Università degli Studi di Bergamo
Dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità
Elaborato per il corso di Epistemologia della scienza
2009
INTRODUZIONE
L’esclusione delle donne dalla scienza, la nascita del capitalismo con la definizione “forte” di lavoro di produzione della merce e l’oscuramento dei lavori della riproduzione, o una loro definizione “debole” come servizi quando sono messi sul mercato, l’esaltazione del dominio sulla natura ridotta a materia inerte a disposizione dell’esperimento e dello sfruttamento, sono fenomeni coevi che segnano quel grande cambiamento nella percezione del mondo e nel modo di abitarlo, socialmente e politicamente, che ancora oggi viene definito come inizio del progresso, nonostante l’evidente insostenibilità ambientale accompagnata da diffusa sofferenza umana.
Qual è il legame tra l’immagine del mondo che si deposita in ogni disciplina definendone la scientificità, e quindi la “credibilità”, a partire dall’alienazione del punto di vista e dall’assunzione di un soggetto unico, maschio bianco adulto sano, che diventando paradigma della conoscenza può inventare l’oggettività, e la riduzione delle donne a corpo, e dei corpi a materia, risorsa a disposizione per qualsiasi sfruttamento o guerra?
E le donne reali, sempre omesse dalla storia o eccezionalmente incluse attraverso caratterizzazioni mascolinizzanti, come si sono confrontate con le immagini di una scienza che fa della misura quantitativa l’unico paradigma di conoscenza?
Il cammino dell’emancipazione, come giusta richiesta di parità di diritti, di libero accesso agli studi, alle professioni, alle eredità famigliari, ai ruoli politici, come si è intrecciato con il costituirsi e rafforzarsi del paradigma scientifico o, al contrario, con l’emergere di studi che l’hanno messo in discussione?
E quali forme di conoscenza, escluse dai luoghi e dai soggetti legittimati alla riproduzione del sapere, hanno continuato ad esistere nelle pratiche quotidiane che sostengono la sopravvivenza? (De Certeau 1990)
Mi guardo intorno e ovunque, nella vita che scorre intorno a me come nelle ricerche che parlano di popolazioni lontane, le persone si misurano quotidianamente con le attribuzioni di genere, più o meno complesse, che strutturano le relazioni e definiscono il potere di accesso e governo delle risorse (della vita materiale e dell’immaginario) per la costruzione dei caratteri dell’esistenza sul pianeta.
Si tratta di un processo in cui le vite fluiscono come i pesci nell’acqua, un tema su cui si spreca l’aggettivo “naturale”. (Judith Lorber 1994)
Gli esseri umani fluiscono dentro i processi sociali che conoscono continuità e cambiamenti non solo nei vissuti, ma anche nella memoria che si costituisce come cultura diventando parte integrante del processo.
Pur nel mutamento delle forme, la storia che conosciamo ricorda la persistenza dei fenomeni di esclusione delle donne dalle istituzioni che governano il potere sulle risorse materiali e sull’immaginario culturale che definisce il patrimonio degno di memoria e trasmissione, stabilendo le coordinate su cui si costruisce la vita sociale.
Tutte le questioni, anche giuridiche, che riguardano l’accesso ai luoghi, alle carriere e all’eredità dei patrimoni, cominciando dall’attribuzione del cognome ai figli, che in Italia è paterno per consuetudine così radicata che non è esistita una legge fino a quando la richiesta di alcune coppie di genitori non l’ha resa necessaria, parlano implicitamente o esplicitamente delle relazioni tra donne e uomini.
Si tratta di un tema vasto come l’intera storia della specie che continua ad essere accantonato o liquidato con pochi e semplificati criteri di lettura che hanno l’effetto di rendere ancora più opaco il processo delle relazioni umane invece di favorirne la trasparenza e comprensione.
Non è un caso che il corpo delle donne come luogo del potere riproduttivo sia ancora al centro del dibattito politico declinato nei temi cosiddetti eticamente sensibili e l’interesse scientifico si sposi talvolta al fondamentalismo religioso nell’affermazione di principi che trascendono la storia concreta delle persone e quella dello stato di diritto, che si fonda in Europa sull’habeas corpus, e proseguano l’antica riduzione dei corpi a materia su cui si esercita, in particolare oggi, il potere della tecnologia (Barbara Duden, 1999, 2002).
Nella lingua il soggetto continua ad essere declinato al maschile cosiddetto neutro e le donne stesse lo riproducono esprimendo così l’istanza di inclusione attraverso quel processo di assimilazione che già abbiamo conosciuto in vari passaggi nel mondo cristiano dai primi secoli fino all’età moderna e oltre (David F. Noble 1992).
