Non c’è più tempo, attiviamoci!
Tra 8 marzo e dintorni
Tra polemiche e anatemi cerco uno spazio non armato.
Sono una femminista iscritta all’UDI.
Non so se sono rimasta indietro, essendo vecchia so che avanti e indietro, alto e basso, sono metafore gerarchizzanti e inadeguate a dire la vita umana tra nascita e morte, quanto alle idee ho imparato da Maria Michetti dell’UDI che in politica non conta l’età ma ciò che pensi.
Cercherò di elencare ciò che penso in forma schematica.
1. Mi auguro che dal 9 marzo voltiamo pagina e ci dedichiamo al modo di costringere il nostro paese alla smilitarizzazione. Prima di tutto meno armi. Mi auguro che le fabbriche di armi entrino in crisi, che i lavoratori e le lavoratrici di queste fabbriche boicottino la produzione e che il paese intero li aiuti a transitare verso altri lavori e i proprietari a dismettere la produzione. L’unico modo è che il governo non le acquisti e il parlamento voti un taglio consistente al finanziamento militare.
2. In Italia vivono circa due milioni di lavoratrici domestiche che puliscono case e assistono persone. Se hanno figli e figlie non possono tenerli con sé, non hanno una casa propria e non hanno un reddito adeguato. Finché non vedrò queste donne in testa ai cortei dell’8 marzo continuerò a pensare che abbiamo ancora moltissimo da fare e se non le pensiamo non siamo credibili.
3. Come donna vorrei muovermi per una cittadinanza non familista, non ereditaria, non proprietaria. Mi vergogno delle leggi razziste di questo paese e del disprezzo collettivo per chi nasce e cresce, del degrado classista dell’istruzione, della sanità discriminatoria, della miopia con cui i governi pensano la popolazione. Il capitalismo non è dato in natura, passerà, ma con stragi e dolore. Perché?
Da giovane contestavo le donne dell’emancipazione perché affermavo la liberazione. Oggi penso che le donne uscite dall’esperienza politica della Resistenza al nazifascismo, le donne antifasciste, hanno conquistato molti pezzi di cittadinanza sognando una repubblica democratica sociale e magari socialista, molte hanno saputo ascoltare se stesse e noi scoprendosi e dichiarandosi femministe.
La mia generazione, noi del femminismo, noi variamente femministe, abbiamo occupato qualche nicchia e al massimo raggiunto oneste carriere mentre l’emancipazione si deformava in parità imitativa e subalterna. Qualcuna ha dichiarato solennemente che il patriarcato era morto e forse si è sbagliata perché nell’esaltazione della vittoria molte cose si sono perdute. La metafora non è più utilizzabile e le strutture patriarcali appena cancellate dalle leggi (mai riformulate davvero per comprenderci) si riproducono con nuova materia solidificante (e molte donne arruolate in cambio di privilegi o asservite per necessità e inconsapevolezza).
Esiste comunque un dialogo femminista pacifista e globale tra donne, è la nostra forza, non lasciamo che si disperda.
4. Negli anni ’90 se non pronunciavi le parole magiche: autorità, madre simbolica, disparità, genealogia, non eri considerata femminista. L’Udi era considerata un’associazione vecchia anche se in molte eravamo giovani.
Avendo rinunciato alle giaculatorie cattoliche da giovane non ero incline ad acquisirne di nuove ma ho continuato a confrontarmi con tutte le donne che incontravo (libri compresi) perché ho sempre pensato che il cammino di liberazione dai dispositivi del patriarcato consci e inconsci, sociali e istituzionali si fa insieme ed è una lunga strada o non è liberazione.
Lidia Menapace scriveva nel lontano 1991: (…) le forme della libertà non sono meno numerose che quelle del molteplice in cui siamo immerse: non esiste libertà femminile se non vi sono molte moltissime, forse tutte le donne libere. E siamo ancora lontane. Per questo risulta politicamente alienante un messaggio che può far credere che la pronuncia della libertà sia la libertà.
