Tra 8 marzo e dintorni

Tra polemiche e anatemi cerco uno spazio non armato.
Sono una femminista iscritta all’UDI.
Non so se sono rimasta indietro, essendo vecchia so che avanti e indietro, alto e basso, sono metafore gerarchizzanti e inadeguate a dire la vita umana tra nascita e morte, quanto alle idee ho imparato da Maria Michetti dell’UDI che in politica non conta l’età ma ciò che pensi.
Cercherò di elencare ciò che penso in forma schematica.
1.     Mi auguro che dal 9 marzo voltiamo pagina e ci dedichiamo al modo di costringere il nostro paese alla smilitarizzazione. Prima di tutto meno armi. Mi auguro che le fabbriche di armi entrino in crisi, che i lavoratori e le lavoratrici di queste fabbriche boicottino la produzione e che il paese intero li aiuti a transitare verso altri lavori e i proprietari a dismettere la produzione. L’unico modo è che il governo non le acquisti e il parlamento voti un taglio consistente al finanziamento militare.
2.     In Italia vivono circa due milioni di lavoratrici domestiche che puliscono case e assistono persone. Se hanno figli e figlie non possono tenerli con sé, non hanno una casa propria e non hanno un reddito adeguato. Finché non vedrò queste donne in testa ai cortei dell’8 marzo continuerò a pensare che abbiamo ancora moltissimo da fare e se non le pensiamo non siamo credibili.
3.     Come donna vorrei muovermi per una cittadinanza non familista, non ereditaria, non proprietaria. Mi vergogno delle leggi razziste di questo paese e del disprezzo collettivo per chi nasce e cresce, del degrado classista dell’istruzione, della sanità discriminatoria, della miopia con cui i governi pensano la popolazione. Il capitalismo non è dato in natura, passerà, ma con stragi e dolore. Perché?
Da giovane contestavo le donne dell’emancipazione perché affermavo la liberazione. Oggi penso che le donne uscite dall’esperienza politica della Resistenza al nazifascismo, le donne antifasciste, hanno conquistato molti pezzi di cittadinanza sognando una repubblica democratica sociale e magari socialista, molte hanno saputo ascoltare se stesse e noi scoprendosi e dichiarandosi femministe.
La mia generazione, noi del femminismo, noi variamente femministe, abbiamo occupato qualche nicchia e al massimo raggiunto oneste carriere mentre l’emancipazione si deformava in parità imitativa e subalterna. Qualcuna ha dichiarato solennemente che il patriarcato era morto e forse si è sbagliata perché nell’esaltazione della vittoria molte cose si sono perdute. La metafora non è più utilizzabile e le strutture patriarcali appena cancellate dalle leggi (mai riformulate davvero per comprenderci) si riproducono con nuova materia solidificante (e molte donne arruolate in cambio di privilegi o asservite per necessità e inconsapevolezza).
Esiste comunque un dialogo femminista pacifista e globale tra donne, è la nostra forza, non lasciamo che si disperda.
4.     Negli anni ’90 se non pronunciavi le parole magiche: autorità, madre simbolica, disparità, genealogia, non eri considerata femminista. L’Udi era considerata un’associazione vecchia anche se in molte eravamo giovani.
Avendo rinunciato alle giaculatorie cattoliche da giovane non ero incline ad acquisirne di nuove ma ho continuato a confrontarmi con tutte le donne che incontravo (libri compresi) perché ho sempre pensato che il cammino di liberazione dai dispositivi del patriarcato consci e inconsci, sociali e istituzionali si fa insieme ed è una lunga strada o non è liberazione.
Lidia Menapace scriveva nel lontano 1991: (…) le forme della libertà non sono meno numerose che quelle del molteplice in cui siamo immerse: non esiste libertà femminile se non vi sono molte moltissime, forse tutte le donne libere. E siamo ancora lontane. Per questo risulta politicamente alienante un messaggio che può far credere che la pronuncia della libertà sia la libertà.
5.     Oggi mi dicono che se non mi dichiaro trasfemminista sono omofobica e transfobica. Continuo a pensare che sia il percorso di vita, le scelte che abbiamo fatto, i posizionamenti concreti nei luoghi in cui viviamo a dire chi siamo e la qualità umana dei nostri comportamenti. Sono le vicinanze reali, i percorsi e le parole a dire chi siamo. Il dichiarato o esibito non sempre coincidono con l’agito ed è l’agire ad esprimere davvero posizioni, convinzioni, ricerca.
Perché modificare la parola Femminismo quando le richieste sono di tipo liberale/liberista? Perché non Transliberismo? Comunque, definitevi come volete ma se mi giudicate arretrata significa che non lottate con me, vi esponete contro di me, per cancellarmi, svalutarmi, ridicolizzarmi come vecchia rimbambita. Ci hanno già provato, gli stessi che dichiarate di combattere. So che sarà duro e difficile resistere ma sono certa di non desistere.
6.     Non mi faccio ridurre a un asterisco dopo aver lottato per esistere come donna e cerco di esistere come la donna che sono, non un’immagine stereotipata, che sia disegnata dal mercato o perfino dal femminismo, di cui mi sento attivista ormai da sempre.
Il dichiarato non è sempre l’agito e non muta magicamente il vissuto. Non abbiamo un corpo, siamo corpo.
Vengo emarginata e lasciata indietro? Pazienza, ci sono abituata, mi è accaduto in molti luoghi, nelle relazioni femministe, da parte di femministe e perfino nell’UDI. Non insulto, non dichiaro guerre nemmeno simboliche, non sgomito per avere la testa del corteo. Vado avanti, guardo avanti senza finzioni, senza enfasi, senza cedimenti. Non tutti i giorni sono uguali ovviamente ma è la vita, ragazze.
