C’è una palese contraddizione tra la dichiarazione di volersi occupare di diritti delle donne e insinuare che violenza e delinquenza sono appannaggio dei migranti, parlare di diritti delle donne e invocare leggi di tutela che riducono la libertà, mostrare preoccupazione per la delinquenza e pensare di fornire armi ai cittadini, come se la qualifica della cittadinanza esonerasse automaticamente da delinquenza, maschilismo, prevaricazione, omicidio, femminicidio e perfino follia; occuparsi di diritti delle donne e pensare che le soluzioni sono affidate alla giustizia penale, come se ogni problema si potesse risolvere con la denuncia e il carcere fosse il solo deterrente per una violenza maschile domestica alla quale molte donne potrebbero sottrarsi se avessero casa lavoro e solidarietà.
Alimentare la paura favorisce la rottura dei legami sociali e riduce ognuna/o di noi a uno stato di minorità che facilita l’affidamento a chi esibisce i muscoli e alza la voce declamando certezze a suon di slogan. Ovvero proprio le persone che dovremmo temere.
Nel corso del Novecento le donne che hanno sostenuto la destra in Europa, dalle fasciste della prima e ultima ora alle casalinghe naziste, fino alle donne della destra italiana venute alla ribalta per la prima volta dopo le elezioni del 1994, in genere hanno condannato l’emancipazione delle altre donne con uno stile politico moderno e dinamico, mettendosi alla conquista dell’elettorato femminile con piglio decisamente maschile a cominciare dal paternalismo con cui si proponevano di affrontare i problemi del paese.
Sono donne che non avrebbero mai potuto presentarsi sulla scena politica senza quella lunga storia che oggi va sotto il nome di femminismo. Una storia che in Italia, negli ultimi settant’anni, comincia con la resistenza al nazifascismo e il grande lavoro delle donne per la salvezza delle vite e dei territori durante una guerra terribile, coltivata in Europa con il veleno della propaganda razzista, sessista e antidemocratica.
Una storia ininterrotta che ha visto la conquista di tutti i diritti di cui oggi godiamo grazie alle lotte delle donne e agli uomini, ancora pochi, che hanno riconosciuto la parzialità del proprio genere e l’impossibilità di una democrazia senza pari dignità e opportunità.
Si diffonde paura per mantenere e aggravare la condizione di accesso ai diritti continuando a escluderne bambine e bambini che camminano per le nostre strade e parlano la lingua italiana con le sfumature dialettali che fanno le tante preziose differenze di un Paese, il nostro appunto, in cui intelligenza, lavoro, creatività sono il frutto di secoli e secoli di migrazioni e incontri.
Ovviamente anche tutte le lavoratrici e i lavoratori che accudiscono anziane/i e malate/i, fanno manutenzione del territorio, coltivano campi, raccolgono frutti, allevano animali, sono la manodopera di un’agricoltura che ancora è parte della ricchezza di questo paese, non possono diventare italiani, mentre i nostri figli e figlie, che si stabiliscono all’estero e riescono perfino a fare brillanti carriere, mantengono la cittadinanza di un paese alla cui ricchezza e storia non contribuiscono più.
Alzare muri e fare delle nostre case fortilizi nei quali la proprietà si difende con le armi, che poi magari, casualmente, verranno rivolte prima di tutto contro donne e figlie/i; legittimare legalmente la prostituzione, magari come lavoro per giovani immigrate deportate dagli schiavisti, aumentare il divario sociale penalizzando chi è in difficolta: è questa la ricetta per un rinnovato benessere?
Vorrei ricordare che se i diritti non sono per tutte e tutti si chiamano privilegi.
La cultura del privilegio in nome del territorio, del cognome, della provenienza, del colore della pelle, del sesso, della condizione umana, è un percorso di esclusione e impoverimento che potrebbe arrivare a toccarci e abbrutire le nostre vite prima di quanto pensiamo.
La complessità del presente, compresi i problemi posti da donne e uomini che fuggono dalle guerre che noi finanziamo e legittimiamo non si affrontano con gli slogan, con la paura, con i muri.
Quanto alla violenza maschile sulle donne, in questo paese c’è una lunga storia di lotte e solidarietà espressa dalle tante associazioni che se ne occupano lavorando CON le donne, non PER le donne.
La violenza sulle donne è materia incandescente e non si affronta appiccando il fuoco.
Trovo spudorate, cioè senza vergogna, anche le donne che pensano di usare il tema della violenza come se le vite di altre donne potessero essere asservite alla carriera personale di alcune, usandolo come una spilletta di moda da esibire in pubblico e dimenticare dopo l’uso.
Ricordiamo che la parola TUTELA appartiene agli esordi della richiesta di diritti e oggi vale per chi non ha capacità giuridica, quindi certamente non per le donne, che non hanno bisogno di patriarchi, padroni, padroncini, protettori, padreterni né maschili né femminili, perché sono in grado di pensare e scegliere.
Chi davvero pensa che la violenza sulle donne sia un problema di questo paese può cominciare ascoltando chi ci lavora da anni e non usare lo spauracchio dei migranti, dell’uomo nero che usa violenza alla donna bianca, non solo perché i dati lo smentiscono clamorosamente, non solo perché la violenza maschile sulle donne è purtroppo trasversale alle culture, alle nazioni, alle classi sociali, alle famiglie, alle istituzioni e perfino a quelle forze dell’ordine che hanno il compito di proteggere le nostre vite, ma anche per un motivo più profondo e sottile.
L’immagine del migrante violento serve anche a scoraggiare e delegittimare la denuncia delle tante donne bianche, discendenti da italiani, con famiglia italiana, matrimonio tradizionale, figli, lavoro, che con fatica e dolore trovano finalmente il coraggio di dire basta alla violenza domestica, da cui familiari e vicini di casa spesso volgono lo sguardo con una pratica dell’omertà socialmente coltivata a difesa di un’identità che legittima l’inferno per la vita di molte donne.
Ho spesso detto che noi siamo l’imprevisto della storia, ma lo sono soprattutto le donne che non ostentano patrie o padri, che non rivendicano eredità e non praticano meschinità, libere perché conoscono il rischio di vivere insieme e non contro, conoscono il cammino della solidarietà decise a conquistare per tutte dignità, libertà, risorse, casa, lavoro, sanità. Per tutte e quindi per tutti.
E un po’ di felicità, per la quale non servono più regole, recinti e guardie armate, ma più rispetto comprensione condivisione e qualche sorriso.