Come le badesse un tempo (nome che tradotto alla lettera significa ‘padra’), le professioniste in carriera chiedono di essere nominate al maschile, per segnalare la vittoria di un faticoso accesso al mondo del valore e del potere, confermando in questo modo la subalternità del femminile nella gerarchia dei sessi e determinando un vero e proprio genocidio simbolico il cui esito, ancora poco indagato, s’intreccia a tutti i livelli, dal quotidiano alle istituzioni, della storia occidentale e non solo.
Una storia che racconta come sia stata la rinuncia al proprio corpo sessuato la via attraverso la quale molte donne hanno ottenuto la parità sociale e talvolta perfino politica, l’accesso alla cultura come al potere istituzionale, ma si tratta di una storia costruita sui frammenti sottratti alle cancellazioni e non è detto che si sia salvata la memoria di chi si è resa più simile ottenendo visibilità a prezzo di un’assimilazione che ha funzionato come selezione tra donne stesse, tra degne e indegne di memoria, tra sante, magari precocemente morte per un disagio psichico che oggi si chiamerebbe anoressia, e streghe che parlano, nelle testimonianze giudiziarie, mimeticamente lo stesso linguaggio degli inquisitori che le portano al rogo (Carlo Ginzburg 1989, Duby Perrot 1990).
“Vir facta sum” enunciavano badesse e future sante con orgoglio e allo stesso modo oggi una donna dice di sé “sono un magistrato, un avvocato, un ministro” e non sappiamo se ancora e con quale mortificazione del corpo, tanto che alcune donne di cultura islamica oppongono alle occidentali la tradizione del velo come segno di appartenenza femminile portato orgogliosamente fin dentro le cittadelle del potere maschile.
La cancellazione del soggetto dai paradigmi della conoscenza, come pre-condizione per la definizione dell’oggettività che consentirebbe di arrivare alla verità, è andata di pari passo con la cancellazione delle donne dalla cultura e la limitazione e deformazione della loro presenza nella realtà dell’essere che si autodefinisce specie umana.
Perché è stato così difficile in questa storia umana pensare e accettare la dualità dell’essere presente nella funzione riproduttiva? Come e perché la concettualizzazione gerarchica ha costruito l’Uno come paradigma, derivando poi dall’Uno tutte le categorie dicotomiche gerarchiche che arrivano fino alla definizione e pratica del dominio umano sulla “natura”, cioè sull’intero mondo del vivente?
Sembra più facile pensare l’umano come carattere astratto di tutti gli esseri ed è certo più funzionale al dominio; del resto quando si definisce nel dualismo Maschio-Femmina si scivola comunque spesso negli stereotipi identitari gerarchici che ingabbiano le singolarità individuali, non solo femminili, (Thomas Laquer 1990) mettendo in rilievo più le differenze che le somiglianze.
Nessuno sfugge, alla nascita, all’attribuzione dicotomica ad uno dei due sessi, tanto che ancora oggi è pratica corrente modificare i corpi che non rispondono al modello sessuato intervenendo chirurgicamente sugli individui che presentano caratteri “androgini”, senza nemmeno attendere l’età per una loro “dichiarazione d’intenti”. (Martine Rothblatt 1995, Anna Camaiti Hostert 1996)
Stabilita quindi nelle forme giuridiche di appartenenza sociale e nelle pratiche relazionali, l’identità sessuata sembra funzionale alla costruzione dei rapporti di potere in relazione alla produzione dei mezzi di sostentamento e alla riproduzione della vita stessa, gabbia identitaria nella quale ogni essere si muove cercando spazio per l’espressione di quel sé che si plasma e definisce comunque nell’ambiente di vita. (Bateson 1972)
Anche le variabili identitarie, legate alla rappresentazione del sé nei più diversi contesti relazionali, sembrano talvolta funzionali, per entrambi i sessi, alla conferma selettiva di alcuni comportamenti a scapito di altri. Così ad esempio anche nell’educazione femminile vengono promossi i valori di forza, competitività, aggressività, attraverso l’utilizzo magari dei più tradizionali apparati estetici della seduzione.
Siamo il cibo che mangiamo, le case che abitiamo, le relazioni con gli esseri che sentiamo prossimi, nell’interazione con le immagini che si costituiscono come tramite d’intelligibilità tra noi e il mondo, strutture ad un tempo conservative e malleabili, costituite tra abitudine e mutamento, permanenza e innovazione.
