Quello che gli uomini rimuovono, le donne tacciono e la scuola censura: interrogativi sulla trasmissione delle donne e tra donne
Dal dizionario di psicologia curato da Umberto Galimberti prendo il significato della parola ‘rimozione’: “termine psicoanalitico che si riferisce ad un processo inconscio che consente di escludere dalla coscienza determinate rappresentazioni connesse a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con altre esigenze psichiche” e lo utilizzo liberamente per definire il processo sociale e politico agito dalle collettività maschili nei confronti della parte femminile della specie.
Le caratteristiche di questa rimozione sono tali da costituire una vera e propria questione maschile, cioè non un semplice problema, ma il sostrato-legame tra molti problemi che, reso invisibile, ne preclude l’analisi e ne ostacola la soluzione.
Le donne, la loro concreta umana esistenza e rappresentazione, letteraria mediatica politica e in tutte le forme e linguaggi possibili, sembrano essere, per i maschi, in contrasto con le fondamentali esigenze psichiche di vita e autorappresentazione della stessa e da ciò viene la legittimazione di quel continuo lavoro di rimozione collettiva alla quale non sfuggono, per ora, nemmeno i pochi, maschi, che dichiarano di voler fare diversamente i conti con la propria vita sociale e psichica.
I dati sul peggioramento della vita delle donne sono visibili, così come i cambiamenti determinati dall’inarrestabile tenace emergere di quella coscienza femminile di sé che cerca libertà di esistenza, valga per tutte l’inversione di tendenza dell’andamento demografico mondiale che sconfigge le miopi catastrofiche previsioni di crescita. Gli studiosi non hanno mai preso in considerazione l’emergere di una soggettività femminile che può decidere in ordine alla riproduzione della specie: un processo che si trasmette ormai da donna a donna, di generazione in generazione e che riserva certamente molte sorprese per il futuro.
Studiosi e politici si danno manforte nel rimuovere dai loro miopi orizzonti metà dell’umanità perché la loro fragile psiche non è in grado di reggere il dato base della sopravvivenza umana che è due e non uno.
In questo momento difendono, armati, la propria fragilità, individuale e collettiva, usando tutti i mezzi, compresi ovviamente quelli utili ad arruolare anche schiere di donne a loro sostegno.
Il patriarcato è una struttura mentale, prima che sociale, certamente storica ma molto antica e con una forma semplice e parassitaria in grado di adattarsi a sistemi complessi e alla loro evoluzione. Un virus mutageno insomma, per il quale vige il tabù della vaccinazione sulla cui pericolosità vengono ufficialmente costruite leggende.
Le più resistenti sono trasmesse dal conformismo educativo nella relazione con bambini e bambine, amplificato dalla pubblicità che, almeno in Italia, s’intreccia con il ruolo delle istituzioni religiose.
Questa struttura psichica che costituisce e informa di sé ogni istituzione e relazione sociale ha bisogno, proprio per esistere, della complicità delle donne, non solo della loro fisica assenza da certi luoghi, ma soprattutto della loro certa presenza in altri, tenuti accuratamente separati dalla visibilità pubblica.
Il letto, per fare un esempio, semplice e indispensabile oggetto d’uso, ha la sua forma simbolica in quello denominato, non casualmente, matrimoniale, che mostra il suo carattere di fondamento identitario in una persistenza che va ben oltre le utilità dell’abitare in convivenza tra adulti e soprattutto tra adulti e bambini. E se ne potrebbe disquisire a lungo.
Per gli uomini è indispensabile il quotidiano lavoro delle donne purché unito al silenzio su questo stesso lavoro: nelle contrattazioni famigliari le donne esercitano infatti un sapere diplomatico che certo sarebbe meglio speso nei conflitti armati. Quando le donne si sottraggono spesso gli uomini uccidono, ma la questione viene ridotta a notizia di cronaca nera ed espulsa dall’elaborazione storica.
Il patriarcato è una pratica trasversale al mondo maschile. Una deriva dell’inconscio? Una forma della coscienza (e dell’incoscienza)? Non saprei dire meglio di quanto non sia già stato detto da donne autorevoli e anche qualche uomo. Una forma così pervasiva che molte donne fanno fatica a riconoscere e questo certo è un problema di cultura e trasmissione.
