Con il crollo del fascismo in Italia non è crollato il sistema scolastico, così come non sono crollate la Chiesa Cattolica o la Pubblica Amministrazione.
La guerra è passata con la sua devastazione, donne e uomini hanno resistito operando attivamente dentro la guerra di liberazione non solo per cacciare gli occupanti tedeschi, ma anche per rifondare l’Italia su un nuovo patto di cittadinanza che includesse tutti e tutte sulla base dell’uguaglianza.
La Costituzione rappresenta bene l’esito di una stagione straordinaria durante la quale i cosiddetti poteri forti, che avevano sostenuto il fascismo e precipitato il Paese nel disastro annunciato della guerra, sono stati costretti a ritirarsi, purtroppo per un tempo molto breve.
Chi come me è cresciuta negli anni ’50 ricorda bene la ferocia delle differenze di classe e la violenza dell’oppressione di sesso diffusa indistintamente nelle famiglie e nei ceti sociali, favorita dall’ineguaglianza dei diritti e dalla cultura patriarcale.
La scuola è stata il luogo della speranza in un futuro migliore per i figli e della lotta per applicare quell’articolo 3 della Costituzione che impegna la repubblica a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione di un’uguaglianza che le donne hanno definito in seguito, più propriamente, pari opportunità.
Non c’è stata una scuola della Repubblica, riformata in accordo con la Costituzione, ma attraverso il pertugio di piccoli cambiamenti, come l’unificazione della scuola media e la liberalizzazione dell’ingresso all’università da qualsiasi ordine di studi si provenisse, sono entrate con forza nuove generazioni, capaci di portare nelle vecchie strutture una pedagogia fondata sul diritto allo studio come fondamento di una cittadinanza che deve cominciare nell’infanzia e l’istituzione della scuola con questo nome fu infatti un altro grande passo.
Le scuole erano, e sono, diverse in città e provincia, in centro e nei quartieri periferici, al nord e al sud, ma insegnanti e studenti, anche in minoranza, hanno saputo trascinare il vecchio edificio della scuola classista, inventata dai Gesuiti sul modello dei collegi militari, a misurarsi con il bisogno di cultura di alcune generazioni per la prima volta anche massicciamente femminili.
Le differenze imposte dall’appartenenza di classe, di sesso, di religione, acquisite per via famigliare, diventavano occasione di nuove domande e venivano messe in discussione mentre si cominciava a pensare a quell’unicità individuale che cresce e si rimescola nelle forme della socialità democratica e della scoperta di sé come indicatore della necessità di ascolto dei nuovi bisogni.
Sono state le stagioni in cui sono cresciuta come studente prima e poi come insegnante, dentro un mestiere scelto con passione e consapevolezza, affrontando impegni ben oltre le richieste d’ufficio per il piacere di condividere con ragazze e ragazzi la possibilità di cambiamento che la scuola comunque rappresentava.
Oggi le picconate alla scuola ormai non si contano, ma ne voglio ricordare due che a mio avviso sono state determinanti per introdurre tutti gli altri peggioramenti.
Si è cominciato vent’anni fa, e proprio dalla scuola, a colpire le idee di uguaglianza delle possibilità dentro le pratiche di accoglienza, conoscenza e rispetto delle differenze individuali. Si trattava di modificare l’ordinamento e contemporaneamente manipolare l’immaginario cambiando o spostando il significato delle parole.
Il primo grande cambiamento è stato l’introduzione dell’ora di religione che ha irrigidito la scansione temporale imponendo la struttura oraria soprattutto nella scuola elementare e dell’infanzia, mettendo così il primo cuneo sotto l’edificio della laicità.
L’insegnante di religione è una figura particolare, sia perché gode di privilegi estranei alle normali attività d’insegnamento, sia perché utilizza la diffusa subalternità morale alla chiesa per occuparsi di ambiti e finalità educative che non riguardano le sue competenze.
Con questa norma, che ha rinverdito in epoca craxiana lo scellerato patto siglato dalla Chiesa con Mussolini, si è introdotta una differenza che, oltre ad essere un onere economico non indifferente, struttura un immaginario passivamente confessionale e favorisce, di fatto, una visione più aperta all’accoglienza dei fondamentalismi religiosi che dell’impegno per le istanze democratiche di uguaglianza e libertà.
La parola differenza, proposta dal pensiero femminista come indicatore di una libertà identitaria ancora inedita, articolata alla fine degli anni ’80 nelle ultime conquiste legislative in ordine alla parità e al riconoscimento del valore sociale della maternità, è stata declinata nella scuola come registrazione normativa delle differenze sociali che passano dalle storie e scelte famigliari.
