Disarmo, la comune convenienza

Come troppo spesso ci è accaduto guardiamo dai margini, dalla periferia, dall’invisibilità, una piazza che si riempie litigando (begando sarebbe più appropriato) intono alla chiamata confusa di un patriarca gentile (come l’avrebbe definito Lidia Menapace) a cui si accrocchiano altri illustri della confusa e sfrangiata sinistra.

Non ci saremo e non perché non si sentiamo europee ma perché pensiamo ancora che la convocazione di una piazza possa arrivare solo dopo la discussione e l’elaborazione di una piattaforma chiara, di un patto tra soggetti che si mettono insieme per agire, dove la piazza è solo la prima manifestazione, appunto, di un piano d’azione.

Non ci saremo perché ci sentiamo cittadine del mondo e l’appartenenza a una lingua una cultura un territorio è percorso di vita non identità corazzata.

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Ora che troppi bambini e bambine di Gaza sono stati uccisi

BALLATA SENZA MUSICA PER IL BAMBINO DI GAZA (2014)
 
So che ricordi i bambini di Gaza
nei letti bianchi dell’ospedale
in attesa di morire
Era un pomeriggio d’agosto del 2014
ma non conta l’anno
contano i bambini
che sono bambini in tutto il mondo
bambini e bambine per la verità
– e sappiamo che per le bambine va anche peggio –
ma quello che ricordo è un bambino
e sono certa che anche tu ricordi
quel bambino
e i bambini e le bambine di Gaza
nell’ospedale di Gerusalemme
un pomeriggio d’agosto
in attesa di guarire
in attesa di morire
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Materiali di approfondimento per Parole disarmanti. Scrittrici contro la guerra. 26 settembre 2024

Se Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace del 1905, ha potuto essere rimossa dalla memoria, non meraviglia che una sorte analoga sia toccata ad altre donne che prima o contemporaneamente a lei contribuirono alla nascita e alla diffusione del movimento pacifista.
Mirella Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale, BFS Ed., 2008

Ciò che sarebbe più terribile per il futuro del socialismo sarebbe vedere i partiti operai dei diversi paesi decisi adottare la teoria e la pratica borghesi secondo le quali sarebbe del tutto normale ed inevitabile che i proletari delle differenti nazioni si scannino a vicenda durante la guerra, per ordine delle loro classi dominanti, per poi dopo la guerra di nuovo scambiarsi, come se niente fosse, abbracci fraterni. (…)
Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di “patria”, di “civiltà”, “libertà”, “diritto dei popoli” e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli, rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo.
Rosa Luxemburg, Alla Redazione del Labour Leader a Londra, Berlino dicembre 1914, in Lettere contro la guerra, Prospettive Edizioni, Roma, 2004

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Meloni: familista, non femminista

Meloni ha reso femminile la politica? Mi sembra un’affermazione esagerata e fuorviante.

Meloni non mi sembra femminista, è familista.

Per la figlia non vuole diritti ma privilegi, visto che progetta di farla crescere in un mondo in cui le differenze sociali si strutturano per nascita e si perpetuano per genealogie ereditarie (anche non di sangue se torna utile).

Le politiche razziste nei confronti di donne e uomini migranti, bambine e bambini italiani ridotti ad essere “stranieri in patria”, unite all’orientamento sessista nei confronti dei diritti delle donne (impedimenti all’aborto, pro-life nei consultori e ospedali, bonus ridicoli, tagli vari ai servizi e la lista sarebbe lunghissima) hanno avuto un’accelerazione.

Accelerazione del peggio contro un lungo percorso costellato di lotte perché nessun governo, dall’unità d’Italia ad oggi, ha “spontaneamente” operato a favore delle donne così come nessun parlamento ha varato leggi per la piena cittadinanza femminile senza la fatica di un impegno politico costante e diffuso da parte delle nostre associazioni e del più generale movimento i cui eventi fondanti e determinanti ancora non si studiano a scuola.