Mi chiedo se la paura che determina l’aggrapparsi dei singoli agli stereotipi che definiscono di volta in volta le identità in forme gerarchiche e potenzialmente aggressive, come accade per le parole razza o etnia o nazione, non sia dovuta anche alla reticenza nel pensare il molteplice come paradigma del rapporto tra continuità e discontinuità nell’esistenza dei viventi, tutti e non solo umani.
Nella storia che conosco, quella del territorio che corrisponde giuridicamente all’Italia, in parte all’Europa e a quello che viene definito Occidente, così come si racconta in forma oggi considerata eurocentrica, l’emergere di rigurgiti identitari con funzione aggressiva e di difesa del dominio sul territorio e sulle risorse è stata spesso preparata, o segnalata, da una riattivazione degli stereotipi identitari dei due sessi, sempre latenti, ma riproposti ad esempio oggi con forza nelle immagini e nelle forme di tutti gli oggetti che, a partire dagli abiti, costruiscono poi il nostro habitat materiale, nonché habitus mentale, con particolare insistenza nei confronti dell’infanzia. (Elena Gianini Belotti 1973, Loredana Lipperini 2007)
La ricerca nel campo dell’umano sembra inclinarsi a favore del molteplice, al quale ci si accosta con le teorie della complessità, ma cosa accade quando si rilevano le differenze tra soggetti umani e si utilizzano le categorie delle identità plurali, che s’impongono all’Occidente del ‘900 con l’inizio della decolonizzazione e nell’attuale globalizzazione, saltando a piè pari l’indagine sulla differenza maschio-femmina come se fosse un residuo arcaico o la rivendicazione di un vetero femminismo rimasto ad una lettura rozza dei sessi?
L’attenzione si è portata nell’ultimo decennio anche sul trans-gender (Butler 1990) e su quel continuum androgino a lungo negato nella teoria e perseguitato nell’esistenza. Si tratta di un’attenzione non solo legittima, ma doverosa sul piano politico, quando rivendica l’esercizio dei diritti allargando in forma inclusiva la definizione dell’umano, eppure è curioso che pur essendo accaduto grazie alle porte aperte al pensiero dal movimento femminista, coincida con un momento di ritorno dei più vieti stereotipi sessisti e delle discriminazioni politiche, sociali ed economiche nei confronti delle donne stesse, oltre che ad un aumento della specifica violenza contro le donne per la quale è stato coniato perfino il termine di femminicidio (Barbara Spinelli 2008).
Matassa ingarbugliata da dipanare se rinunciamo a ripensare il molteplice dentro l’essere, che comunque è due e con funzione asimmetrica nella riproduzione della specie.
Come ritrovare, e con quali parole descrivere, le connessioni non solo tra discipline, ma tra dati di realtà, eventi, fenomeni sociali o come altrimenti possiamo definire il tessuto biostorico del vivente umano nella singolarità delle percezioni e discontinuità delle vite?
E come indagare la relazione tra forme del pensiero e loro espressione/socializzazione, in codici, linguaggi, immagini, e la costruzione della percezione di sé che può scotomizzare la molteplicità insita nel proprio vivere, parte integrante dell’ambiente in senso lato, fino a piegare il corpo a una dimensione rigidamente monadica dell’esistere?
Come spiegare certe esistenze che si raccontano solo nella progettazione ed esecuzione del gesto violento reiterato grazie alla solidità di certe istituzioni, come ad esempio il tifoso della curva sud ogni domenica allo stadio?
Non sono domande retoriche perché esiste un continuum di relazioni sociali che passa attraverso la contiguità e perfino la distanza dei luoghi, tra il vivere comune e le istituzioni che definiscono la Scienza come ambito della conoscenza umana del mondo, che è contemporaneamente conoscenza di quel sé situato da cui si diparte il filo del discorso scientifico stesso e quindi uno dei luoghi di produzione dell’immaginario dentro cui collochiamo il nostro narrarci a noi stessi come individui e collettività.
In parole povere lo stadio o il CNR o la segregazione formativa dei sessi sono istituzioni della stessa società che utilizzano le strutture profonde degli stessi codici di comunicazione che percepiamo come realtà in cui si apre, o si chiude, il ventaglio delle nostre scelte.
La questione del soggetto e del punto di vista, che situa di fatto nella contingenza dell’umano l’oggetto della conoscenza, si pone a tutti i livelli della ricerca, compresa l’organizzazione del lavoro, il reperimento e la destinazione delle risorse, l’uso politico dei risultati. Tutti ambiti nei quali la differenza di genere, l’essere iscritti/e all’anagrafe come donne o uomini ha contato e conta ancora moltissimo, anche se non è facile trovare gli strumenti per ricostruirne il modo e portarlo dall’invisibilità all’intellegibilità.
