28 novembre 2009
Scrivo, in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne e della manifestazione nazionale, non solo perché il fenomeno è di tale gravità che consideriamo un successo delle nostre lotte la giornata istituita da dieci anni per ricordarlo e purtroppo niente in questo momento ci fa pensare che si tratti di un appuntamento temporaneo.
Non solo perché in un paese che ha scelto di fondare sulla democrazia il proprio patto di convivenza, ogni cittadina e cittadino adulto è chiamato a concorrere con la sua individuale preziosa libertà di parola e di azione alla cancellazione della violenza come modo per regolare i conflitti, di qualsiasi natura.
Non solo perché molte donne della mia generazione si sono trovate a crescere sul crinale che separava la complicità di un silenzio atavico dal coraggio della presa di parola, e ha scelto la seconda.
Scrivo soprattutto perché la violenza sulle donne ci riguarda tutte e tutti, è il sintomo gravissimo di un degrado delle relazioni umane che comincia proprio al cuore della comune umanità, nelle relazioni tra uomini e donne.
Ci riguarda la violenza perché non accade da un’altra parte, ma qui tra noi, nell’appartamento accanto, nella strada dietro casa, nel vuoto del nostro spazio urbano dove le abitazioni hanno porte blindate e finestre cieche, dove i bambini non giocano nelle strade e le piazze non sono più luoghi d’incontro, dove crescono eleganti contenitori di segregazione tra vecchi e giovani, ragazzi e bambini, coppie e single, genitori e figli, maschi e femmine, migranti e nativi, ricchi e poveri, malati e sani, dove le scuole non hanno sale dove i giovani imparino a parlarsi, dove il tempo è fagocitato dalle scadenze e la vita è diventata una corsa a tappe.
Ogni anno ripassiamo i dati sul fenomeno, in aumento, degli assassinii efferati, che definiamo femminicidio, di stupri, botte in famiglia, maltrattamenti.
La violenza sulle donne diventa così un appuntamento tra gli altri nello scadenziario politico che segnala l’emergenza democratica, insieme al razzismo, all’omo-lesbofobia, all’odio per lo straniero.
La violenza contro le donne non è l’evento deprecabile in cui incappa una minoranza subalterna, ma è la matrice di ogni concezione gerarchica e razzista, il luogo oscuro che vive nelle relazioni quotidiane tra uomini e donne, che siano migranti o nativi, giovani o vecchi, oscuro e quindi molto più difficile da vedere.
Tra ogni singolo episodio di violenza, quelli che finiscono sulle pagine dei giornali per intenderci, e lo scorrere della nostra vita quotidiana c’è un legame profondo, sotterraneo, tenace, fatto di gesti, scambi, relazioni, occasioni, spostamenti, insieme impercettibili e determinanti.
C’è la responsabilità di donne e uomini nel tacere o parlare, nel guardare o voltare la testa, nell’agire o sottrarsi e, più di tutto, nel costruire forme e modi del vivere, dentro i quali crescono figlie e figli.
Responsabilità diversa, e diversamente espressa nei luoghi e nelle relazioni, dagli uomini e dalle donne, che riguarda le mille forme in cui si declina la complicità nel voler rinnovare una subalternità femminile che siamo riuscite a cancellare dalle leggi e speravamo sparisse dall’orizzonte delle nuove generazioni.
Nessuno dei grandi problemi del presente, dalla crisi economica all’emergenza ambientale, dalla disoccupazione al crescente disagio sociale, può essere affrontato senza prendere in considerazione in modo in cui si strutturano le relazioni tra donne e uomini.
Non si può parlare di lavoro se non ripensiamo il nesso tra produzione e riproduzione, tra il valore delle merci (utili o inutili che siano) e il valore della vita umana che esiste solo grazie alle risorse non mercificabili e prima fra tutte la riproduzione stessa della specie, il fatto che donne e uomini concepiscono e le donne partoriscono.
Come dice da sempre Lidia Menapace il modello del lavoro di produzione non può essere utilizzato per i lavori della riproduzione, sia biologica che domestica e sociale (sanità, scuola, servizi pubblici).
Oggi la precarizzazione del lavoro colpisce le donne più degli uomini, erodendo quelle possibilità di autonomia che avevamo conquistato per le giovani, costringendole spesso a tornare alla contrattazione privata in famiglia, alle infinite mediazioni per sostenere reti affettive che richiedono rinnovate servitù.
Alla conquista della maternità come scelta si oppone di nuovo la scelta della maternità come opzione di vita, mortificando anche l’opportunità offerta agli uomini di sperimentare nuove paternità; alla socialità offerta a bambini e genitori dalle strutture pubbliche come occasione per crescere insieme, si oppone la solitudine delle famigliole blindate nell’autoreferenzialità del consumismo.
Alle scelte politiche dissennate s’accompagna la pervasività di una narrazione sociale che fa mercato del corpo femminile, carne umana in vendita e immagine su cui iscrivere qualsiasi significato.
I media modellano e amplificano una narrazione sociale che diventa scambio quotidiano: battute, sguardi ammiccanti, turpiloquio, gesti osceni, che anche molte ragazze assumono, educate all’emancipazione imitativa da un mondo che cancella ferocemente le donne reali deformando la cultura e la storia.
Una narrazione che espone il corpo delle donne e ne cancella le storie in ogni contesto, di nuovo come se fossero una minoranza, un accidente, una “specificità” dell’umano che resta a dominanza maschile.
Nello spazio pubblico le donne sono affiancate all’immagine maschile ipertrofica nei ruoli tradizionali coniugali o ancillari e servili, il potere si presenta con la solennità dell’apparato patriarcale pubblico e il ghigno maschilista privato, ma spesso purtroppo non è diverso lo spazio riservato alle donne da chi vi si oppone.
Si raccontano le lotte del lavoro, di oggi come di ieri, attraverso le immagini del protagonismo maschile. Accade per la storia degli anni ’70 quello che è accaduto per la Resistenza: in entrambe le occasioni la multiforme e diffusa presenza femminile ha fatto la differenza, determinando un decisivo avanzamento democratico di tutta la società, ma nel racconto gli uomini occupano spesso da soli la scena.
I migranti di cui si parla sono a maggioranza uomini, le donne sono le madri dolorose degli sbarchi, le ragazze-schiave del sesso, la carne macellata dallo stupro o dall’assassinio, come se gli uomini fossero solo lavoratori sfruttati o delinquenti, emersi dal nulla al nostro mondo nello stato adulto e le donne solo vittime.
In questo modo la dignità umana, già aggredita da leggi razziste, viene mortificata dalla costruzione dello stereotipo che cancella la realtà molteplice della condizione di vita, quella costruita ovunque e sempre dall’intreccio dell’esistenza di donne insieme a uomini.
Così, perfino con le migliori intenzioni, si prepara quella via per l’inferno che è la nostra attuale barbarie quotidiana, nella quale è facile scendere gradino dopo gradino dall’ignavia, all’omertà, alla complicità, dall’arroganza della propria identità, alla piccola prevaricazione diffusa, alla violenza.
Per questo sono necessari, ma non bastano manifestazioni e cortei, sono molto, ma sono il meno che possiamo fare: il più è affidato alla fatica di uscire dagli slogans per affrontare la parola, il riconoscimento, il gesto quotidiano, lo spostamento d’azione e d’intenzione, che sappiano mutare il nostro vivere quotidiano costruendo territori aperti alla convivenza invece che città murate e armate.