Pratica trasversale alla Destra, che ne fornisce una legittimazione teorica, nemmeno tanto rozza se trova così numerose donne consenzienti, alle quali viene riconosciuta una certa libertà dentro il mercato dei meriti o del corpo, non so se davvero dorata, ma certamente vigilata, e trasversale alla Sinistra che periodicamente disquisisce di quote o s’indigna blandamente per la cancellazione di qualche pezzo di diritto, a suo tempo conquistato dalle donne, ma non ha mai considerato seriamente il femminismo come cultura politica indispensabile con cui confrontarsi per qualsiasi progetto di cambiamento.
Di questi tempi gli uomini di Destra propongono tutele (meglio se declinate individualmente nello stile cavalleresco) come superamento di un arcaico femminismo dei diritti, gli uomini di Sinistra, se proprio incontrano una femminista che osa pensare con la propria testa e fuori dai recinti definiti, non riescono a riconoscere almeno la necessità di una trattativa politica, ma stizzosamente bacchettano, talvolta sostenuti da una claque femminile più o meno ingenua.
Le donne abituate da secoli al silenzio pubblico, perché le strade della denuncia sono lunghe e impervie e quelle che ripropongono la lamentazione privata autodeprimenti, spesso tacciono.
Gli uomini rimuovono con grazia la possibilità di apprendere dalle madri gli elementi base del lavoro di riproduzione domestica enfatizzandone in cambio il ruolo di ineffabili demiurghe della vita, le donne graziosamente enfatizzano le tardive e spesso maldestre esercitazioni casalinghe dei compagni lodandone la buona volontà e incoraggiandoli come si fa con i bambini alle prese con i primi alfabeti.
Ovviamente quelle che rivendicano una qualche miserevole parità sono oggetto di riprovazione come un tempo le massaie incompetenti nella gestione del ménage familiare, la cui pace è ovviamente affidata alle donne.
Sulle femministe viene steso il velo dell’omertà ben fissato con le pietre dell’ignoranza.
Le donne, da sempre abituate a nobilitare con l’aura ineffabile dei sentimenti le strategie di sopravvivenza alle quali vengono indirizzate fin da piccole, tacciono sulla sostanza delle piccole-grandi complicità dentro le quali praticano la quotidiana contrattazione di tempo, spazio, risorse e soprattutto significato sociale della propria vita.
Le generazioni di adulte cresciute dopo il femminismo hanno pagato l’accesso generalizzato alla scuola con l’apprendimento acritico di un’emancipazione imitativa che le ha riportate alla contrattazione privata non solo nelle relazioni affettive, ma soprattutto nei luoghi del lavoro e nelle sedi della politica.
Acquisito il diritto alla scuola, l’atavica capacità di adattamento ha consentito alle generazioni di ragazze di raggiungere e superare ampiamente i risultati del compagni maschi, che continuano a mostrare in forme più disturbanti il disagio rispetto ad un’istituzione che fatica a misurarsi con i fondamenti della società democratica.
Donne hanno insegnato a generazioni di giovani donne gli strumenti di accesso al sapere e della dimenticanza di sé. Competenti su tutto e analfabete della propria storia, ignare del proprio corpo, subalterne al disprezzo maschile per la cura del mondo: oggi vediamo i risultati del meglio e del peggio di un’emancipazione imitativa che ha come esito l’inesistenza sociale delle giovani donne.
Le donne più grandi, a scuola e ovunque, tacciono la propria storia, ricordano al massimo le tappe della parità, senza mai raccontare il come avvenne. Mancano spesso nelle algide elencazioni delle tappe che hanno segnato la cittadinanza femminile i racconti delle circostanze, i luoghi, i dibattiti, le presenze, i costi, i tradimenti, le sottrazioni, gli opportunismi e il coraggio, la lealtà e la miseria morale, le speranze e la tenacia. Manca l’articolazione dei contenuti dentro le parole che non riescono a tradursi in gesti conseguenti, manca la memoria delle pratiche.
Molte donne si allineano alla logica dei vincitori che cancellano persone, luoghi ed eventi della propria stessa contemporaneità, molte donne che si sono adattate o vendute al patriarcato tacciono sull’esistenza di quelle che hanno scelto la strada di una difficile ed entusiasmante libertà.
La parola ‘riconoscimento’, che la stragrande maggioranza degli uomini non usa mai nei confronti delle donne, venne proposta tanti anni fa da Lidia Menapace nell’Udi come elemento centrale della relazione politica da approfondire perché il movimento uscisse dalle strettoie di altisonanti dichiarazioni e ristretti cenacoli, ma non fu colta dal femminismo italiano alle prese con l’ubriacatura di libertà metafisiche (e un po’ classiste).