Nella marginalità mi sono trovata spesso in ottima compagnia: è un territorio immenso rispetto alla centralità. Un territorio dove le cose accadono.
7.     Non so perché l’UDI abbia passato sui social una comunicazione, la lettera aperta di alcune donne, senza specificare: accogliamo e trasmettiamo che significa semplicemente: non censuriamo un’occasione di dibattito. Quando mi è stato chiesto personalmente, da una delle firmatarie, di diffonderla, mi sono arrabbiata per il metodo perché penso che il metodo sia perfino più importante del merito, cioè del contenuto. Per me conta la lealtà nelle relazioni tra donne e sono le scelte ad esprimere la credibilità.
Il movimento delle donne ha conquistato pezzi di cittadinanza con l’impegno e il coraggio di mettersi insieme prima di tutto a discutere e si discute cercando di convincere l’altra, non lanciando anatemi dall’una e dall’altra parte.
Il metodo usato dalle firmatarie non mi convince e non è il mio, ma la lettera è parte del dibattito. Le argomentazioni sono interessanti e alcune condivisibili ma la credibilità politica è altra cosa e si costruisce diversamente, secondo me.
8.     Le mie posizioni sono pubbliche, perciò non le ripeto qui (anche se sono disponibile a discuterle ovunque mi si chieda) perché non sono un soggetto assoggettabile a uno schieramento, operazione propria delle scelte di guerra che dichiarano un nemico e lo vogliono annientare. Si comincia con chiedere l’abiura delle parole e sappiamo come finisce.
Alla fine degli anni ’70 l’autoreferenzialità spesso distruttiva dei collettivi femministi, che si sarebbero sciolti in tempi brevi, mi ha fatto scegliere l’UDI e ci resto ancora, come semplice iscritta perché spero che continui ad essere un luogo in cui ho il piacere di discutere con chi non la pensa come me, che non è mia amica e magari non mi sta nemmeno simpatica. Inventare le pratiche di democrazia a partire dall’esperienza viva delle donne è la visione che ancora mi affascina e su cui lavoro. Una strada da scoprire, una strada da costruire. Ci sono donne più giovani che mi aiutano ad esserci quando i cedimenti dell’età mi chiuderebbero in casa. Insieme discutiamo, ci arrabbiamo, ridiamo. A loro va la mia gratitudine. Io le guardo e le vedo, loro mi guardano e mi vedono. Questo è il femminismo.
Come femminista sono stata in un partito e ne sono uscita, mi sono candidata per ruoli istituzionali, ho partecipato ai Pride come a seminari con associazioni, cercando alleanze contro cancellazioni, censure, discriminazioni per diritti e liberà che smontassero l’ordine familista e capitalista che oggi rilancia il patriarcato mimetizzandolo nella modernità stucchevole dell’esibizione.
Quest’anno le Responsabili nazionali dell’UDI mi hanno chiesto di scrivere il documento per l’8 marzo che coincide con l’ottantesimo dell’associazione, così come mi avevano chiesto di far parte del gruppo che ha preparato il calendario 2025.
Ho accettato e, a quanto mi risulta, è l’espressione ufficiale dell’UDI per l’8 marzo.
Perché nessuna lo prende in considerazione?
La mia non è una domanda ingenua, conosco abbastanza il mondo e le donne, ma non è nemmeno un’interrogazione retorica.
Mi suscita qualche diffidenza chi stabilisce cos’è l’8 marzo senza discuterlo anche con altre. Mi suscita diffidenza anche se si tratta di giovani, anche se sono tante, anche se riempiono le piazze.
Non dimentico che nel 1911 le giovani colte e brillanti, l’avanguardia del movimento femminista, si dichiararono favorevoli alla guerra di Libia, convinte che il pacifismo era una posizione da vecchie, che le vecchie erano rimaste indietro e loro erano il nuovo che avanzava. Il movimento femminista si spaccò e sappiamo com’è andata.
Perché nessuna ricorda mai che l’8 marzo è stato inventato dalle donne dell’UDI uscite da una guerra spaventosa lottando per la libertà di tutte e tutti?
Perché nessuna ricorda che a lungo la mimosa fu considerata un fiore sovversivo con le conseguenze persecutorie che la storia documenta?
Oggi l’8 marzo è una data che tutte le donne conoscono, intorno alla quale si posizionano in modi differenti cercando la propria strada. Nessuna donna dell’UDI ha mai voluto affermare la proprietà della data, del corteo, delle iniziative o di altro.
L’abbiamo affermata e diffusa per la liberazione di tutte.
Magari il riconoscimento sarebbe politicamente significativo ma un riconoscimento non si può chiedere, è il gesto che autonomamente una donna libera testimonia a un’altra donna, tante donne alle tante donne che sono venute prima, alle antenate che occupavano le piazze ancora precluse alle donne. Non erano tutte le donne, erano le donne che hanno lottato per tutte.
So che i toni sono diventati sempre più aspri da alcuni anni ma possiamo abbassarli. Si tratta di scelte. Che cosa vogliamo davvero? Anche nell’UDI che cosa vogliamo? Qualche volta ripassare la storia potrebbe servire, non per immortalarla ma per vedere di più, per vedere quello che non abbiamo visto, per non essere subalterne a un dibattito mentre potremmo definire un’agenda di priorità.
Per ora abbiamo perso tutte. Guardiamoci intorno.
Rosangela Pesenti

