Tutto è cominciato con una separazione. Dividere, separare è l’operazione che consente di individuare, definire, conoscere. La lingua e la memoria operano attraverso la suddivisione e la nominazione, pescano nel fluire del pensiero, nell’acqua corrente delle percezioni e costruiscono significati come villaggi abitabili sulle palafitte, fissate nella profondità di un terreno conosciuto e solo mediato dalle mille trasparenze variabili delle correnti che conservano l’oscurità del profondo.
Da queste case significanti ci si può sempre affacciare per esplorare l’orizzonte, terra e cielo, in sintonia con le diverse stagioni della vita, che portano piene o secche variando il paesaggio intorno, nella fisica ambivalenza di un restare che significa contemporaneamente fluire.
Le palafitte non reggono castelli turriti o mura erette a difesa di un’identità che chiudendosi in sé diventa smemorata del mondo. Prima o poi il fluire erode le fondamenta e il crollo è ben più rovinoso e drammatico dello sciogliersi di una capanna lungo la riva di una risacca autunnale, restituita all’armonia degli elementi da cui è sorta.
Così sono nate le parole corpo e anima, una casa provvisoria in sintonia col misterioso fluire della vita.
Poi qualcuno ha pensato di fare dell’anima la roccaforte dell’essere, separata e dimentica della materia pulsante su cui veniva eretta, finestre e porte sbarrate a difendere un’artificiale oscurità che sottratta alla variabilità della luce si è pensata eterna.
Dentro solo armature vuote a guardia del nulla.
Così sento quella divisione tra corpo e anima che l’Occidente, il pensiero maschile greco fattosi dominio sulla natura, ha imposto agli umani e alle umane costruendo su questo modello simbolico le separazioni e gerarchie che mortificano i corpi deformando le anime.
Lavoro intorno a questo nodo perché come umane/i abbiamo bisogno di molte e diverse parole per comprendere quel “noi” vivente di cui sperimentiamo la singolarità nel pensiero e la sfuggente molteplicità nell’esistenza. Le parole e la scrittura sono il filo che abbiamo imparato a torcere e tessere per conservare, ma restano un prodotto stagionale, l’alimento di qualche generazione per riprodursi, una certezza provvisoria e caduca, e in questo consiste il loro valore, nell’essere carne che si fa verbo, memoria depositata nelle cellule prima che nelle biblioteche o nei microchips.
Le donne conoscono, nella profondità del proprio ventre, il significato di come ciò che si separa diventa altro, asimmetrico senza essere mai gerarchico, diverso eppure uguale, parte del fluire e segnale del tempo, inizio e annuncio della fine, come la sommità di un’onda conosce il suo infrangersi, come la libertà del divenire sia insieme vincolo, necessità e responsabilità di scelta.
Nella storica divisione tra corpo e anima, al corpo è stata assegnata la parte bassa, corruttibile, di un dualismo che ha investito il cosmo e l’universo intero.
In questo dualismo il corpo, materia e natura, diventa femmnina, mentre il maschio si fa Uomo e quindi Anima, (nobile Forma contro volgare Materia) anche qui secondo l’ideale gerarchico di alto e basso, e la femmina è la pura materia passiva in cui viene infuso il principio vitale maschile, che per un certo tempo si è pensato perfino generatore per pura vicinanza.
Dualismo che prosegue a lungo tra la parte razionale e quella definita irrazionale, riabilitata a fatica, la cui rivelazione troviamo, secondo Freud, nei sintomi sogni lapsus atti mancati.
Il corpo viene abilitato alla fatica e resta “materia” a disposizione, oggi dell’esercizio del multiforme dominio del capitalismo che risucchia nella logica del mercato il lavoro dei corpi e la loro rappresentazione manipolando l’immaginario collettivo ai fini dello sfruttamento.
Il concetto di anima resta sullo sfondo, a disposizione di religioni, sette, micro e macro fanatismi e del senso comune che non riesce a trovare la connessione tra le informazioni della scienza e la percezione del proprio agire pensante.
Nel delirio scientista con cui si pensa di poter completamente determinare e dominare il corpo si crea una nuova cittadella murata che si allea a quella che le religioni hanno eretto intorno all’anima, in una condivisione del dominio sui significati come impero sull’esistenza.
Non è possibile sottrarsi alle prigioni che ingabbiano i corpi senza rompere le catene delle parole e restituirle alla loro natura di filo per la tessitura dei significati che possiamo indossare per esprimerci e riconoscerci.
Abbiamo dato il nome “anima” al percepirsi del corpo, di cellula in cellula, di pensiero in pensiero, quell’eccedenza che può sempre essere scatto di libertà e sorpresa del vincolo, quel filo che cuce instancabile lo sfuggire del tempo, dove ogni punto è sintesi nuova, e indicazione di percorso, abitudine di sé che si conserva nell’impercettibile o repentino mutamento, in cui si riassume l’attimo di un esistere in contiguità con ciò che ci sembra separato. Nella lingua con cui individuiamo l’infinitezza del finito essere del mondo, così come ci appare, depositiamo l’intuizione che permane o scompare, alimento di altre sillabe o segni umani, passaggio ad altre storie.
Il corpo è il luogo dell’ambivalenza, che non può essere separata, tra l’esperienza di ciò che ci oppone il limite e la continua eccedenza di una materia che fornisce inesauribile possibilità, tra il congiungersi di nascita e morte nel mistero di cui siamo parte, capaci di indagare e nominare il come senza approdare al perché. L’anima è il corpo vivente nella continua tessitura dell’essere nel mondo, respiro in sintonia col respiro, gesto parlante col gesto, passaggio d’informazione sulla rete dei pieni e vuoti di memoria, legame e tramite con il tutto nella contingenza del tempo e dello spazio, struttura molteplice e mutevole delle relazioni situate.
Al principio e alla fine il corpo inerme è affidato alla responsabilità di una condivisione che richiede rispetto e parole intrise di silenzio. Per non violare con il dominio la diversa muta eloquenza del corpo neonato, o malato e morente, è necessaria la cura di presenze sobrie e sapienti, persone che sanno farsi ascolto e soccorso, capaci di sonorità carezzevoli e significati aperti all’accoglienza della molteplice verità dell’esistere.
Nel mio sentire il corpo è l’anima, e con questo sentimento, che nasce da un ascolto più profondo dei miei stessi pensieri, dall’esperienza del mio corpo più e più volte contenuto e contenitore, cullato e cullante, da quell’emozione informe che sostiene le impalcature della ragione, legandole e piegandole alle ragioni della ricerca, radicato in quel vivere corpo a corpo col mondo nella quotidianità che chiamiamo storia, intrisa di ripetizione ed evento, abitudine e scoperta, voglio ripercorrere la strada all’indietro per ritrovare sentieri abbandonati, avventurarmi nell’oscurità dei pensieri, fiduciosa dei gesti che sanno comunque conservare la vita alla necessità dei giorni.
In Marea 3/2009