La scienza e il suo oggetto, la scienza e il suo racconto, sono espressione di soggettività nate e costituite nella concretezza di quel vivere che noi umani chiamiamo storia, in cui contano i tanti passi che producono le scelte dei singoli e delle collettività, i cui percorsi si snodano in buona parte nell’imprevisto e, probabilmente, nell’imprevedibile.
Che cos’è la vita e che cos’è l’umano dentro l’ambiente di vita, terra su cui camminiamo e cielo stellato sopra di noi?
Sono le domande che hanno guidato il lavoro di ricerca e riflessione di Carolyn Merchant, docente di storia filosofia ed etica dell’ambiente, considerata esponente di spicco della cosiddetta epistemologia femminista, per quanto la definizione sia impropria e restrittiva perché si tratta, per lei come per altre, di donne che hanno posto dentro l’oggetto della ricerca i soggetti stessi e il loro costituirsi senza prescindere dalla propria stessa soggettività storicamente definita e vissuta.
Ripercorre nel suo libro, ‘La morte della natura’, le tracce di idee e storie, condizioni di vita e letture del mondo a lungo cancellati dal pensiero vittorioso di un dominio sulla natura che oggi mostra, nei tanti segnali di catastrofe ecologica, tutti i suoi limiti.
La storia che ci racconta ricostruisce nella memoria del passato la strada che può aprire nuove possibilità al futuro.
LA MORTE DELLA NATURA
“Donne e natura sono unite da un’associazione millenaria, un’affiliaziazione che è persistita nell’intero corso della cultura, della lingua e della storia.”[1]scrive Carolyn Merchant all’inizio dell’introduzione al libro nel quale ripercorre “le interconnessioni storiche tra donne e natura che si svilupparono quando, nel Cinquecento e nel Seicento, prese forma il mondo scientifico ed economico moderno: una trasformazione che plasmò e pervade tuttora i valori e le percezioni prevalenti.”[2]
Merchant affronta l’indagine del momento in cui l’idea del dominio sulla terra, già presente nella filosofia greca e nella religione cristiana, diventa una realtà nell’ambito politico e sociale anche attraverso l’incontro tra scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche fissandosi nelle metafore della conoscenza, nell’organizzazione sociale e nell’immaginario con cui viene raccontato.
In questo processo la sottomissione della natura e delle donne vengono definite attraverso l’uso delle metafore, in linea con la tradizione consolidata dalla filosofia greca. Il linguaggio infatti non è solo lo strumento espressivo del sapere, ma ne diventa la forma stessa in una fantasia di riproduzione oggettiva della realtà.
L’uso del corpo femminile come metafora risale alle testimonianze, scritte e iconografiche, della cultura greca e proprio il passaggio dall’immagine della madre terra, al solco e poi al forno ed infine alla tavoletta per scrivere, segnalano la successiva definizione della donna come “mancanza” che prepara la concezione gerarchica dei generi fissata nella descrizione metonimica di Aristotele , (Page DuBois, 1990).
Nel mondo organico che precede la rivoluzione scientifica la natura è madre, femmina benevola che nutre, e la terra stessa, come organismo vivente e materno, è un’immagine che condiziona culturalmente limitando l’azione umana, fino a quando l’accelerazione nella circolazione delle merci, non a caso definita ‘rivoluzione commerciale’, unita all’innovazione tecnologica e alle scoperte scientifiche, non determina quel mutamento di bisogni della società nel suo complesso che richiede una nuova cornice concettuale con cui leggere e soprattutto legittimare l’azione del variegato ma compatto gruppo umano che stabilisce le forme nuove del proprio dominio su tutto ciò che definisce risorsa.
L’ipotesi di Merchant è che ci sia una possibile connessione politica tra il movimento ecologista e le istanze del femminismo perché la loro critica alla società può trovare un comune fondamento in una storia rimossa quando la natura, ridefinita attraverso il mutamento delle immagini femminili ad essa associate, diventa la materia su cui agire lo sfruttamento e contemporaneamente la metafora femminile della passività, utilizzata per la natura stessa, diventa verità scientifica, fornendo così una nuova legittimazione alla condizione sociale subalterna delle donne.
Quando il cosmo da organismo diventa macchina, il dualismo natura-cultura diventa la chiave di volta di ogni scienza e mentre l’identità europea si definisce ‘cultura’ tout court in relazione alla scoperta di altri popoli e conquista delle loro terre, al suo interno ricostituisce su questa dicotomia l’ordine gerarchico tra uomini e donne, queste ultime svalutate e ridotte a ‘natura’ proprio a causa delle funzioni fisiologiche della procreazione considerata come risorsa passiva a disposizione dell’attività culturale dell’uomo.