5. Oggi mi dicono che se non mi dichiaro trasfemminista sono omofobica e transfobica. Continuo a pensare che sia il percorso di vita, le scelte che abbiamo fatto, i posizionamenti concreti nei luoghi in cui viviamo a dire chi siamo e la qualità umana dei nostri comportamenti. Sono le vicinanze reali, i percorsi e le parole a dire chi siamo. Il dichiarato o esibito non sempre coincidono con l’agito ed è l’agire ad esprimere davvero posizioni, convinzioni, ricerca.
Perché modificare la parola Femminismo quando le richieste sono di tipo liberale/liberista? Perché non Transliberismo? Comunque, definitevi come volete ma se mi giudicate arretrata significa che non lottate con me, vi esponete contro di me, per cancellarmi, svalutarmi, ridicolizzarmi come vecchia rimbambita. Ci hanno già provato, gli stessi che dichiarate di combattere. So che sarà duro e difficile resistere ma sono certa di non desistere.
6. Non mi faccio ridurre a un asterisco dopo aver lottato per esistere come donna e cerco di esistere come la donna che sono, non un’immagine stereotipata, che sia disegnata dal mercato o perfino dal femminismo, di cui mi sento attivista ormai da sempre.
Il dichiarato non è sempre l’agito e non muta magicamente il vissuto. Non abbiamo un corpo, siamo corpo.
Vengo emarginata e lasciata indietro? Pazienza, ci sono abituata, mi è accaduto in molti luoghi, nelle relazioni femministe, da parte di femministe e perfino nell’UDI. Non insulto, non dichiaro guerre nemmeno simboliche, non sgomito per avere la testa del corteo. Vado avanti, guardo avanti senza finzioni, senza enfasi, senza cedimenti. Non tutti i giorni sono uguali ovviamente ma è la vita, ragazze.
Nella marginalità mi sono trovata spesso in ottima compagnia: è un territorio immenso rispetto alla centralità. Un territorio dove le cose accadono.
7. Non so perché l’UDI abbia passato sui social una comunicazione, la lettera aperta di alcune donne, senza specificare: accogliamo e trasmettiamo che significa semplicemente: non censuriamo un’occasione di dibattito. Quando mi è stato chiesto personalmente, da una delle firmatarie, di diffonderla, mi sono arrabbiata per il metodo perché penso che il metodo sia perfino più importante del merito, cioè del contenuto. Per me conta la lealtà nelle relazioni tra donne e sono le scelte ad esprimere la credibilità.
Il movimento delle donne ha conquistato pezzi di cittadinanza con l’impegno e il coraggio di mettersi insieme prima di tutto a discutere e si discute cercando di convincere l’altra, non lanciando anatemi dall’una e dall’altra parte.
Il metodo usato dalle firmatarie non mi convince e non è il mio, ma la lettera è parte del dibattito. Le argomentazioni sono interessanti e alcune condivisibili ma la credibilità politica è altra cosa e si costruisce diversamente, secondo me.
8. Le mie posizioni sono pubbliche, perciò non le ripeto qui (anche se sono disponibile a discuterle ovunque mi si chieda) perché non sono un soggetto assoggettabile a uno schieramento, operazione propria delle scelte di guerra che dichiarano un nemico e lo vogliono annientare. Si comincia con chiedere l’abiura delle parole e sappiamo come finisce.
Alla fine degli anni ’70 l’autoreferenzialità spesso distruttiva dei collettivi femministi, che si sarebbero sciolti in tempi brevi, mi ha fatto scegliere l’UDI e ci resto ancora, come semplice iscritta perché spero che continui ad essere un luogo in cui ho il piacere di discutere con chi non la pensa come me, che non è mia amica e magari non mi sta nemmeno simpatica. Inventare le pratiche di democrazia a partire dall’esperienza viva delle donne è la visione che ancora mi affascina e su cui lavoro. Una strada da scoprire, una strada da costruire. Ci sono donne più giovani che mi aiutano ad esserci quando i cedimenti dell’età mi chiuderebbero in casa. Insieme discutiamo, ci arrabbiamo, ridiamo. A loro va la mia gratitudine. Io le guardo e le vedo, loro mi guardano e mi vedono. Questo è il femminismo.