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Un inestinguibile credito di pace

APPUNTI PER IL PRESENTE maggio 2022-giugno 2024

GESTIRE I CONFLITTI

Il conflitto è un’esperienza comune: esiste nel  mondo delle relazioni affettive, quelle a cui pensiamo di poterci appoggiare con fiducia in qualsiasi momento e dentro cui vogliamo costruire le forme della nostra personale riproduzione esistenziale; esiste nel mondo delle relazioni famigliari dentro cui abbiamo mosso i primi passi in un territorio e che ci definiscono nelle connessioni sociali a partire dal cognome che portiamo, in Italia ancora da secoli quello del padre, ultimo segno di quella patria potestà che inscriveva il dominio nella prima e più intima relazione, quella che emerge dall’evento della separazione e incontro con il corpo materno.
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Patriarcato

 La parola Patriarcato è diventata di colpo d’attualità. Pronunciata da Elena Cecchettin ha trasformato il dolore per l’uccisione della sorella Giulia in un potente richiamo alla consapevolezza collettiva.
Non è stato e purtroppo non sarà l’ultimo femminicidio, eppure quello della giovane Giulia ha certamente segnato uno spostamento comunicativo, il cui esito futuro non possiamo ancora registrare ma che nel presente ha smosso di nuovo l’attenzione generando, almeno, una reazione diffusa e visibile.
A Bergamo un’associazione centenaria che si occupa delle tradizioni e del dialetto locale, mettendo in scena ogni anno “il rogo della vecchia”, quest’anno ha deciso di bruciare anche il patriarcato insieme alla vecchia, che in realtà è la tarda personificazione femminile del rito antico di bruciare la vecchia stagione (con tutti gli arbusti secchi dell’inverno) preparando i campi ai germogli della primavera, stagione della rinascita.
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Lidia Menapace, nata oggi 100 anni fa

Sono convinta che una nuova strumentazione politica teorica possa muovere non da cattedre, bensì da tavole, non da scranni, bensì da incontri conviviali (il convito, il convivio, il simposio sono nella storia dell’umana civiltà immagini della costruzione e diffusione della cultura). Inoltre bisogna rendersi conto che un mondo alfabetizzato e condotto in molte sue aree a una scolarizzazione generale prolungata, propone altre forme per acquisire e trasmettere la conoscenza, almeno molto più democratiche e che collocano la ricerca dei livelli di eccellenza su una base molto ampia di fruizione: bambine, ragazze, donne sono passate al top nella scuola, nel successo scolastico a motivo dell’allargamento massimo degli accessi, non da un astratto ed escludente “merito”. Per continuare con i simboli del convito, era necessario che non rimanessero ai margini a servire a tavola, bensì che accedessero al self-service in condizioni di parità. E l’integrazione delle donne nella cultura politica sociale e civile non vogliamo che sia una mera annessione e assimilazione: deve trovare forme di espressione molteplice, che assumano anche il simbolico della vita delle donne. Eppure si sente parlare di cantieri di idee, mai di tavole o cucine o sartorie.”[1]
Per ricordare la nascita, il 3 aprile 1924, cento anni fa, trascrivo una tra le tante acute e lungimiranti riflessioni politiche di Lidia Menapace, partigiana sempre perché “sono ex prof, ex tante altre cose ma non ex partigiana: perché essere partigiane e partigiani è una scelta di vita”[2], femminista nelle scelte di vita prima ancora che questo termine tornasse in circolazione negli anni ’70, pacifista nonviolenta, difensora della laicità, comunista non allineata e coerente, nelle riflessioni teoriche come nelle opzioni politiche, basti ricordare che dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 scrisse un articolo dal titolo: Il nuovo nome del comunismo è disarmo.
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Lucy e le cugine