È lo stesso universo simbolico in cui prenderà forma l’idea di lavoro produttivo delle merci come paradigma del rapporto tra uomo e mondo-natura e la svalutazione di tutte le attività di riproduzione della vita come estranee al valore sociale che costituisce la ‘ricchezza delle nazioni’ (Adam Smith 1776).
Non è un caso che alla natura si associ anche l’idea del disordine, al quale deve mettere rimedio l’opera regolatrice dell’uomo, e analogamente si definisca come disordine l’agire delle donne e si affianchi al controllo sociale attraverso l’irrigidimento dei ruoli nella famiglia, il fenomeno della persecuzione delle streghe e la repressione di tutto il protagonismo femminile che aveva alimentato i fermenti della Riforma, fino a mettere in discussione il potere politico di nobildonne e regine ridefinendo i canoni giuridici del diritto ereditario.
Passività, e conseguente controllo, nelle sfere della produzione e della riproduzione diventano, secondo Merchant, quel nuovo ordine economico e scientifico dell’Europa che arriva praticamente fino ai nostri giorni.
“Non possiamo accettare una cornice di riferimento esplicativa e rifiutare al tempo stesso i giudizi di valore ad essa associati, poiché le connessioni con i valori associati alla struttura non sono fortuite. Nuove innovazioni commerciali e tecnologiche possono però rovesciare e minare una struttura concettuale stabilita. Nuovi bisogni umani e sociali possono minacciare costrizioni normative associate, richiedendone in tal modo di nuove.”[3]
Cambia la visione della natura sotto la spinta di innovazioni e nuovi bisogni, ma certo non si tratta di un processo lineare perché le soggettività che si misurano con le risorse e la loro definizione sono diverse e portatrici di interessi e istanze spesso contrapposti.
L’arte e la letteratura sono il veicolo più direttamente disponibile alle classi colte per ridefinire la cultura e tra ‘500 e ‘600 esprimeranno proprio la ridefinizione della natura e della donne come passività, sia pure nelle forme splendide dell’accattivante nudità femminile.
Nella “modernità” dell’esperienza artistica che varia rapidamente, nel teatro come nella pittura, resta il deposito degli antichi riferimenti filosofici, ma dal neoplatonismo rinascimentale, che recupera l’idea di un’anima del mondo femminile come ponte tra le forme eterne immutabili e il mondo sensibile, si passa al prevalere della filosofia aristotelica che associa l’attività al principio maschile e la passività a quello femminile estendendo il principio gerarchico dal ruolo dei due sessi nella riproduzione umana al rapporto tra cielo e terra nella visione del cosmo.
Il tentativo di introdurre una visione alternativa, androgina, di complementarità tra i sessi, recuperata dalla tradizione gnostica, sia pure attraverso le confutazioni degli antichi Padri della Chiesa, fu sconfitta dalla funzionalità della lettura aristotelica del mondo ai fini della rivoluzione scientifica che favoriva il dominio umano sulla natura.
La scoperta di nuove terre rigogliose contribuì allo slittamento semantico dalla madre terra generosa all’idea di terre “vergini” aperte allo sfruttamento dell’uomo bianco che si autodefiniva misura dell’universo, preparando il passaggio dall’idea della terra nutrice al sistema fisico inerte e inanimato.
Il movimento ecologista che dopo il 1960 ha scoperto le credenze animistiche degli indiani, facendo del loro rispetto per la madre terra la propria bandiera, ignora i movimenti di resistenza e le filosofie che anche nella cultura europea si sono opposte all’ideologia del nascente capitalismo.
Ancora nel ‘500 la filosofia rinascimentale della terra nutrice recuperava autori antichi, come Plinio il Vecchio, che avevano scritto contro lo sfruttamento minerario, fonte della cupidigia e della guerra per l’uso distorto dei due metalli più ricercati: l’oro e il ferro.
Ma, ricorda Merchant, le analogie sono a doppio taglio, e l’immagine della terra madre si rovescia facilmente in quella della terra matrigna che nasconde i suoi tesori: la metafora femminile aveva già a disposizione quella dicotomia tra donna benefica e donna malefica che legittimava gli stupri nel nuovo continente e si rovescerà in seguito sulle donne europee con la violenza della persecuzione.
Tra il ‘500 e il ‘700 il passaggio dalla concezione organica a quella meccanicistica del cosmo si gioca completamente nella realtà del mutamento dei rapporti economici tra soggetti e dei soggetti con il territorio.
