Con Lidia. Un libro da leggere o rileggere

Presentazione al Senato di “Lettere dal palazzo. Reportage semiserio di un anno da senatrice” di Lidia Menapace, Marea, n.3, settembre 2007
 
Per Lidia
 
Nello sfarzoso palazzo Ancien Régime che ospita il Senato della Repubblica, dove quasi tutti si muovono con altezzosa aria da parvenu, lei mantiene la sua ironica bonaria distanza, il piglio arguto e garbato, consapevole del peso di una storia che espone tutti i suoi busti, rigorosamente maschili, e non sempre irreprensibili, a garanzia solenne di una storia patria che per la maggior parte della popolazione italiana è stata patrigna, soprattutto per le donne, a lungo escluse dalla cittadinanza, e ancora oggi dal suo massimo esercizio, come figlie illegittime, bastarde senza nome.
Lei, ragazza madre di quell’Italia repubblicana nata dalla Resistenza di tante e tanti, a cominciare, come lei stessa ama ricordare, di quegli Internati Militari nei campi di concentramento tedeschi, tra cui suo padre, già reduce dalla prima di guerra mondiale, che rinunciarono al ritorno a casa offerto dal regime repubblichino di Salò e consentirono lo sviluppo della vittoriosa opposizione al nazifascismo, resta fedele alla sua storia antifascista e femminista, per usare solo due dei molti nobili aggettivi che merita, e non lo nasconde.
Non nasconde e non ostenta e non c’è davvero distanza tra le parole che ci invia con puntualità commovente ad onorare il patto, che ci ha proposto appena eletta, di rendere conto con precisione e franchezza del suo operato, e il suo muoversi concreto tra saloni e persone, lavori di commissione e snervanti noiose sedute d’aula.
Per la seconda volta, da quando è stata eletta, mi guida per i corridoi raccontando le storie del palazzo, che è stato la sede della polizia pontificia, commentando con lo stesso rigore, mai moralista ma puntualmente indignata, il privilegio dei prezzi bassi del bar e lo scandaloso comportamento di molti membri dell’opposizione che contraddicono con ingiurie e lazzi degni del peggior fascismo l’ostentata dichiarazione di libertà con cui si denominano.
Lidia non dimentica mai di essere rappresentante del popolo, lei che pure, a parere di molti, avrebbe dovuto essere lì da tempo anche per meriti personali, attenta allo svolgersi dei lavori politici senza dimenticare che riguardano la vita delle persone concrete, donne e uomini di età condizioni bisogni differenti, disponibile ad ascoltare, capace di leggere e lasciarsi attraversare dai sentimenti di chi incontra.
L’anno scorso, a Natale, sbalordita per lo spreco e l’ostentazione di doni scambiati in modo assolutamente rituale ne ha garbatamente, ma con fermezza, restituito uno, considerato eccessivo, e ha pensato invece alle colf del palazzo, le uniche da sempre escluse dalla sarabanda del riconoscimento collettivo.
I tanti puritani della pace, che usano la fustigazione verbale in nome del migliore dei mondi possibili, forse dovrebbero imparare qualche pratica semplice di vita, quelle virtù quotidiane che sostengono la minuta tessitura del vivere molto più di quelle eroiche.
Da sempre questa è la sua lezione di misura: non si sottrae al contesto, al quale sa bene di appartenere, ma stabilisce una distanza che rende visibile il segno di quella storia altra di cui lei è consapevole portatrice; non scrive di come le cose dovrebbero essere, ma si confronta con la realtà dei passi possibili, alla ricerca sempre di tutte le opzioni praticabili.
Felicemente distante e assolutamente al posto giusto, finalmente, in un Paese in cui lo spreco dei talenti e dell’intelligenza sta aggredendo come una pestilenza medievale tutti i settori della convivenza civile, a partire proprio dai luoghi della gestione politica.
Lidia s’indigna per le questioni davvero gravi e si limita a ridere delle stupidaggini, tra le tante dell’opposizione quella di eleggerla quale donna meno elegante del Senato.
Senza menzionare l’ignoranza anche su questo argomento, visto che paghiamo già il peso di quella su questioni ben più importanti, le hanno involontariamente riconosciuto quella rara libertà di cui lei potrebbe davvero fare scuola liberandoci tutti dalle ingessature ufficiali e particolarmente noi donne, che paghiamo a caro prezzo quell’immagine della subrettina in cui ci hanno ingabbiate dagli anni ’90.
Fuori dall’aneddoto la presenza di Lidia è certamente molto significativa se ci provano a fermarla in tutti i modi: con l’intimidazione, l’irrisione, l’ipocrita maldicenza al limite della calunnia.
