Gli archivi dell’UDI e una storia da raccontare

L’Unione Donne Italiane è la prima associazione femminile della Repubblica, di cui anzi la Repubblica stessa è un po’ figlia se le donne che hanno trasformato la propria militanza dai Gruppi di difesa, nati nella Resistenza, in un’associazione femminile autonoma, sono le stesse che hanno fortemente voluto uno Stato repubblicano in cui muovere i primi passi da cittadine, con la certezza del diritto di voto finalmente acquisito.

L’Udi, come la chiamiamo, con un acronimo ormai diventato da moltissimi anni un nome, è tra le poche associazioni ancora oggi diffuse, seppur inegualmente, su tutto il territorio nazionale. Diffusione che, anche nelle difficoltà politiche dell’oggi, le consente di rappresentare un insieme di luoghi eterogenei nel progetto politico locale, ma molto omogenei nella volontà di resistenza di una presenza politica femminile non omologata ai modelli delle mode periodicamente vincenti. La svolta politica dell’XI congresso (1982) – che azzera l’organizzazione gerarchica nelle singole sedi e nella dimensione territoriale e genera, come unico organismo dirigente, l’assemblea nazionale autoconvocata aperta a tutte – rappresenta un mutamento radicale che diventa nella storia dell’Associazione un evento periodizzante.

Nell’incerto passaggio di consegne tra un’Udi in cui ogni donna aveva chiaro il proprio ruolo e la propria collocazione e la nuova Udi in cui le parole importanti dell’autonomia di ogni soggetto, del partire da sé, della responsabilità individuale, si misurano con l’esperienza nuova dell’autoproposizione – che può aprire spazi impensati di crescita alle singole individualità, ma contemporaneamente consentire e alimentare assenze e vuoti nell’assunzione delle responsabilità – molte donne hanno avvertito la necessità immediata di conservare la memoria del passato.

«Tornando dall’XI Congesso, in treno, pensavo all’idea della storia, della memoria, perché capivo che qualsiasi cosa noi avessimo fatto, la storia poteva andare dispersa» racconta Rosanna Galli.[1] Fu proprio lei a proporre la costituzione del «Gruppo Archivio» il quale cominciò subito a lavorare al suo progetto occupandosi non solo dei documenti che possedevamo, ma anche di raccogliere le memorie delle generazioni di donne che sono entrate nell’Udi a partire dal 1945.

Al riordino dell’Archivio Centrale dell’Udi lavorano per molti anni alcune dirigenti nazionali fra cui Luciana Viviani, Marisa Ombra e Maria Michetti. Nel frattempo vengono riordinati alcuni archivi locali che non hanno nulla da invidiare per quantità e importanza della documentazione a quello centrale. Mi riferisco all’Archivio Udi di Modena, gestito dal Centro di documentazione delle donne che ne cura il deposito e la consultazione, a quello di Ferrara, Bologna e Forlì, ma anche Firenze, Napoli, Bergamo, Catania…

Nel riordino degli archivi si sono impiegate risorse individuali di tempo, competenze, spesso denaro, e ci siamo impegnate per anni in un lavoro oscuro che dice non solo di una passione per la memoria, ma anche della consapevolezza di avere tra le mani un patrimonio che abbiamo il dovere di trasmettere alla libera indagine delle nuove generazioni.[2]

Un impegno che ho condiviso non soltanto per aver svolto quel lavoro oscuro di riordino delle carte ricostituendo l’Archivio Udi di Bergamo (ora depositato presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea),[3] ma anche per aver partecipato nella primavera del 2002 alla costituzione dell’Associazione Nazionale degli Archivi dell’Udi. Con questa Associazione, l’Udi stessa si “separa” in un certo senso dalla sua storia, esce dalla con-fusione un po’ protettiva con il proprio passato, rendendo esplicito un riconoscimento di valore che assume nella gestione del patrimonio archivistico, restituendo al presente la responsabilità politica: gli archivi sono nostri perché parte delle nostre radici e come tali alimento del nostro esistere.