 

Lidia Menapace nel centenario della nascita: LA POLITICA COME SCIENZA DELLA VITA QUOTIDIANA

  • Testo integrale dell’intervento svolto a Padova il 7 novembre e a Napoli il 29 novembre 2024

Mi perdo. Ogni volta che qualcuno mi chiede di scrivere o parlare di Lidia mi perdo per intere giornate nelle sue carte, nelle mail che ci siamo scambiate, nei suoi libri. E faccio fatica a trovare il filo di parole che stia dentro la misura data. Mi sono resa conto che non posso ancora parlare di lei, sono troppo vicina, e non dico “sono stata” perché, come accade con le persone care, lei è ancora presente nella mia vita, non sono ancora riuscita a collocarla nella distanza necessaria per l’elaborazione, mi parla ancora.
Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, nel lontano 1987, ho sempre utilizzato i suoi testi, le sue proposte, le sue intuizioni teoriche per leggere il mondo e agire, non solo nei luoghi abitati per lavoro o per politica, ma nella mia stessa vita. Per questo mi atterrò ai suoi testi, scritti intorno al nucleo teorico che è stato il fuoco della sua politica. Fuoco nel senso di focolare intorno al quale si costituisce e riproduce la vita.
Non racconterò di lei o di noi ma voglio ricordare con le sue parole il pensiero di fondo su cui si è sviluppato il nostro rapporto umano e politico (umano perché politico), dentro quella sorta di dichiarazione di posizionamento nelle relazioni tra donne che enuncia nel 1991 a proposito di “ordine simbolico della madre”[1]. Un tema molto di moda in quegli anni in cui ci si interrogava molto sui caratteri delle relazioni tra donne, il cui esito politico sul momento fu una grande produzione di veti, steccati, rigidità, litigiosità, interdizioni, separazioni, probabilmente anche per una malintesa opzione di fedeltà che forse non era richiesta in quei termini.
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Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
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Le parole e i diritti: note a margine