Come femminista sono stata in un partito e ne sono uscita, mi sono candidata per ruoli istituzionali, ho partecipato ai Pride come a seminari con associazioni, cercando alleanze contro cancellazioni, censure, discriminazioni per diritti e liberà che smontassero l’ordine familista e capitalista che oggi rilancia il patriarcato mimetizzandolo nella modernità stucchevole dell’esibizione.
Quest’anno le Responsabili nazionali dell’UDI mi hanno chiesto di scrivere il documento per l’8 marzo che coincide con l’ottantesimo dell’associazione, così come mi avevano chiesto di far parte del gruppo che ha preparato il calendario 2025.
Ho accettato e, a quanto mi risulta, è l’espressione ufficiale dell’UDI per l’8 marzo.
Perché nessuna lo prende in considerazione?
La mia non è una domanda ingenua, conosco abbastanza il mondo e le donne, ma non è nemmeno un’interrogazione retorica.
Mi suscita qualche diffidenza chi stabilisce cos’è l’8 marzo senza discuterlo anche con altre. Mi suscita diffidenza anche se si tratta di giovani, anche se sono tante, anche se riempiono le piazze.
Non dimentico che nel 1911 le giovani colte e brillanti, l’avanguardia del movimento femminista, si dichiararono favorevoli alla guerra di Libia, convinte che il pacifismo era una posizione da vecchie, che le vecchie erano rimaste indietro e loro erano il nuovo che avanzava. Il movimento femminista si spaccò e sappiamo com’è andata.
Perché nessuna ricorda mai che l’8 marzo è stato inventato dalle donne dell’UDI uscite da una guerra spaventosa lottando per la libertà di tutte e tutti?
Perché nessuna ricorda che a lungo la mimosa fu considerata un fiore sovversivo con le conseguenze persecutorie che la storia documenta?
Oggi l’8 marzo è una data che tutte le donne conoscono, intorno alla quale si posizionano in modi differenti cercando la propria strada. Nessuna donna dell’UDI ha mai voluto affermare la proprietà della data, del corteo, delle iniziative o di altro.
L’abbiamo affermata e diffusa per la liberazione di tutte.
Magari il riconoscimento sarebbe politicamente significativo ma un riconoscimento non si può chiedere, è il gesto che autonomamente una donna libera testimonia a un’altra donna, tante donne alle tante donne che sono venute prima, alle antenate che occupavano le piazze ancora precluse alle donne. Non erano tutte le donne, erano le donne che hanno lottato per tutte.
So che i toni sono diventati sempre più aspri da alcuni anni ma possiamo abbassarli. Si tratta di scelte. Che cosa vogliamo davvero? Anche nell’UDI che cosa vogliamo? Qualche volta ripassare la storia potrebbe servire, non per immortalarla ma per vedere di più, per vedere quello che non abbiamo visto, per non essere subalterne a un dibattito mentre potremmo definire un’agenda di priorità.
Per ora abbiamo perso tutte. Guardiamoci intorno.
Rosangela Pesenti
Un inestinguibile credito di pace
APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024
GESTIRE I CONFLITTI
Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
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2002-2022 Donne, pace, democrazia
Difficile parlare di pace dentro l’urgenza del fare che ognuna di noi sente come impellente necessità di fermare guerre e massacri, unita al sentimento di impotenza per i pochi gesti che abbiamo davvero a disposizione e che ci riconducono di colpo ad una realtà di mancanza di potere sul terreno delle decisioni politiche che avevamo in questi anni accantonato.
Parlo al plurale perché sento ancora il sentimento di condivisione di una soggettività politica collettiva che è stata la scoperta, l’avventura e la costruzione della mia giovinezza, ma che oggi avverto quasi solo come una memoria incisa sulla mia pelle che non posso cancellare, ma che non so più di poter agire.