I diritti dell’infanzia di cui si cominciava a discutere sono stati annegati nell’ideologia familista che inneggia alle cure materne per ricacciare le donne a casa ed esalta la funzione genitoriale solo per cancellare il rispetto della libertà di pensiero di bambine e bambini.
L’impero dei media si è occupato di fare il resto veicolando stereotipi identitari sessisti nei consumi, primi fra tutti i giochi e l’abbigliamento.
La seconda picconata alla scuola è stata l’introduzione del modello aziendale con l’invenzione dei Dirigenti e la cancellazione delle procedure democratiche nella relazione tra dirigenti e personale, con la totale mortificazione del ruolo dei collegi docenti.
Il controllo della qualità ha moltiplicato la burocrazia sottraendo tempo alla didattica, il valore degli apprendimenti si è trasformato in misura, il diritto allo studio in successo formativo, la cui connotazione psicologica sembra fatta apposta per favorire il disagio, l’adattamento, la passivizzazione e il conseguente bullismo. Un diritto si può liberamente esercitare, di un insuccesso ci si vergogna soprattutto quando il successo stabilisce gerarchie che prefigurano quelle sociali.
Le figlie e i figli dei ceti sociali economicamente subalterni si sono appena affacciati alla possibilità di studiare che l’università ridiventa a numero chiuso, le rette ridiventano alte e si torna a parlare di selezione come misura del rigore.
Le ragazze, che in meno di trent’anni hanno raggiunto e superato i loro coetanei sono le più colpite perché vengono da una segregazione formativa che non le favorisce sul mercato del lavoro, soprattutto ora che la classe dirigente approfitta della crisi per imporre i tagli del welfare.
Per non parlare della condizione di migranti, italiani/e di prima generazione, disabili, di chiunque porti una differenza che invece di essere percepita come ricchezza umana diventa fastidiosa eccezione al dettato uniforme.
Dirigenza, qualità burocratica, selezione, merito, competizione, privilegi per gli insegnanti di religione cattolica, finanziamenti per la scuola privata si uniscono alla diffusione di paure irrazionali per il futuro che convincono i genitori a scelte protezionistiche nei confronti dei figli individuando spesso come minaccia la presenza dei piccoli migranti.
Qui dove vivo, nel profondo nord ancora ricco, i genitori si mobilitano poco per la difesa della scuola pubblica e fanno la fortuna delle scuole private svenandosi per garantire a figlie e figli un percorso scolastico che nasconde dietro qualche accessorio di modernità, come l’attività sportiva o la presenza dello psicologo, un’ideologia educativa ignorante di tutta la storia pedagogica degli ultimi due secoli.
Tempi per l’apprendimento sempre più accelerati e contenuti ridotti a informazioni da memorizzare per i test s’accompagnano ad una spinta competitiva, rafforzata dalle pratiche sportive, che genera ansia e impedisce di gustare il piacere della cultura.
Questa scuola è quanto di più lontano si possa immaginare dal significato originario del termine scholé che significa tempo libero per pensare e gustare il piacere della conoscenza.
Il fallimento della scuola lo vediamo in queste generazioni di genitori, padri e madri smarriti che cercano di garantire ai figli quel futuro che non si può mai acquistare individualmente e intanto accettano che venga loro sottratto il presente.
Il fallimento della scuola lo incontriamo nell’acquiescenza di molte/i insegnanti che si aggrappano alle piccole certezze continuamente erose, che scambiano la rigidità per serietà, che s’adagiano nella lamentazione sfiduciata, che non sostengono i colleghi precari, che hanno rinunciato a interrogarsi sul proprio ruolo e sulle discipline insegnate.
Il fallimento della scuola lo viviamo nella bruttezza generata dalla cementificazione, dall’uso dissennato del territorio, dalla speculazione edilizia, dall’inquinamento, una bruttezza amplificata qui perfino nei monumenti funebri che hanno deturpato la quieta sobrietà dei cimiteri di campagna con l’ostentazione spocchiosa della ricchezza.
Continuo a sognare una scuola laica, non patriarcale, non sessista, non razzista, non classista, una scuola aperta, accogliente, colta e bella perché la cultura e la bellezza del mondo sono necessità come il cibo.
Una scuola che non c’è mai stata, ma che molte donne e uomini insegnanti hanno fatto vivere con le loro allieve e allievi anche solo immaginandola insieme, molte donne e pochi uomini che ancora esistono e resistono.
Il capitalismo è certamente in crisi, ma tutti e tutte noi siamo più colti e più alfabetizzati perciò possiamo immaginare di più: il tempo della speranza e della possibilità è sempre adesso e il cammino della democrazia è appena cominciato.
in École, novembre 2014