Silenzio
Nei contesti comunicativi la parola è d’obbligo, non si esprimono le proprie argomentazioni con il silenzio.
Sono stata in silenzio dodici secondi prima di cominciare a parlare e dopo i primi sei ho ricevuto un sollecito, con il tono di affettuoso incoraggiamento.
Di fronte a me ho colto sui volti qualche espressione di stupore, chi mi ha invitata a questo convegno forse avrà avuto un attimo di imbarazzo.
Questo significa che noi siamo sempre immerse e immersi in un universo comunicativo in cui decodifichiamo velocemente messaggi attraverso il filtro della nostra storia, sociale famigliare linguistica.
Si dice che la comunicazione passi per il 75% dal non verbale, quindi molti messaggi entrano nel mio sistema recettivo prima che io ne prenda coscienza.
Il linguaggio non si genera nel vuoto ma dentro un’organizzazione del tempo, le strutture fisiche del luogo e una grammatica dei corpi, costituita da posture atteggiamenti espressioni abbigliamento, che eccede continuamente la grammatica della lingua definendola e ridefinendola a seconda dello spazio comunicativo che i corpi pensanti predispongono e vivono.
La prossemica e lo spazio architettonico in cui siamo prevedono che chi sta in cattedra esprima un discorso verbale e che questo discorso abbia determinate caratteristiche, che fluisca in forma argomentativa e documentata. Qualche citazione poetica potrebbe essere accolta solo a chiosa del discorso, un intero poema sarebbe un intervento straniante.
Il silenzio è imprevisto: turba, disturba, sorprende, imbarazza.
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Visioni del femminile: una postura politica Forlì 19 maggio 2022

Forlì, 19 maggio 2022

Non mi sono mai definita filosofa e certo ancora oggi definirsi tale è un azzardo, comunque governato dalle istituzioni accademiche, alle quali non appartengo.

Questo termine è stato messo accanto al mio nome per un disguido nella comunicazione, di cui non ho responsabilità.

La definizione di filosofa non è un falso, come testimonia il mio curriculum, pubblicato sul mio blog, ma io mi ci sento a disagio e già questo disagio è un sintomo, e quindi un indizio, del mio rapporto con la filosofia.

Gli indizi, come sappiamo, sono fondamentali per la storia, sono gli indizi a guidarci nei territori omessi o censurati dalle mappe. Quindi posso spogliarmi del disagio e agire la nudità simbolica, che è anche condizione di libertà, solo esponendo il problema, che per me è anche parte dell’insofferenza per le definizioni, soprattutto quando enfatizzano una posizione sociale in una società che non ha mai smesso di riprodurre gerarchie di valore, con pesanti ricadute sulle condizioni materiali.

Parafrasando Judith Butler, che si chiede “A chi spetta una buona vita?”[1], possiamo chiederci a chi spetti parlare di filosofia in un paese che considera ancora la disciplina come oggetto di studio riservato alle scuole eredi del classismo (e sessismo, e razzismo), escludendo che possa interessare chi frequenta istituti tecnici e professionali: un assurdo, anche tenendo conto dei criteri scolastici, come se potessimo sapere chi ha il “talento filosofico” a quattordici anni.

La definizione che preferisco per me stessa è ‘insegnante’, un lavoro che ho svolto onestamente e nel quale ho espresso il meglio dei miei talenti; professione svalutata, mortificata e asservita che resta però lo snodo per definire la qualità umana e il futuro di un paese democratico.

Pensando a qualcosa da raccontare oggi, immediatamente i pensieri si sono aggregati intorno a tre parole chiave: POSIZIONAMENTO POSTURA PAROLA. Leggi tutto “Visioni del femminile: una postura politica Forlì 19 maggio 2022”