Non mi sottraggo alle parole brevi e incisive degli slogan e degli appelli, ma sento la responsabilità di restituire alle parole tempi e luoghi adeguati perché avverto che proprio nell’illusione di dover abbreviare i discorsi per raggiungere più in fretta le nostre mete è nascosta una trappola che invalida poi ogni nostra azione.
Parlo di tempi e luoghi perché sono le dimensioni imprescindibili del vivere umano e la loro qualità, definizione, costruzione concreta, consente e condiziona ogni relazione sociale.
Nel loro modo di abitare il tempo e lo spazio gli esseri umani introducono la memoria come capacità di accumulare le esperienze, riducendo il passato a sintesi utili per il futuro.
Proprio la disciplina storica, soprattutto nella sua versione “divulgativa” e scolastica ci insegna che pace e guerra sono temi fondamentali sui quali sperimentiamo la nostra capacità di “fare sintesi” e non possiamo non chiederci quanto utili per il futuro.
Perché questa premessa per parlare di ‘pace, donne, democrazia’ e che cosa lega davvero questi tre termini?
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Pace: partire da sé per camminare in tutto il mondo
ALLE DONNE CHE VIVONO NEL TERRITORIO DI BERGAMO
Alle donne delle istituzioni e delle associazioni, alle donne di partito e senza partito, di fede e senza fedi, alle donne che hanno il cuore multicolore e i piedi per terra, alle donne che hanno pensieri e storie diverse.
Alle donne tutte che si riconoscono nelle parole di pace e sanno praticare la pace.
Il territorio di Bergamo è diventato drammaticamente famoso nei due anni di pandemia e noi donne sappiamo come abbiamo fatto fronte all’emergenza perché di colpo tutti i lavori della CURA sono diventati centrali, indispensabili come sempre ma di colpo visibili per la sopravvivenza.
Bergamo è la provincia del volontariato, che sappiamo a maggioranza femminile e le pratiche di accoglienza dei profughi sono già al lavoro.
Dalle donne di Bergamo può partire una voce credibile per tutte, potente come la forza delle nostre vite.
Non escludiamo gli uomini ma non possiamo affidarci a loro: il disastro delle loro politiche è palese.
Non abbiamo fedeltà da difendere, di nessun tipo, solo proposte da fare, una pace da affermare.
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Intervento al Congresso ANPI Bergamo
Sabato 19 febbraio 2022 ho partecipato al Congresso provinciale dell’ANPI di Bergamo come delegata della sezione di Romano di Lombardia.
Rendo pubblico l’intervento integrale che avevo scritto e che ho, giustamente, ridotto per stare nei minuti prescritti.
In questo momento non mi sembra passata una settimana ma un secolo.
Avverto l’inutilità e insieme la necessità non solo delle parole ma soprattutto di lottare contro il senso d’impotenza mantenendo aperti e curando tutti gli spazi democratici.
Nel Congresso mi sono sentita in sintonia con la relazione letta dal presidente Mauro Magistrati, che è stato confermato nel suo ruolo, e con le conclusioni del Presidente nazionale.
Il mio intervento, pur tagliato, è stato accolto positivamente e sono stati votati all’unanimità gli emendamenti che ho presentato (allegati in fondo).
Il presente ci chiede di allenare la creatività politica, la stessa degli uomini e delle donne di cui conserviamo memoria, per trovare le azioni impreviste ed efficaci capaci di generare la pace.
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2021-2011-2001 GENOVA G8 DONNE
Un altro mondo è possibile e ricomincia ogni giorno dalle nostre vite. Non è importante una voce ma migliaia di voci e un ascolto diffuso, la tenacia di un passaparola che può sorprendere, che non può essere fermato.
Un clic può sfuggire al nostro controllo e infilarci nel mercato social-influencer ma, lo stesso clic, può farci scegliere la voce da ascoltare, il libro da leggere, la testimonianza da capire, l’insegnamento di cui abbiamo bisogno, la traccia quasi invisibile da seguire, la marginalità rilevante, il pertugio da cui passare, il cuneo che farà traballare ciò che sembrava incrollabile.