L’Associazione si pone come esito della necessità, da tempo avvertita, di assumere più compiutamente e visibilmente la responsabilità di un patrimonio archivistico che rappresenta un’eredità preziosa per la possibilità della ricostruzione di una parte significativa della storia delle donne italiane e in particolare della storia politica. Gli archivi dell’Udi rappresentano infatti un patrimonio quantitativo di non semplice gestione perché diffuso sul territorio nazionale, spesso collocato in luoghi e sedi che non appartengono all’Udi e nemmeno ad associazioni femminili, affidato alle alterne vicende dell’Associazione stessa in sede locale che spesso non possiede risorse adeguate e sufficienti alla gestione.

La complessità di questo patrimonio archivistico, per la pluralità di intrecci tra nazionale e locale, politica delle donne e istituzioni, tra pubblico e privato, tra “cronologie” interne e “temporalità” esterne, tra biografia individuale e storia collettiva, tra rappresentanza, rappresentazione e autorappresentazione, e l’elenco potrebbe continuare a lungo, richiede di fatto una riflessione sulla questione dell’eredità tra donne non come trasmissione lineare, codificata nella cultura vigente, ma come complesso passaggio di competenze ed esperienze che vivono nelle carte una “materialità simbolica” che non può essere lasciata al silenzio.

Non è questa la sede per spiegare problemi e scelte affrontati dall’Udi per risolvere al meglio la questione “quantitativa” del materiale, vorrei invece ricordare, con un accenno che è quasi solo un titolo per possibili approfondimenti, che nel caso dell’Udi il dato quantitativo diventa però immediatamente dato qualitativo. Delle due grandi domande implicite nell’interrogativo esistenziale “chi sono?” sappiamo che la più inquietante “dove vado?” può trovare una collocazione più praticabile se possiamo rispondere almeno in parte alla precedente “da dove vengo”? Risposta a lungo difficile per le donne, oppresse dalla sensazione di appartenere ad una pagina bianca della storia su cui per prime azzardavano la responsabilità di una qualche scrittura. Rispetto al passato ognuna di noi ha sperimentato il senso confuso di appartenere ad una storia deprivata di nomi, volti, concretezze, persa nell’indistinto di un genere che si diceva riprodursi per ciclicità naturale.

Il lavoro sugli archivi dice della passione per la concretezza di una storia in cui scritture, immagini, nomi, volti portano il segno di tutte le differenze individuali vissute e sperimentate. Un tassello importante per approssimare qualche risposta a quell’interrogativo sull’origine che fa parte del percorso di crescita di ognuna. Nella storia dell’Udi c’è una costante passione politica per la cittadinanza che le donne praticano direttamente nella propria vita come nelle istituzioni in cui si trovano ad agire i primi tentativi di una rappresentanza femminile, perché se è vero che alle responsabilità istituzionali si arriva attraverso candidature di partito, per le donne dell’Udi il riferimento politico resta sempre l’Associazione. Un’Associazione in cui sono presenti, caso rarissimo in Italia, tutte le classi sociali.

Infatti, se negli archivi troviamo preziosi carteggi privati di alcune prestigiose intellettuali, abbiamo assieme a queste la testimonianza del lavoro politico capillare delle mondine, delle mezzadre, delle operaie, delle sartine e di tutto quel mondo femminile che ancora oggi è “oggetto” degli studi ma di cui raramente viene indagata la dimensione soggettiva e il ruolo svolto nei grandi cambiamenti che segnano l’Italia del dopoguerra nei comportamenti “privati”. Anche per questo le donne dell’Udi di alcune città dell’Emilia Romagna hanno lanciato un grande progetto di raccolta delle fonti orali per non disperdere proprio quel patrimonio di storia e consapevolezza politica cresciuto nell’Udi e che appartiene a donne che sanno usare molto bene la parola ma non la scrittura nella loro pratica politica. Il primo libro[4] che nasce da questa ricerca è una lettura delle testimonianze ed anche un repertorio di fonti orali, ma soprattutto vuole essere una sollecitazione, un invito. E un auspicio: che non si continui a studiare ed a scrivere la storia politica delle donne italiane del secondo dopoguerra ignorando l’Udi.