Per capire l’intreccio tra le innovazioni tecnologiche, il conflitto tra signori e contadini per il controllo delle risorse, il diffondersi del mercato e i modelli culturali, il mutamento delle istituzioni è necessario utilizzare un modello ecosistemico del cambiamento storico che “guarda ai rapporti fra le risorse associate a un dato ecosistema naturale (una foresta, una palude, un oceano, un corso d’acqua, ecc.) e i fattori umani che incidono sulla sua stabilità o sul suo sconvolgimento”.[4]
Nell’Europa premoderna le comunità contadine avevano prodotto modelli di cooperazione che avevano consentito di mantenere la fertilità del suolo pur ottenendo una produttività agricola alta, ma il bisogno di sicurezza militare aveva favorito l’imposizione della struttura feudale che garantiva ai signori il godimento di profitti sotto forma di tasse, servizi, lavoro, affitti.
Si trattava di una situazione di conflitto tra chi viveva del prodotto della terra e chi premeva sul lavoro contadino per ricavarne un plusvalore che ne garantiva la superiorità gerarchica.
“Le conseguenze del diverso accesso alle risorse dei vari gruppi d’interesse può essere illustrato per mezzo di esempi scelti concernenti tre ecosistemi storicamente mutevoli. La fattoria, la palude e la foresta.”[5]
Nel conflitto tra signori e contadini che si snoda in varie forme in questi secoli diventa determinante la creazione di un mercato capitalistico, con lo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali, e degli umani non considerati come tali, presenti nei nuovi territori scoperti e conquistati.
L’ambiente europeo muta in relazione all’intensificazione dello sfruttamento, garantito anche dall’ascesa della classe sociale mercantile sostenuta spesso dal tradizionale succedersi delle dinastie al potere nei vari territori con le politiche conseguenti, e in molti luoghi si realizza un disastro ecologico non dissimile da quelli contemporanei.
Un mutamento che diventa più decifrabile ripercorrendo la storia delle interconnessioni tra le teorie sulla natura e quelle sulla società.
Nel medioevo il modello organico della natura era applicato anche alla società con tre variazioni che Merchant definisce “gerarchica, comunale e rivoluzionaria”.[6]
Il modello gerarchico, per il quale ragione e anima s’identificano con il principe e il clero, esprimeva l’ideologia politica dell’ordine e stabilità attraverso il potere di un sovrano assoluto, ‘naturalmente’ di sesso maschile, che si allarga, al massimo, alla nobiltà tradizionale e ai mercanti in ascesa.
La seconda variante, originata dall’esperienza delle comunità contadine, si fondava su un ideale egualitario e sul valore superiore della volontà collettiva come predominio del bene del gruppo su quello dell’individuo, ma come Hobbes aveva eroso la teoria organica gerarchica trasformando lo Stato in una macchina al servizio della sovranità assoluta, così Locke sfiderà l’idea dell’origine sacra della proprietà comune a favore del principio dell’acquisizione della proprietà personale della terra attraverso il lavoro come fondamento della libertà individuale.
“Un’economia di mercato fondata su scambi monetari, su diritti di proprietà, su miglioramenti agricoli e sul dominio della terra aveva in tal modo minato la teoria oltre che la pratica della comunità organica.”[7]
Il bisogno di rivoluzione sociale di contadini e artigiani, la terza variante, testimoniato anche da una lunghissima tradizione millenaristica, è espresso all’inizio del ‘600 dai progetti utopistici.
Anche in questo caso però alle utopie egualitarie di Tommaso Campanella e Johann Valentin Andreae, che riflettono un’idea olistica di natura come luogo di ritrovata armonia con gli umani e tra gli umani, s’accompagna il programma di Bacone, radicato nell’emergente economia di mercato visto come progresso, che legittima il divario sociale sulla base della ricchezza.
Così non riuscirà ad avere fortuna l’idea olistica della connessione tra specie umana e ambiente, che oggi viene invece ripresa dal movimento ambientalista, alla ricerca di una nuova etica che non rappresenti solo un diverso modo dei gruppi umani di rapportarsi alla terra e alle risorse, ma che nasca da una rinnovata osservazione dell’equilibrio degli ecosistemi e da una posizione di attenzione ascolto e apprendimento da parte degli esseri umani.
“Come l’ecologia delle fattorie, delle paludi e delle foreste d’Europa fu alterata in modo irreversibile da mutamenti economici, come l’ordine gerarchico organico fu minato dalla mobilità sociale, e come le viscere della terra e le risorse comuni divennero la base per un mercato fondato sul denaro e sulla proprietà individuale, così anche il cosmo intero come organismo vivente si trasformò.”[8]
L’idea del cosmo come organismo intelligente si esprimeva nel Rinascimento in varie filosofie che avevano recuperato oltre alle tre antiche tradizioni del platonismo, aristotelismo e stoicismo, anche altri sistemi come l’ermetismo, lo gnosticismo, il neoplatonismo e il cristianesimo.