Sappiamo bene che in Parlamento i nostri rappresentanti non sono davvero rappresentativi della popolazione che li ha democraticamente eletti, non lo sono per genere prima di tutto e poi per condizione di vita, tipologia di lavoro, esperienza politica, ma questo non è il caso di Lidia e dovremmo ricordarlo, noi che ci sentiamo “dalla sua parte”.
Il libro, che raccoglie i suoi scritti di un anno da senatrice, è tutto questo e molto altro.
Con il suo andamento cronologico ci restituisce non solo le tappe di una vita politica talvolta troppo sguaiata per essere comprensibile a tutti, distillandone le questioni più cruciali, ma rende visibile il suo personale percorso di riflessione, di una donna capace di confrontarsi con i tempi e le responsabilità nuove, affinando i propri strumenti di lettura del mondo e la propria capacità d’intervento.
Uno degli aspetti interessanti, dal punto di vista del contenuto, è proprio la capacità di confrontare il suo sereno saldo pacifismo con la realtà del militare, che non può essere semplicemente condannato, visto che riguarda anche la vita lavorativa di una fetta di giovani che sarebbero altrimenti disoccupati.
Le sue lettere, organizzate assecondando il ritmo della cronaca, rappresentano in realtà un vero e proprio manuale, con precisi rimandi a testi eventi approfondimenti storici, per un apprendistato della politica secondo le forme di quel muoversi quotidiano delle donne che lei stessa ha elevato a scienza, attenta non solo alle idee, ai fatti, agli accadimenti, ma anche ai modi del loro formarsi, alle procedure e al loro concreto oscillare nell’intersecarsi di condizioni scelte relazioni.
Se molti e variegati sono i contenuti del libro a me sembra interessante che abbia voluto conservare la forma della raccolta di lettere dalle quali è nato.
Considerata a lungo un genere letterario minore, per le sue caratteristiche di occasionalità temporale, esposizione della soggettività di chi scrive, libertà espressiva, la lettera è stata la tipologia di testo più vicina al vivere quotidiano e proprio per questo da sempre praticata dalle donne che ne hanno esplorato tutte le possibilità espressive, a cominciare da Caterina da Siena riconosciuta oggi, non a caso, quale iniziatrice di una storia della letteratura femminile in Italia ricca e creativa quanto e talvolta più di quella maschile.
Si potrebbe dire che leggendo troviamo interi il mondo e la storia, ma faremmo torto a un libro che conserva quella straordinaria leggerezza che Calvino considerava come la caratteristica più alta della letteratura, perché il mondo per Lidia è il territorio concreto, abitato, che può allargarsi a comprendere perfino tutta la terra, ma si tratta sempre di una terra che è tale in quanto incessantemente percorsa da donne e uomini e dalle loro umanissime vicende.
Anche il sottotitolo, reportage semiserio, non riguarda una falsa modestia che non le appartiene, ma più probabilmente la consapevolezza che può essere solo metà la parte dei politici nel prendere con serietà le comuni questioni di convivenza civile, e non tutti la fanno, ma l’altra metà è indiscutibilmente nostra, di cittadine e cittadini, e anche noi non sempre ce l’assumiamo con la dovuta serietà.
La sua distanza dai riti del palazzo è infatti pari alla sua allegra tenace capacità di restare con i piedi per terra, rifiutando monumenti o predelle, riconoscendo dignità a qualsiasi interlocutore, rispondendo a ogni richiesta (anche a quelle francamente improprie) e continuando in quei suoi viaggi ad ore impossibili che suscitano l’ammirato sbalordimento degli impiegati all’agenzia del Senato.
Avermi chiesto di presentare questo libro è un’ulteriore testimonianza della sua scelta di riconoscere le persone indipendentemente dai ruoli che rivestono socialmente, ma solo in relazione a ciò che davvero sanno fare e per la nostra lunga amicizia mi auguro davvero di aver fatto del mio meglio per convincere a questa piacevole lettura. Non a caso questo libro nasce anche in una rete di amicizie sincere, di reciproca stima e di anni di condivisione politica, come nel caso di Monica Lanfranco che lo ospita come numero speciale della sua rivista Marea e di Luciano Martocchia, che si occupa di inviarci in tempo reale questi scritti dal Senato e di archiviarli.
Le sue lettere infatti ci arrivano sempre in tempo, nel tempo giusto della grande storia, ma anche in quello piccolo quotidiano, delle nostre giornaliere fatiche, delle stanchezze serali che anche lei dichiara talvolta in chiusa, anche in questo a noi così affettuosamente vicina.
 
Rosangela Pesenti