Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo[1]

Ricordo i versi di Montale perché a me hanno regalato, quando ero molto giovane, la forma in cui esprimere il mio essere alla ricerca di una strada, dichiarando però chiaramente quale non volevo percorrere.

Non sempre la negazione è negativa (e scusate il gioco di parole), nei versi di Montale testimonia l’umanità del dubbio, il coraggio della sottrazione, in tempi in cui vigeva il conformismo della dichiarazione altisonante di sé.

Qualche volta voltare le spalle e andarsene senza dichiarazioni arroganti, ma nemmeno incertezze furtive, è un buon modo per aprire nuove strade e lasciare ad altre/i la possibilità di misurarsi, nel vuoto, con le proprie azioni.

Nonviolenza: gesti, pensieri, azioni, esperienze, storie, vissuti, pratiche, atteggiamenti, le nostre intere vite in ricerca possono essere espresse con la discriminante sintetica di una negazione che ne dichiara in modo inequivocabile la collocazione.

Oggi ne sappiamo di più sulla violenza, grazie soprattutto alla denuncia delle donne di quella che subiscono dagli uomini: fisica, psicologica, economica, sessuale, persecutoria (stalking), discriminatoria (mobbing).

Ho proposto ai Comuni della mia zona la bacheca rosa promossa dal Cartello Antiviolenza delle donne napoletane perché mettendo in elenco queste forme di violenza e descrivendole in modo sintetico ma chiaro, può aiutare a riconoscerle.

Riconoscere la propria condizione è il primo passo per poterla cambiare.

Penso che lo stesso lavoro di descrizione e diffusione della conoscenza andrebbe fatto per le pratiche nonviolente: ci servirebbe a riconoscerle, nominarle e quindi trasmetterle e diffonderle.

Ciò che non ha nome, come sappiamo, cade nell’insignificanza e ne viene cancellata la storia.

E’ accaduto a quel vasto operato di moltissime donne italiane che sfidando l’esercito tedesco occupante hanno accolto in casa soldati sconosciuti in fuga, li hanno sfamati, rivestiti e spesso accompagnati fino a una destinazione sicura.

Anna Bravo l’ha definita la più grande operazione di salvataggio della storia italiana[2], ma di quelle donne non abbiamo i nomi perché gli stessi testimoni, i salvati, li hanno dimenticati o non si sono curati di conoscerli.

Un’operazione che ha cambiato la storia diventando il terreno solido di crescita di una resistenza civile sempre più consapevole senza la quale la resistenza armata non avrebbe trovato quel sostegno materiale e morale che ne ha consentito lo sviluppo.

A 70 anni di distanza il processo di cancellazione viene confermato dal finanziamento governativo per la ricorrenza destinato prevalentemente alle forze armate e all’ANPI, non considerando l’esistenza di associazioni femminili, come l’Udi, che in quella storia hanno le loro radici, e soprattutto senza considerare gli archivi delle donne che faticosamente hanno raccolto documenti e testimonianze di quella grande azione nonviolenta per la quale le protagoniste non hanno avuto né riconoscimento né riconoscenza.

Il riconoscimento andrebbe annoverato tra le prime pratiche della nonviolenza proprio perché traccia una strada per la conoscenza e consente quella forma di elaborazione della memoria che definiamo gratitudine.

Riconoscere le persone e gli accadimenti orienta la nostra azione e ci consente anche di scegliere l’opposizione più efficace.

Molte e molti di noi conoscono o hanno praticato la nonviolenza attiva nelle situazioni di conflitto armato, violenza di piazza, contrapposizione violenta di gruppi politici, manifestazioni ecc., meno indagata e conosciuta è la pratica nelle situazioni quotidiane, eppure è proprio la vita quotidiana, nei luoghi di lavoro, d’incontro occasionale, anche in casa propria, nel quartiere, nel paese, il luogo in cui le pratiche nonviolente possono diventare la forma delle relazioni umane.

Oggi ci troviamo spesso in situazioni nelle quali le forme dell’agire favoriscono la possibilità dell’esito violento di ogni più insignificante occasione di conflitto.

L’esplosione di rabbia verbale viene legittimata come espressione assertiva di sé. “Avere le palle” diventa un imperativo per uomini e donne che vogliono affermarsi nel mondo e non farsi calpestare. Mentre siamo occupate/i a vomitare insulti sulle nostre o sui nostri simili, accettiamo di subire passivamente le storture della burocrazia, le pratiche inquisitorie nello svolgimento del nostro lavoro, l’esamificio che è diventata la nostra vita, le grandi violenze che ci sottraggono acqua, aria, territorio, la violenza di modelli identitari ansiogeni ai quali invano cerchiamo di conformarci.

La rabbia viene coltivata attraverso l’esasperazione di modalità competitive, incongruenti con la meta da raggiungere, nei principali luoghi della formazione, in ogni format di dibattito sui media e dilaga nel web.