Le gabbie hanno chiavi che possono aprirle, i pensieri possono essere ripensati, i convincimenti cambiati, le ferite ricucite, il dolore ascoltato, il danno riparato.
Chi vince raramente muta convinzioni e ci sono danni irreparabili, ferite mortali, dolori che annientano.
In questi vent’anni abbiamo assistito impotenti alle morti in mare di donne e uomini, bambini e bambine, all’ingresso di minori con i piedi piagati che entrano dal confine orientale e si perdono nel colabrodo europeo. Donne e uomini che hanno incontrato la morte per lavoro o per aver buttato la vita sull’iniqua bilancia della speranza non ritornano a vivere.
Le vittime in mare sono immagini che scorrono nel sottofondo delle coscienze, come lo sfruttamento del lavoro. Non ne sono colpevole ma certamente responsabile come cittadina di questo paese.
Si è ricostituita una feroce scala sociale e la salvezza, qui dove vivo, è stare aggrappati al proprio gradino perché facilmente si può scendere e guardare la moltitudine che vive negli inferi dà la vertigine.
Le piccole storie rivelano, così come un minuscolo frattale riproduce il tutto.
Perché ricordare e che cosa ricordare? Per chi ricordare? Giovani nate e nati vent’anni fa cominciano a fare la loro parte per il futuro: da che parte stanno?
Non vedrò la loro vecchiaia, quanto renderanno muta la mia? Guardo la vita con lucida compassione.
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2001-20021: Genova dopo vent’anni
Da vent’anni il mese di luglio mi riporta la memoria di Genova. Un appuntamento con me stessa prima di tutto, la scrittura nell’intimità di parole non esposte.
Ripropongo intanto la trascrizione dal mio diario del 2001:
Domenica 22 luglio
Il giorno dopo. Una stanchezza cupa che intride le ossa e i pensieri, al telefono i concitati resoconti di chi era da un’altra parte e ha vissuto lo stesso panico, i compunti e ipocriti commenti televisivi, un residuo di bruciore agli occhi e difficoltà di respiro, traccia e sogno di una giornata frammentata in attimi lunghissimi ed ore brevi, avvertiamo l’inesorabile sfasatura dell’alfabeto con cui si misurano le parole come se il respiro non riconoscesse il passo consueto.
Partenza presto, la sveglia puntata alle cinque viene preceduta dal rumore in cucina: Giordano sistema i panini nello zaino impaziente di incontrare gli amici come se si trattasse di un appuntamento solenne e collettivo con la storia.
Sorrido con indulgenza mentre mi vesto senza fretta, respingo i pensieri che girano intorno alla tragedia del giorno prima, mi preparo per la manifestazione come per una gita estiva, saremo in tanti, penso, e non può succedere nulla, sarebbe un’enormità. Riempio il tempo laccando le unghie dei piedi e metto le ciabatte estive invece delle scarpe che avevo preparato, rinuncio anche alla camicia per una canottiera che il sole mi lascerà incisa addosso come il segno bruciante della giornata. Leggi tutto “2001-20021: Genova dopo vent’anni”
Va in scena la guerra: miti, riti, uniformi e resistenze di donne dietro al fronte (1915-1918)
Rosangela Pesenti
Abstract
La guerra unifica in un corpo maschile compatto ciò che il tempo di pace divide e le donne vengono assoggettate ai ruoli di servizio, diventando le tessitrici di un immenso apparato di riparazione dei corpi e dei territori feriti.
Viene rilanciato il mito della complementarietà dei generi e sarà l’immagine della crocerossina a completare il grigioverde del soldato, soprattutto quando l’enorme quantità di feriti richiederà, oltre al potenziamento delle strutture ospedaliere, la produzione di immagini rassicuranti finalizzate al contenimento emotivo di ogni dubbio sul valore della meta finale.
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Con Lidia. Un libro da leggere o rileggere
Presentazione al Senato di “Lettere dal palazzo. Reportage semiserio di un anno da senatrice” di Lidia Menapace, Marea, n.3, settembre 2007
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