Bimbe sognate, desiderate, amate.
Bimbe lasciate a rotolare per terra (e che non dicessero ‘come un maschio’), jeans, magliette e tute, abiti da consumare non da “riguardare”, bimbe che sapranno studiare. Cresciute senza confini, da grandi vorranno viaggiare.
Bimbe impossibili da governare.
Se penso alle generazioni di giovani donne che potrebbero essermi figlie per età, se le penso così come me le ritrovo in classe ogni mattina, il sentimento che prevale è una tenerezza venata d’ironia bonaria. Voglia di proteggerle e strapazzarle un po’, ammirata per la sconfinata capacità di apprendere, spaventata per l’inesauribile flessibilità con cui si adattano a tutto.
Sono diverse, sconosciute, so che quando mi guardano sanno vedere molto di me, tutto quello che serve. Così abbiamo fatto noi con le nostre madri. Nel dialogo tra le generazioni chi viene prima può parlare e ascoltare imparando a bilanciare le due attività perché la parola non diventi invadenza e l’ascolto semplicemente silenzio, ma chi viene dopo sa guardare.
Ma è davvero così? Non lo so, noi abbiamo dovuto guardare con molta attenzione per incontrare le donne vere dietro gli stereotipi che ne ingabbiavano gesti e parole e se possiamo dire di essere la generazione che ha ridato voce e volto alle donne nella storia ben più complicato è stato lo spazio delle relazioni familiari e sociali dove le storie sono spesso ancora aperte.
Che cosa vedono le giovani donne che ci guardano? Non lo sapremo finchè non dovranno a loro volta lasciarsi guardare dalle figlie.
Per noi, loro, sono una festa degli occhi e lo smarrimento del cuore: possiedono il presente, colori, suoni, parole, tecnologie, stagioni, opportunità, e sembrano maneggiarlo con cura e competenza, ma i corpi sfuggono talvolta, rarefatti nell’astratta perfezione delle linee che non riconoscono sapori, odori, ruvidità e morbidità, vuoti e pieni.
Noi, nate dopo la guerra, come si diceva quando ci illudevamo che quella dei nostri genitori fosse stata l’ultima, abitavamo alla loro età un mondo piccolo, che si allargava, per evocazione politica, a pochi paesi oltre i confini di un’Europa ancora divisa a metà, loro abitano un pianeta intero che la rete delle comunicazioni sembra rimpicciolire dandoci ogni giorno il concentrato dei problemi comuni spesso dentro la cornice di generalizzazioni falsificanti.
Noi, figlie di un tempo che ha visto completarsi l’emancipazione politica, abbiamo pensato che il corto circuito virtuoso tra legislazione paritaria e la modificazione dei vissuti che avevamo determinato e sperimentato nelle nostre vite, avrebbe generato una spirale ascendente verso una sempre maggiore libertà per tutte.
Dopo la stagione dei diritti e l’esperienza politica di una grande visibilità collettiva, ognuna di noi si è misurata con l’affermazione di sé in campi e luoghi scelti finalmente per inclinazione personale e/o messi a disposizione, senza condizioni discriminanti, dalle reti familiari, sociali, territoriali in cui si è trovata a vivere.
Ora quel mondo più grande che noi abbiamo sognato porta sulle nostre strade altre ragazze, altre figlie, in una condizione di schiavitù o di servitù che avevamo dimenticato e ci fa toccare con mano quanto fosse fragile, circoscritta, precaria, la nostra stessa cittadinanza.
Ci accorgiamo che siamo assenti dai luoghi delle decisioni che danno forma alla convivenza e i piccoli patrimoni di sicurezze e saperi che pensavamo di aver accantonato per le nuove generazioni sembrano di nuovo a rischio, e in un modo insieme così evidente e subdolo che ci coglie impreparate.
Come nel mondo medievale diviso nei tre Ordini dei Combattenti, Oranti e Lavoranti, le donne scompaiono dalla rappresentazione dei soggetti che fondano la società nel suo esistere, per diventare appendici, utili o decorative, di questa o quella casta, invisibili nella divisione sociale del lavoro, e nei perversi meccanismi di intreccio tra mercato e privato, invisibile il loro apporto di intelligenza sociale a tutti i livelli, ridotte spesso a icone fisiche standardizzate su cui si sbizzarrisce l’immaginario ossessivo di chi detiene il potere dell’informazione.
I luoghi pubblici, quelli delle istituzioni come del tempo libero, sono ancora profondamente segnati da corpi maschili, donne e ragazze li abitano come gentili ospiti o laboriose colf che praticano l’antico sapere della cura delle persone, delle relazioni, degli spazi e del loro uso.
La patina del benessere e della ricchezza sembra perfino trasformarli in nuovi accattivanti mestieri, così fare la “velina” sembra più conveniente che fare l’insegnante perché nei processi di costruzione delle identità è entrato il mercato come arrogante misura del valore.
Come spiegare che non potendo esercitare diritti le donne sono state maestre nello scavarsi nicchie di piccoli/grandi privilegi dentro cui ancora vengono talvolta catturate e tenute prigioniere?
Come fornire una mappa con le indicazioni essenziali e una bussola per attraversare il presente senza smarrire la propria direzione?
Servirebbe una guida alle relazioni umane, un manuale per la “manutenzione” dei luoghi, un bignami per la gestione dei sentimenti, una piccola etica per i redditi, magari solo un elenco di “buone pratiche” semplice e rigoroso come una lista della spesa?
Ci siamo perse, noi, nelle questioni complicate, nei cunicoli delle grandi tradizioni del pensiero maschile con cui bisognava cimentarsi senza perdere d’occhio la cucina e i bambini ed ora non sappiamo riavvolgere il filo del discorso in una bella matassa ordinata da regalare.
Forse, proprio a causa della mia attuale incongruenza, io conto su di loro, sulla loro intelligenza, tenacia, morbida ed elastica potenza.
Penso che non si occupano della volgare e insulsa rappresentazione sociale del femminile perché sono altrove, occupate a studiare, vincere concorsi, fare stages, masters, scoprire se stesse, leggere, scrivere, lavorare, amare, viaggiare, coccolare gatti, sognare, ridere, giocare…
So che sono occupate a diventare donne e non si tratta di un impegno o un’impresa da poco.
So che da qualche parte ci incontreremo, quando oltre che donne vorranno essere cittadine e anche loro, come abbiamo fatto noi, interrogheranno lo spazio della convivenza umana con la propria storia.
Non so quali saranno le domande, ma noi saremo accanto a loro e mi piacerebbe che le nostre risposte diventassero allora alberi fioriti su cui potrebbero salire per guardare più lontano. Se non avremo saputo fare tanto, perché non tutti i semi germogliano, avremo comunque pronto un manuale di buon giardinaggio e non saranno sole ad aspettare una nuova primavera.
In Marea dicembre 2002