La dicotomia amico/nemico viene esasperata nel gioco del calcio con le non innocenti derive politiche che conosciamo.

Coltivare la rabbia serve a promuovere una minoranza di eclatanti esplosioni di violenza e passivizzare la maggioranza che inconsciamente si ritrae dalla violenza stessa, incapace di riconoscere in sé la possibilità di un’azione che la contrasti.

A questo modello sociale si aggiunge il meccanismo del vero/falso che dalle trasmissioni televisive si è riversato su qualsiasi forma di apprendimento, come se il sapere fosse diventato una somma di affermazioni e non quel continuum della vita che cerchiamo di catturare con i nostri linguaggi per approfondirne e ampliarne i significati utili alla trasformazione e sopravvivenza della nostra specie.

Sono contenta che cominci a diffondersi il boicottaggio delle prove Invalsi nella scuola, dove rappresentano una risposta intrinsecamente violenta alla complessità posta dal tentativo di riconoscere a tutte e tutti il diritto allo studio e alla libera ricerca e crescita dei propri talenti, in una società che non sa misurarsi con i propri solenni principi di uguaglianza e libertà e continua a coltivare, in forme tradizionali e rinnovate, le antiche barriere del sessismo, del classismo, del razzismo e della xenofobia.

Ho boicottato le prove Invalsi quando sono state introdotte nella mia scuola in via sperimentale quasi una decina di anni fa. Sono stata l’unica a farlo coinvolgendo le alunne con le quali è diventata occasione di approfondimento e dibattito proprio sulle pratiche nonviolente.

So che altre colleghe hanno invalidato di fatto le prove aiutando gli alunni nelle risposte.

Ho spiegato alle mie alunne che se io mi fossi limitata alla stessa azione non si sarebbe trattato di boicottaggio ma, molto peggio, di una pratica di dissimulazione che si può legittimare solo in una situazione di pericolo di vita o di grave perdita e non si trattava certo del nostro caso.

Nessuna di noi avrebbe perso il posto di lavoro e, anzi, se il boicottaggio fosse stato generalizzato nelle scuole scelte per la sperimentazione, forse non si sarebbe arrivati all’introduzione generalizzata delle prove.

La pratica della dissimulazione e falsificazione appartiene a quella “morale delle schiavo” ancora spesso praticata, e soprattutto dalle donne, in condizioni che ormai non solo non lo richiedono più, ma addirittura per l’ottenimento di privilegi che sono l’esatto contrario dei diritti.

La discesa verso l’inferno non avviene di colpo, ma un passo dietro l’altro, ci ricorda Imre Kertész, nel libro “Essere senza destino”[3], commentando la domanda che i vicini di casa rivolgono al ragazzo quando si felicitano per il suo ritorno dal lager, dove è invece morta la sua famiglia: “Cosa potevamo fare noi?”.

C’è sempre qualcosa di non eroico che possiamo fare prima che la storia ci presenti il conto costringendoci a scelte ben più difficili. 

Qualche anno prima delle prove Invalsi nel mio collegio docenti che si apprestava ad accettare supinamente la necessaria introduzione del Sistema qualità avevo dichiarato che il mio dissenso si definiva più propriamente “obiezione di coscienza” e l’ho fatto scrivere a verbale.

Non si trattava infatti di una semplice opinione su uno strumento che ritenevo inutile, ma del dissenso rispetto a un procedimento che avrebbe portato solo danni, perché delegava ad esperti ignari della scuola la valutazione della qualità del nostro lavoro, attraverso la verifica della conformità nella compilazione dei registri, nella realizzazione pedissequa dei programmi, nella certificazione delle competenze frazionate in obiettivi standard da raggiungere.

Il primo passo del conformismo fu l’approvazione da parte di una maggioranza disinformata e tutto sommato disinteressata, convinta dal fatto che la certificazione di qualità ci avrebbe consentito di accedere a finanziamenti aggiuntivi, quelle briciole distribuite a caso e legate alle oscillazioni dei governi e del debito pubblico che non garantivano comunque in nessun modo la qualità dell’insegnamento.

Umberto Galimberti propone di inserire il conformismo nei nuovi vizi capitali, aggiornando il tradizionale elenco con l’aggiunta anche di consumismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego, vuoto.[4]

A me pare che proprio il conformismo fornisca la forma, lo dice la parola stessa, a tutti gli altri vizi e l’esercizio della virtù non possa che trovare un’altra forma del vivere comune.

Una forma che va prima di tutto nominata, praticata, insegnata.

A cominciare appunto dalla nonviolenza, che a scuola non si impara nemmeno a scrivere correttamente, come parola unica.

in MAREA 2/2014 “Nonviolenza e femminismo”

 

[1]Eugenio Montale, Non chiederci la parola in Ossi di seppia, Arnoldo Mondadori, Milano, 1948

[2]Anna Bravo, La conta dei salvati, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013

[3]Imre Kértesz, Essere senza destino, Feltrinelli, 1999

[4]Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2004