Le filosofie diverse, che producevano anche diverse letture della società funzionali al mantenimento o alla trasformazione dei sistemi di potere, avevano in comune l’idea che mutamento ed equilibrio erano il frutto di forze interne al cosmo come alla società.
I meccanicisti, pur assimilando alcune parti del pensiero di filosofi come Campanella o Bruno, accettando l’idea di una ‘magia manipolativa’ così come alla fine il cosmo eliocentrico di Copernico e l’universo infinito, sostituirono l’idea di forza esterna rispetto alla materia inerte, ripudiando totalmente la concezione fondamentale di quegli stessi filosofi.
“Il rifiuto e l’eliminazione di caratteri organici e animistici e la loro sostituzione con componenti descrivibili meccanicamente sarebbe diventato l’effetto più significativo e di più vasta portata della Rivoluzione scientifica.”[9]
Il dibattito culturale e lo scontro tra le idee si accompagnò ai conflitti sociali per il governo delle risorse che presero la forma di guerre e scontri armati, determinando un clima di incertezza che, se noi oggi leggiamo come transizione da un vecchio a un nuovo ordine del mondo, fu per i contemporanei percepito spesso come fonte di caos e anarchia.
Come in ogni periodo di incertezza le paure generate dal timore di una disintegrazione del mondo delle sicurezze favorirono la ricerca di capri espiatori.
In questa cornice s’inscrive la persecuzione della stregoneria che si tradusse in un vero e proprio femminicidio.
La madre terra benevola si era trasformata nella natura selvaggia da sottoporre al controllo, così la donna che la letteratura aveva idealizzata, mostrava la sua faccia perversa nella strega che quindi andava bruciata.
“In Europa, all’inizio dell’epoca moderna, l’accettazione di una dicotomia natura-cultura fu usata come giustificazione per tenere le donne al loro posto nell’ordine gerarchico naturale costituito, dove erano collocate al di sotto degli uomini dello stesso gruppo di status. La reazione contro il disordine in natura simboleggiato dalla donna era diretta non solo contro le streghe delle classi inferiori, ma anche contro le regine e le nobildonne che, durante la Riforma protestante, parvero sconvolgere l’ordine naturale.
Nel nuovo ordine economico e scientifico i concetti di passività e di controllo nelle sfere della produzione e della riproduzione concorrono ad assoggettare il territorio al dominio del capitale e le donne al dominio gerarchico maschile.
Continua così, paradossalmente, l’uso della scienza come ideologia per controllare le donne, attraverso la sessualità e la funzione riproduttiva la cui gestione passa, non a caso, dalle levatrici ai medici. (Barbara Duden 1991, 2002)
Determinante fu il contributo di Bacone, uno dei riconosciuti padri della nuova scienza, nel costruire un programma totale di controllo dell’uomo sulla natura e quindi nel definire la funzione della donna come risorsa psichica e riproduttiva a vantaggio dell’uomo.
Legittimando la manipolazione della natura secondo forze dettate da leggi, il nuovo sistema meccanicistico forniva il modello di un ordine che sarebbe stato trasferito al controllo sociale, come risposta al caos e legittimazione delle nuove forme di potere espresse dal capitalismo borghese.
Ordine e potere furono le parole chiave, derivate dallo studio della natura e fonte perciò di una verità che fu applicata rigorosamente alla società.
In quest’ordine anche la conservazione delle risorse, che pure si rese ben presto necessaria, come nel caso delle foreste saccheggiate per l’industria navale, fu attuata in una prospettiva manageriale e produttivistica che non teneva conto degli ecosistemi, dell’impatto ambientale e della sopravvivenza delle comunità umane.
Su questa base Merchant sottopone a critica l’ecologia attuale quando pretende di costruire una pianificazione a lungo termine sulla base di un’analisi razionale della natura perché la questione dell’esaurimento delle risorse non si risolve con un’indagine quantitativa che s’illude di poter modificare le finalità lasciando inalterato il modello.
Non è possibile introdurre tutti i dati anche nel più sofisticato dei computer e “l’eliminazione di componenti o l’astrazione di dati dal contesto ambientale può modificare il tutto alterandone il comportamento.”[10]
L’alternativa al modello manageriale sviluppatosi nel corso del ‘600 può essere invece “l’approccio organismico proprio della piccola comunità, che si fonda su meccanismi decisionali affidati a persone e su una democrazia di partecipazione anziché su esperti”[11]di cui abbiamo esempi riusciti sia nel passato che nel presente.