Forse il prossimo passo evolutivo della specie sarà la riduzione della comunicazione verbale, sia scritta che parlata a favore delle immagini che probabilmente il cervello proietterà direttamente con una capacità di controllo dei contenuti oggi inimmaginabile.
Quello che sto facendo perciò potrebbe essere un insieme di gesti in via d’estinzione. Già si sta estinguendo la scrittura manuale, che esprimeva le singole personalità nel divenire storico delle vite.
Intanto non posso fare a meno di scrivere perché un surplus di pensieri mi costringe a trovare un ordine e una lentezza che mi depositi nel tempo giornaliero depurata dalle urgenze.
Scrivo a computer perché voglio essere letta? Partecipo anch’io quindi alla gara per l’esistenza simbolica, per incidere con le mie parole sulla riproduzione culturale della specie? Questa gara l’ho già persa anni fa, come se avessi pensato di presentarmi alla maratona senza scarpe adatte, sbagliando ingresso per il cartellino, dimenticando di iscrivermi, perfino sbagliando percorso fino a ritrovarmi sola in un punto anonimo di una città sconosciuta.
Ma in quella città metaforica posso girare senza meta, senza obiettivi, senza prescrizioni, sapendo che non sono sola.
Mi tiene compagnia il sentimento di tenerezza per Lucy, australopiteca, di cui il correttore automatico (sessista ignorante) non riconosce il femminile, incontrata nell’ologramma tridimensionale proiettato in una mostra a tema preistoria a Venezia. Che anno era? Gita scolastica con una classe di prima superiore, quindi 1985? Al massimo 1987, poi sono passata al triennio e la preistoria non era in programma.
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Le donne della Resistenza, la resistenza delle donne

LE DONNE DELLA RESISTENZA, LA RESISTENZA DELLE DONNE
In Studi e ricerche di storia contemporanea n. 100

LE DONNE DELLA RESISTENZA, LA RESISTENZA DELLE DONNE

  1. Testi e contesti per capire l’8 settembre

Ogni settimana ascolto una trasmissione di Rai Radio 3 che trovo interessante. Ogni volta però mi sembra pazzesco che si intitoli ancora Uomini e profeti.

Vengono invitate a parlare anche donne, ovviamente, e i conduttori cercano di dire “uomini e donne”, ma il titolo di una trasmissione, in cui si esprimono prevalentemente persone colte e non violente, resta lì a segnalare una violenza simbolica che non viene percepita come tale e resta a segnare la persistenza del potere maschile e patriarcale sulla lingua, la storia e, di conseguenza, sull’immaginario. Immaginario degli uomini e anche delle donne, che seguono gli stessi percorsi di studi, approfondiscono gli stessi autori e qualche rara autrice, pensano e si pensano attraverso la stessa sintassi, le stesse metafore, le medesime storie, collocandosi poi necessariamente e perfino involontariamente in un posizionamento sociale più determinato di quanto magari vorrebbero.

Le profete, termine che il correttore automatico mi segnala come errore, sono molte e spesso citate nella trasmissione ma restano invisibili nell’impianto che rafforza il maschile in ben due sostantivi: “uomini” cancella la presenza delle donne, che pure ci sono nella trasmissione (anche se non quanto i maschi) e “profeti”, che rende invisibili o eccezionali (ed occasionali) le profete, appunto. Evito la parola “profetesse”, che non è mai entrata nell’uso, com’è accaduto invece a professoresse diventate familiarmente prof., perché il suffisso conserva il sapore dispregiativo di un allungamento pesante, di un’aggiunta tollerata.

Suggerisco: Donne Uomini e profezie, titolo che toglierebbe ai profeti la monumentalità, rifuggita del resto da molti, e restituirebbe visibilità a un modo di profetare, quello femminile appunto, che ha segnato la storia e le vite e di cui è stata a lungo interdetta la memoria.

Cosa c’entra con le donne della Resistenza? Il meccanismo (o dispositivo direbbe Bourdieu[1]) è lo stesso: le donne esistono, ma vengono rese invisibili come genere (cioè stabilmente più della metà della popolazione del territorio) e cancellate quando esprimono una dimensione collettiva che al massimo viene registrata come imprevista. L’organizzazione politica poi viene di solito ignorata, sottovalutata o annotata in forma ancillare, come nel caso dell’Udi e, proprio nella Resistenza, dei Gdd.[2]

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