Gli uomini rimuovono, le donne sanno e tacciono fino a non avere più parole per dire, forme e gesti del dire, e nemmeno luoghi in cui agire una qualche parola collettiva.
Un pezzo di questa storia appartiene alla scuola e alla deriva accademica di tutta la cultura italiana nella quale si sono affossate anche donne di grande intelligenza e poca lungimiranza, ricavandone un legittimo spazio di onesta carriera certamente, ma anche un depotenziamento d’immagine e nessun potere simbolico di trasmissione.
Quella della scuola è stata, ed è sempre di più, una vera e propria censura perché avviene in presenza di una mole ormai ragguardevole di studi, testi, fonti, informazioni: chi insegna discipline scientifiche non conosce le scienziate, chi insegna filosofia cancella Ipazia (sia benemerito il film) e non introduce le grandi filosofe del ‘900, il canone della letteratura non include donne. Tanto per fare un esempio se c’è ancora posto per Schopenauer o Fichte nei programmi devono starci almeno Simone Weil, Maria Zambrano e Hannah Arendt. Nel manuale di storia della letteratura coordinato da Luperini, in uso in molte scuole superiori, viene proposta anche Caterina da Siena tra i letterati del medioevo, ma gli/le insegnanti non la includono nei programmi, prendendo quindi alla lettera i suggerimenti dei programmi che rimuovono le donne e non quelli del manuale direttamente scelto.
La scuola struttura dimenticanze resistenti, legittima ignoranze e analfabetismi escludendo il fondamento sessuato della riproduzione, e ciò che ne deriva per la specie umana, dalle categorie di lettura del reale.
Parlo di censura, che significa controllo esercitato da un’autorità su tutte le forme di cultura per adeguarle ai principi di una legge o una morale, nonostante nel caso della scuola si tratti dell’asservimento ad una consuetudine, una censura quindi che riguarda sempre il funzionamento della psiche, la rimozione, dato che non ci sono disposizioni ufficiali in merito. Certo per includere le donne va ripensato il canone e molto molto altro nelle istituzioni preposte alla trasmissione della cultura.
Il silenzio delle donne nella scuola è una deprivazione di significato della cultura che oggi priva di senso la scuola stessa che, infatti, rimasta senza la difesa delle idee, è sostanzialmente afasica di fronte all’offensiva della destra che ne ripropone il carattere classista e quindi, nemmeno tanto implicitamente, sessista e perfino razzista.
In questo momento la trasmissione tra donne è opaca e molte delle poche femministe (perché sempre minoranza siamo state anche ai tempi d’oro del movimento) si allenano alla resistenza.
Eravamo una minoranza che però fu trascinante per l’intera società, il tempo collettivo delle donne durò una manciata di anni, ma gli esiti sono di lunghissima durata e questo significa che eravamo figlie di un lungo cammino sotterraneo ma tenace.
Eravamo impreviste e per questo possiamo insegnare a guardare il futuro con il buonsenso del limite.
Molte giovani donne sentono così precaria la possibilità di costruire la propria singola vita che accettano acriticamente i dettami della competizione per sé e poi per figli e figlie, ma altre, fuori dalle immagini abbaglianti dei media, lavorano a nuovi interrogativi e inedite sperimentazioni.
Gli uomini non vogliono saperlo, ma le donne sono l’ago della bilancia della politica ed è fondamentale capire con chi si stanno alleando perché questo riguarda direttamente l’idea di società che disegna l’orizzonte del futuro.
Il plurale ‘donne’, faticosamente conquistato con l’accesso a quei diritti individuali che sanciscono la soggettività politica di ognuna, rappresenta il terreno su cui comincia a dispiegarsi la molteplice ricchezza delle differenze e non possiamo sapere come e quando sarà maturo il tempo per un patto politico che porti alla visibilità collettiva le istanze per le quali lavoriamo ancora silenziosamente.
Quel tempo possiamo già pensarlo.
Non so che cosa posso trasmettere, perché ho solo il potere di testimoniare ciò che sono, nel breve divenire di una vita in cui tengo insieme i piccoli passi quotidiani, nell’angolo di mondo a cui sono stata assegnata, e i pensieri che osano oltre la capacità dei miei sogni.
Mi fido delle giovani donne che si mettono in cammino per cercare e se io non mi sarò persa, e loro avranno domande, ci saranno possibilità inattese e incontri che ancora non hanno nome.
In Marea 3/2010