guida di un’auto in autostrada.
Per anni ho potuto esprimere la mia passione politica (e perfino qualche modesta competenza) solo in qualche discorso qua e là, nel dibattito famigliare e in poche concrete attività, perciò non mi invento oggi deliri di presenza lontanissima dalle mie possibilità, e non solo dovute al virus.
La mia attività è azzerata e lo sarà ancora per molto molto tempo, per questo ho pensato di rendere pubblico quello che scrivo.
Lo faccio a puntate distanziate perché tengo conto della vita reale delle mie trenta lettrici e cinque lettori (e tutte le altre/altri sono benvenute e benvenuti) e soprattutto perché non voglio ripetere cose che altre e altri stanno già dicendo o, peggio, me stessa.
La prossima puntata sarà sulla DISTANZA mentre rimugino sul rapporto tra etica economia e donne.
Su questo tema faccio solo una battuta come anticipazione.
Sono contenta che finalmente la riproduzione sociale sia entrata nei discorsi e sono contenta che ne scrivano giovani donne.
Lidia Menapace ha introdotto il tema nel dibattito femminista alla fine degli anni ’80, ascoltata e seguita solo da piccoli gruppi e snobbata da molta parte del femminismo mainstream, come si usa dire adesso.
Sono contenta che qualcuna abbia cambiato idea oggi ma mi piacerebbe che le giovani donne imparassero a scoprire cosa e chi c’è sotto la spessa crosta della smemoratezza presente.
Non solo per giustizia della memoria e onestà delle fonti ma soprattutto per quella convenienza del fare e del pensare che molte di noi hanno imparato da Lidia e, me compresa, continuato ad approfondire e praticare.
Alla prossima.