25 novembre 2021: Connessioni

Quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituisce la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, possiamo considerata conclusa una lunghissima fase di lotte del movimento delle donne in tutto il mondo.
Noi che siamo state dentro le lotte, le abbiamo promosse e accompagnate, abbiamo agito in modo diffuso e invisibile chiedendo visibilità, misuriamo talvolta la pochezza dei risultati dal numero costante delle donne uccise, dalla violenza sommersa che ferisce troppe vite, dalla lentezza della giustizia, dall’arretratezza dei tribunali, dall’incompetenza dei servizi, dalla malafede dell’informazione, dalla superficialità di chi guarda senza vedere.
È giusto, perché noi sappiamo cosa c’è dietro la notizia di femminicidio e cosa c’è dopo, per chi resta, noi sappiamo quanto è lungo e faticoso il cammino per sottrarsi alla violenza, sappiamo quali e quanti stereotipi ci troviamo a smontare perché passi un’informazione seria, sappiamo quanto siano ancora poco ascoltate le competenze che vengono da una riflessione condivisa, da esperienze di ascolto che mutano il nostro sguardo ogni volta.
Eppure in questa giornata dovremmo ricordare anche ciò che abbiamo saputo conquistare senza dichiarare guerra, senza prendere le armi, senza invadere territori, senza lasciarci sopraffare dall’odio o dall’impotenza.
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Per fermare Apollo dobbiamo vedere Dafne. A proposito della Mostra dell’UDI

Vorrei dare due spunti, che sono l’esito di quello che è stato a lungo il mio lavoro annuale a scuola, spunti che non enunciavo come assiomi ovviamente, ma facevo ricavare ai ragazzi e alle ragazze con il lavoro sulle fonti. Ho sempre insegnato in classi miste e solo negli ultimi anni a classi prevalentemente femminili.
Ecco i due spunti: uno di storia e uno di letteratura.
La prima questione riguarda la storia e le strutture profonde sedimentate nell’immaginario, che diamo per scontate nell’insegnamento.
Raccontiamo la storia come se le donne fossero state irrilevanti, figurine che appaiono qua e là, se e quando la loro eccezionalità non mette in discussione l’impianto narrativo.
Se invece proviamo a guardare le cronologie politiche nella lunga durata, dal codice di Hammurabi fino alle costituzioni contemporanee, possiamo rilevare un dato evidente:
tutte le formazioni politiche di governo del territorio che conosciamo, o che comunque studiamo nella storia che viene insegnata in tutti gli ordini scolastici, comprese le forme degli Stati moderni, si sono strutturate sull’esclusione delle donne dal governo delle risorse e sulla considerazione delle donne come corpi a disposizione:
·      per il soddisfacimento sessuale dei maschi
·      per la cura e manutenzione dell’esistenza di luoghi e persone
·      per il possesso della riproduzione umana, figli e figlie e quindi anche di tutti i dispositivi e le istituzioni di riproduzione culturale dell’umano, al fine di favorire la conservazione delle differenze sociali, gerarchiche e reddituali.
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2021-2011-2001 GENOVA G8 DONNE


Un altro mondo è possibile e ricomincia ogni giorno dalle nostre vite. Non è importante una voce ma migliaia di voci e un ascolto diffuso, la tenacia di un passaparola che può sorprendere, che non può essere fermato.
Un clic può sfuggire al nostro controllo e infilarci nel mercato social-influencer ma, lo stesso clic, può farci scegliere la voce da ascoltare, il libro da leggere, la testimonianza da capire, l’insegnamento di cui abbiamo bisogno, la traccia quasi invisibile da seguire, la marginalità rilevante, il pertugio da cui passare, il cuneo che farà traballare ciò che sembrava incrollabile.
Le gabbie hanno chiavi che possono aprirle, i pensieri possono essere ripensati, i convincimenti cambiati, le ferite ricucite, il dolore ascoltato, il danno riparato.
Chi vince raramente muta convinzioni e ci sono danni irreparabili, ferite mortali, dolori che annientano.
In questi vent’anni abbiamo assistito impotenti alle morti in mare di donne e uomini, bambini e bambine, all’ingresso di minori con i piedi piagati che entrano dal confine orientale e si perdono nel colabrodo europeo. Donne e uomini che hanno incontrato la morte per lavoro o per aver buttato la vita sull’iniqua bilancia della speranza non ritornano a vivere.
Le vittime in mare sono immagini che scorrono nel sottofondo delle coscienze, come lo sfruttamento del lavoro. Non ne sono colpevole ma certamente responsabile come cittadina di questo paese.
Si è ricostituita una feroce scala sociale e la salvezza, qui dove vivo, è stare aggrappati al proprio gradino perché facilmente si può scendere e guardare la moltitudine che vive negli inferi dà la vertigine.
Le piccole storie rivelano, così come un minuscolo frattale riproduce il tutto.
Perché ricordare e che cosa ricordare? Per chi ricordare? Giovani nate e nati vent’anni fa cominciano a fare la loro parte per il futuro: da che parte stanno?
Non vedrò la loro vecchiaia, quanto renderanno muta la mia? Guardo la vita con lucida compassione.
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Il riscatto di Europa