Reazioni alle filosofie meccanicistiche propugnate da Descartes, Gassendi, Hobbes e Boyle, si presentarono però già verso la fine del ‘600 nell’Europa Occidentale ad opera di filosofi che si rifacevano al platonismo come a Cambridge o al vitalismo nella cui struttura concettuale era implicita l’idea di limitazione dello sfruttamento.
Anne Conway fu un’importante esponente di questa corrente di pensiero, stimata ed elogiata dai maggiori filosofi del suo tempo come una maestra, dimenticata perché il suo libro fu erroneamente attribuito dagli studiosi al suo curatore, van Helmont, il cui nome compariva sul frontespizio, mentre era omesso quello dell’autrice, com’era uso abituale per opere scritte da donne in quel periodo.
Per Conway non c’era differenza tra corpo e spirito, due entità interconvertibili come aspetti differenti di una stessa sostanza e il suo vitalismo fu in quel momento una reazione influente contro le concezioni dei meccanicisti, anche se le sue argomentazioni, negando il corpo come categoria esplicativa, non riusciranno poi a fornire una spiegazione soddisfacente dei fenomeni empirici.
Probabilmente la sua adesione alla religione dei Quaccheri, come luogo favorevole alla presenza autorevole delle donne, e le sue condizioni di salute, non furono estranee alla sua soluzione del dilemma dualistico con la riduzione di tutta la realtà alla categoria idealistica dello spirito.
Gli storici della filosofia che hanno completamente dimenticato l’opera di Anne Conway, sottovalutando anche il suo uso del termine ‘monade’ di cui certamente Leibniz ebbe conoscenza, hanno cancellato insieme a lei tutto un gruppo di donne che studiarono e praticarono la filosofia, la scienza e la letteratura pedagogica nel ‘600 e ‘700.
Donne cresciute nelle classi superiori, soprattutto in Inghilterra, che individuarono nella diversa educazione impartita a maschi e femmine la radice delle differenze nella produzione culturale dei due sessi e rivendicarono il diritto all’istruzione come principio di progresso sociale.
I mutamenti introdotti dall’economia capitalistica anche nelle forme della produzione domestica ebbero l’effetto di liberare le donne dei ceti più elevati da alcuni vincoli tradizionali favorendo la loro adesione ai principi di una Rivoluzione scientifica che poteva prestarsi a sostenere nuove teorie egualitarie.
La diffusione del nuovo sapere, con gli strumenti messi a disposizione dall’invenzione della stampa, che estese i suoi benefici fino agli strati subalterni della popolazione, soprattutto cittadina, contribuì a formare un nuovo pubblico, anche di donne, che ne diffuse il metodo come cornice di riferimento per la soluzione dei problemi in altre sfere della vita umana.
Tra il ‘500 e il ‘700 la trasformazione della visione del mondo da organismo vivente a macchina s’accompagnò al cambiamento della società con un capovolgimento del significato dei termini utilizzati un tempo per definire la natura ‘organica’. “Capitale e mercato avrebbero assunto sempre più gli attributi organici della crescita, della forza, dell’attività, della pregnanza, della debolezza, del decadimento e del collasso, oscurando e confondendo le nuove relazioni sociali sottostanti della produzione e della riproduzione che rendono possibili la crescita e il progresso sociali.”[12]
Sotto l’egida della razionalità la natura e le donne prima di tutto, ma anche i negri e i lavoratori salariati furono considerati risorse da sfruttare.
“La concezione meccanicistica della natura, sviluppata dai filosofi naturali del Seicento e fondata su una tradizione matematica che risaliva fino a Platone, è dominante ancora oggi nella scienza”[13]conclude Merchant nell’epilogo, nonostante sia evidente il disastro ambientale determinato dallo sforzo di imbrigliare e controllare la natura attraverso la tecnologia, e proprio per questo la sua speranza si rivolge alla convergenza tra movimento femminista e movimento ecologista, che possono efficacemente trovare nel modello olistico una lettura dell’unità ambiente-vivente-umano favorevole ad una ristrutturazione delle priorità al fine della sopravvivenza comune.
in Marea 1/2010
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[1] Carolyn Merchant, La morte della natura, Garzanti 1988 (Ed. Or.: The Death of Nature, 1980), p. 31
[2]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 31
[3]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 41
[4]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 81
[5]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 84
[6]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 113
[7]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 123
[8]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 144
[9]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 173
[10]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 312
[11]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 312
[12]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 353
[13]Carolyn Merchant, Op. Cit. p. 355