Non interverrò sulle questioni politiche di cui mi occupo da molti anni e oggi con particolare impegno e passione, dalle forme della democrazia all’economia della riproduzione, dai diritti di bambine e bambini alla cittadinanza inclusiva, ecc.
Sono stata una delle due responsabili della sede nazionale che insieme all’attuale delegata ha costruito per tre anni il XIV Congresso al termine del quale ho scelto di non essere più attiva nell’Udi. Non condividevo le nuove scelte relative alla forma degli organismi dirigenti ma soprattutto non avevo il tempo, l’energia e le risorse economiche per continuare a sostenere le mie idee dentro l’associazione.
Accade alle donne, è la condizione di milioni di donne in Italia quella di non poter partecipare alle istanze della società civile perché lavorano, perché hanno carichi di famiglia, perché non hanno privilegi, accade alle donne che non vediamo, migranti e native, accade alle nostre vicine di casa, accade alle donne che non fanno notizia, alle donne con le quali non possiamo alimentare le nostre denunce e azioni, condite talvolta purtroppo da un filo di sciacallaggio.
Sono orgogliosa di appartenere a questa tipologia di donne e a 25 anni, entrando nell’Udi, ho pensato che questo era il posto dove le mie idee potevano abitare insieme a tante altre.
Nel 2003 avevo cinquant’anni e ho lasciato l’Udi un po’ come si lascia una casa madre, con la consapevolezza adulta che cominciava per me un’altra storia, ma di quel passato potevo rendere testimonianza a favore di altre donne, perché ogni storia, con le sue luci e ombre, sedimenta dentro di noi le opzioni per il futuro.
Ero entrata da femminista in quella che oggi viene chiamata la grande Udi, un’associazione radicata nella sinistra di questo Paese, vicina, per la doppia militanza di tante, al più grande partito socialdemocratico dell’occidente, il P.C.I., ma sempre con grande autonomia di pensiero e giudizio. Era un’associazione costruita più sulla cooptazione che sulla democrazia, ma nella quale il gruppo della segreteria nazionale rendeva visibile il dibattito interno che era proprio anche di tutte le sedi locali.
Ho vissuto l’XI Congresso nel 1982 da dirigente locale e poi per vent’anni sono stata presente a tutte le autoconvocazioni che hanno rappresentato uno straordinario tentativo di costruire l’associazione con forme di democrazia al femminile, cioè inclusiva e non selettiva, a partire dalla realtà delle rappresentazioni prima di arrivare alla rappresentanza.
Non è stato facile, ma ci siamo riuscite: per quasi dieci anni ci sono state quelle che io definisco affettuosamente “le guardiane della rivoluzione” che frequentavano solo l’autoconvocazione nazionale e impedivano qualsiasi passo avanti nella sperimentazione democratica per timore di tornare indietro, poi, senza rotture, preparando il XII Congresso, con Emilia Lotti e Lidia Menapace come Responsabili della Sede nazionale, siamo riuscite a costruire forme di responsabilità originali. Le elenco perché le considero ancora oggi, nel tristo panorama del presente, l’unica esperienza davvero innovativa sulla strada di una democrazia reale.
Le responsabilità a rotazione, sempre condivise almeno da due persone, delle quali, per garantire la continuità, una se ne va e una resta.
Il mandato a termine con il resoconto finale dell’esperienza.
Il metodo del consenso per la gestione politica delle differenze non componibili, perché ci sono molti futuri possibili e nessuna ha la verità in tasca.
La completa trasparenza dei bilanci.
Sembrano piccole cose, ma sono come i pilastri invisibili che sostengono l’intero edificio.
Sono, a mio avviso, l’unico modo per far crescere i vari e diversi talenti politici delle donne, perché garantiscono ad ognuna la possibilità di sperimentare l’autonomia e l’autodeterminazione.
Continuo a considerare la democrazia come un bene concreto, faticosa da praticare, ma entusiasmante per molte ragioni, la prima fra tutte è che la democrazia ci protegge da noi stesse.
Il mandato a scadenza ci consente di avere fiducia nelle altre donne, che altre sapranno fare nel migliore dei modi, come noi abbiamo cercato di fare, ma soprattutto ci consente di avere fiducia in noi stesse, di sapere che non abbiamo bisogno di aggrapparci a un ruolo per essere qualcuno.
Il servilismo, la dissimulazione, il disinvolto cambio di opinione, l’adulazione, la seduzione, la manipolazione, l’uso delle confidenze private, il mobbing, il ricatto vittimistico o affettivo sono pratiche secolari che hanno sempre consentito l’abuso del potere attraverso lo stravolgimento delle regole. Sono state perfino teorizzate nel 1600 dagli intellettuali e consiglieri del principe, hanno attecchito nelle istituzioni dell’Italia unita e ancora non sono state debellate, nonostante una guerra e la Resistenza antifascista dalla quale è nata la nostra Costituzione. Sono pratiche molto presenti oggi a tutti i livelli, ma noi possiamo ricordare che sono pratiche estranee al movimento delle donne e anche a quel movimento operaio italiano del quale le donne sono state parte imprescindibile.
Nella democrazia la fiducia è sempre sottoposta a verifica e anche sentimenti nobili come l’amore, l’amicizia o le relazioni parentali non possono essere usati come titoli preferenziali nelle scelte dei programmi e delle persone.
Sono stata per vent’anni una dirigente nazionale dell’Udi, così sono stata definita all’inizio del mio ultimo mandato, andarmene non è stato facile, il mio nome è stato cancellato da questa storia e anche questo non è stato un piacere, eppure io so che se fossi stata aggrappata al ruolo che avevo nell’Udi la mia vita sarebbe stata più povera, certo l’Udi mi avrebbe garantito di essere presente su qualche palco, ma io non voglio essere una pimpinella (così chiamo affettuosamente la mia gatta) da parata, io volevo essere una donna signora della propria vita e lo sono.
L’unica ragione per la quale sono presente a questo congresso è che voglio lasciare questa testimonianza a tutte le donne che guardano il mondo con molti giustificati timori e agiscono con speranza. Viviamo in tempi difficili e si può perdere molto di più che un ruolo o una sinecura nell’Udi; per capire il presente bisogna grattare sotto la crosta dura delle storie che ci vengono raccontate: così io ho ritrovato le donne assenti dai libri di storia e anche dalle narrazioni agiografiche.
Dire io è importante, ma è anche la base dell’individualismo, a radicalizzare il noi si corre talvolta il rischio del conformismo, quand’ero giovane ho gridato “io sono mia” che è la base dell’habeas corpus e io traduco liberamente con “abbi la responsabilità di te stessa”, fondamento della cittadinanza grazie al quale continuiamo le nostre lotte.
Non c’è prezzo per quella responsabilità morale di sé che chiamiamo libertà. Se possiedi te stessa hai un intero mondo che cammina con te.
(Questa è la versione integrale che lì ho ridotto per stare nei 5 m., sono in corsivo le parti che certamente ho saltato, ma posso aver cambiato altre cose perché sono abituata a parlare liberamente più che a leggere un testo)