Una donna stuprata e ferita non resta fissata nell’esistenza di vittima, può riscattare la sua vita presa in ostaggio dalla violenza e riparare le fratture, ricucire gli strappi, curare le ferite.
Può perfino crescere figlie e figli nati dalla violenza e farne donne e uomini che rinnegano e mutano la cultura del padre, le leggi scritte e non scritte del Patriarcato.
Una donna può uscire dalla violenza, rialzare la testa, lenire il dolore, la mortificazione, può chiedere e accettare aiuto, può sottrarsi allo stupratore, al maschio violento che vorrebbe fissarla allo squarcio del possesso e cominciare a scrivere un’altra storia.
Un percorso individuale che può essere solo collettivo, può cominciare dentro una minuscola collettività di donne e ampliarsi fino a includere l’immaginario collettivo, la consapevolezza di donne e uomini, reti parentali e amicali, comunità dialoganti più che identitarie.
Le donne e gli uomini abitanti l’Europa posso oltrepassare la fissità del mito di una giovane donna oltraggiata da un dio maschio: le donne non sono più solo giovani prede a cui imporre il processo riproduttivo della specie (e quindi della cultura vigente), gli uomini non sono dei e possono uscire dall’immaginario eroico e violento che li inchioda al corpo a corpo con la morte attraverso la guerra costante all’alterità e quindi anche a sé perché ogni essere della specie umana è insieme un io e molte alterità.
Una donna, Ursula Hirschmann, sposata a Eugenio Colorni, ha portato il Manifesto di Ventotene all’antifascismo ancora clandestino, come ha ricordato Altiero Spinelli.
Quella donna, il suo entusiasmo e coraggio, le sue convinzioni politiche, i suoi passi in un mondo che dalla clandestinità ha conquistato la libertà sono già la rappresentazione concreta del riscatto di Europa.
Il mito si è fatto storia che cammina con i nostri passi, di generazione in generazione, un nome diventato comune fatto di molti progetti di donne e uomini che sanno unire buona volontà e pensiero critico. Non è facile né scontato, si tratta di scegliere ogni giorno.
Una politica comune ispirata ai principi del Manifesto di Ventotene, aggiornata con il pensiero femminista, l’unica grande cultura politica che non ha mai avuto la guerra tra i suoi principi e non si fonda su dichiarazioni astratte ma, concretamente, sulla gestione nonviolenta dei conflitti, è la strada sui cui ci stiamo muovendo, tra mille difficoltà, incertezze, boicottaggi.
Siamo in molte e molti a sapere che non c’è altra strada se vogliamo pensare al futuro.
Persone e popolazioni vogliono una vita degna di essere vissuta.
 
Pensando all’Afghanistan, alle donne e uomini in fuga che cercano asilo in Europa e sono già parte del nostro futuro con le loro scelte, con le nostre scelte.
 

Stereotipi di genere e cultura: una lunga durata

Testo pubblicato in: Roberta De Pasquale (a cura di), Liberi da stereotipi. Educhiamo al rispetto, costruiamo parità, Bergamo University Press, Sestante Edizioni, Bergamo 2020

Quando, intorno alla metà del X secolo, Adalberone di Laon[1]fissa l’immagine di un ordine sociale diviso tra coloro che pregano, coloro che combattono e coloro che lavorano, semplificando la complessità del nascente mondo feudale nella teoria statica che mette ognuno al posto decretato da Dio, è evidente che le donne non ci sono.

Le donne sono le invisibili, in ognuno dei tre ordini, perché a loro è affidato il compito di riproduttrici, più vicine al mondo animale che a quello umano, di cui rappresentano l’imperfezione, per una convinzione che arriva dalla cultura greca, attraversa la storia romana e sopravvivrà intatta fino al Settecento.[2]

Adalberone registra e fissa un’assenza, traghettando nella nascente società europea, che si sta formando intorno a nuove e diverse centralità politiche, una diversa cultura religiosa, nuove lingue locali, un’idea dell’esistenza femminile come accessoria che arriva fino a noi.

L’invisibilità è il primo fondamento culturale degli stereotipi di genere e sessisti, perché l’invisibilità è la pagina bianca su cui si può scrivere senza tener conto della realtà.

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