Nel complesso crescere di una cittadinanza, alla cui definizione stiamo ancora lavorando, il deposito di un archivio testimonia la misura dei passi compiuti, del difficile ma tenace andirivieni delle donne tra territori definiti da altri, valicando un confine, quello cosiddetto tra pubblico e privato, tanto più solido quanto più artificioso, con l’accortezza di non smarrire, nel trasloco, bagagli importanti per la propria sopravvivenza. Un tassello importante, questo degli archivi dell’Udi, per ricostruire quella storia politica che del passato delle donne appare ancora l’aspetto più sconosciuto e censurato.

Non accade spesso che nei luoghi politici delle donne possano lavorare, nello stesso tempo, più e differenti generazioni nella definizione/condivisione di un patto che, fuori da ogni astratta dichiarazione d’intenti, assume la pratica di un impegno comune. L’Udi può valersi, oggi, di questa ricchezza: l’incontro, e quindi la collaborazione, di quattro generazioni politiche di donne che si sono conosciute e spesso scontrate, come è giusto che avvenga nell’inesorabile e inquietante passaggio delle età e delle storie.

Con Marisa Ombra è presente la generazione che mi sentirei di definire, e proprio pensando a lei, delle “ragazze della Resistenza”, perché tali mi sembrano talvolta, ancora oggi, queste autorevoli signore, per l’ancora attiva, puntuale ed energica presenza. Poi quella delle donne che hanno cominciato praticando il difficile terreno politico degli anni ’50 e ’60, una generazione poco “eroica” forse, che si caratterizza nell’Udi per la tenacia lungimirante con cui hanno saputo trovare gli spazi, talvolta ridotti a fessure, per praticare quelle ardue mediazioni che hanno conquistato buone leggi e diffuso su tutto il territorio quei servizi del welfare che hanno rappresentato la concreta possibilità dell’emancipazione. Con questa generazione si è scontrata e incontrata la mia, quella del femminismo, protagonista di un cambiamento individuale trascinante e irreversibile, fondato sulla legittimazione del desiderio e di un naturale esprimersi dell’autodeterminazione, venata allora dall’allegria degli slogans: «siamo ragionevoli, vogliamo la luna».

Oggi, a distanza, chi di noi ha avuto la ventura di incrociare l’Udi e di viverla come luogo di stabile, ma non pacificata appartenenza, sa bene quanto dobbiamo in termini di diritti acquisiti, luoghi e possibilità, alle ragazze della Resistenza ma anche a quella generazione successiva, tanto contestata, che nell’Udi ha saputo stare accanto, con il proprio agire politico, ai due diversi protagonismi che fanno delle donne della Resistenza e di quelle del Femminismo le uniche storicamente visibili. Ed infine l’ultima generazione: le ragazze di oggi. Proprio a loro pensiamo quando parliamo di preziosa eredità, quella degli archivi. Ma non solo: quella che negli archivi ha lasciato le tracce di una storia che vogliamo sia raccolta e narrata.

 

 

[1] Intervista a cura di Rosangela Pesenti e Delfina Tromboni in Caterina Liotti, Rosangela Pesenti e altre (a cura di), Volevamo cambiare il mondo. Memorie e storie delle donne dell’Udi in Emilia Romagna, Roma, Carocci, 2002.

[2] Non riassumo qui le informazioni sugli Archivi dell’Udi: tipologia dei materiali, criteri di archiviazione, collocazione, accessibilità…, perché lo spazio non sarebbe sufficiente, preferisco allora rimandare ad una recente pubblicazione degli Archivi di Stato: Guida agli Archivi dell’Unione Donne Italiane, Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma, 2002.

[3] Giuliana Bertacchi e Rosangela Pesenti, Carte per la memoria, in Emma Baeri, Rosangela Pesenti e altre, Storia delle donne: la cittadinanza, «Quaderni della Fondazione Serughetti – La Porta», n. 79, Bergamo, maggio 2002

[4] Liotti, Pesenti e altre (a cura di),Volevamo cambiare il mondo.

 

(Milano, Archivi delle donne)