Pomeriggio. Siamo sedute intorno al tavolo, a casa mia, tra le nostre mani il rumore lieve delle carte ha una sonorità decisa, gesti veloci e un parlare fitto, che può saltare ormai molti passaggi del ragionare per la consuetudine avviata. Quattro donne adulte, una preside, un’assistente di laboratorio, un’insegnante di tirocinio all’istituto magistrale, un’insegnante di lettere all’istituto tecnico, alle prese con un percorso sull’orientamento delle ragazze e dei ragazzi nell’ambito di un progetto delle P.O.
Lavoro “volontario” nel quale intrecciamo al piacere della ricerca le amarezze per una condizione lavorativa che peggiora continuamente. Non siamo così sprovvedute da non vedere la contraddizione nella quale siamo invischiate. Si chiama “maternage”, l’attitudine/abitudine delle donne a mettere insieme risorse e relazioni dentro i vincoli stabiliti trasgredendoli quel tanto che serve a far funzionare le cose ma senza mai mettere in discussione l’impianto che ha costruito quei vincoli.
Dovremmo smetterla di fare volontariato, di sostenere i vari progetti con i quali cerchiamo faticosamente di introdurre maggior sensatezza in una scuola che leggi e decreti fanno regolarmente deragliare su altri binari.
E nella contrattazione sindacale noi donne siamo un soggetto assente dentro una categoria che non conta nulla.
Sono semplificatorie e accomodanti nuove e vecchie analisi che attribuiscono a connotazioni di genere presunte arretratezze di consapevolezza. Ricordo per tutte l’ingenerosa definizione di vestali della classe media, della quale non siamo ancora riuscite a cancellare l’eco con parole più limpide e più sicure.
Resta la realtà di una categoria a maggioranza femminile che non riesce ad avere, per il proprio lavoro, né riconoscimento sociale, né remunerazione adeguata.
Si aggiunge il paradosso che la parte più consapevole (politicizzata avremmo detto un tempo) e più “qualificata” della categoria è anche quella che lavora di più ed è capace di esercitare il diritto di sciopero e insieme di moltiplicare le proprie ore di lavoro, garantendo all’istituzione quella “produttività” che le statistiche registrano.
Perché un atteggiamento tanto insensato ?
Per quanto mi riguarda non saprei lavorare in un altro modo, perché il rapporto tempo/lavoro non ha una scansione quantitativamente regolare ma richiede una capacità di movimento ondulatorio, una sorta di bioritmo che non può essere artificiosamente interrotto (neppure dall’abominevole campanella).
Perché se nel lavoro produttivo ci si può separare in qualsiasi momento dal prodotto restituendo la responsabilità della sua gestione a chi rende impossibili le condizioni della sua produzione, in questo lavoro allieve e allievi restano nei nostri pensieri come responsabilità viva da cui nessuno ci può più sollevare e tanto meno un anonimo ministro.
Per noi non sono numeri o classi ma persone, ragazze e ragazzi con nome e cognome, una storia, un volto, uno sguardo e la fatica di esserci incontrati e compresi e di aver iniziato un cammino non si può recidere di botto e ricominciare un pezzo più avanti senza ricucire lo strappo, ridare senso a quella storia che qui ed ora abbiamo incominciato insieme, fragile e tenace, comune e irripetibile.
Perchè insegnare è uno dei lavori della riproduzione sociale e non banalmente un’attività socialmente utile alla quale la collettività può tranquillamente rinunciare se mancano i fondi.
Mettere a tema questa categoria del lavoro muta tutti i termini della questione a cominciare dalle necessità organizzative sulle quali gli ultimi provvedimenti hanno agito con la tipica incolta sensibilità da elefante.
La contesa contrattuale non può prescindere da questo se non vuole continuare ad aggrovigliarsi in dispute scolastiche (nel senso medievale del termine) sulla quantificazione oraria del servizio o sul numero di caselle del registro.
Perché forse se cominciamo a dire che in ogni lavoro della riproduzione va prevista necessariamente una quota di lavoro fisso e una quota di lavoro variabile, che non si può parlare di programmazione ma di previsione, non di unità ma di percorsi didattici, che la sua utilità, gestione, distribuzione delle risorse non può essere assoggettata al mercato perché le persone e la loro formazione non possono essere oggetto di compravendita ecc. ecc. ecc. forse si comincerà a capire che anche la retribuzione di questo lavoro deve diventare oggetto di scelta politica e non di pietose elucubrazioni sulla sua “produttività”.
E’ un caso se proprio oggi, in presenza di una crisi senza precedenti del sistema produttivo e del rapporto col mercato, si pensa di risolvere il problema dell’avviamento al lavoro sottomettendo direttamente la scuola superiore alle richieste del mercato sia nelle forme interne di gestione che nelle scelte di indirizzo?
In tutti i tentativi di “razionalizzazione” che tentano di oggettivare la funzione docente riducendola ad un rapporto meccanicamente quantitativo di trasmissione delle informazioni io vedo in crisi sostanzialmente la genealogia maschile, il sistema patrilineare di trasmissione del sapere che forse sente di poter contare sulle nostre ultime complicità.
Perché di fatto oggi nella scuola si scontrano due modi profondamente diversi di considerare i figli e le figlie da parte della collettività degli adulti, da un lato una visione della trasmissione come luogo della “selezione” su un “materiale riproduttivo” assunto come mero dato quantitativo, dall’altro la consapevolezza di “mettere al mondo” soggetti ai quali dobbiamo il diritto di accesso a tutte le opportunità, insomma anche detto in termini freddamente oggettivi (perché sappiamo bene che l’autenticità dei sentimenti non è legata all’enfasi delle parole) è ben diverso pensare alla riproduzione della specie come frutto di una scelta o come risorsa a disposizione.
E io penso che il futuro della specie non deve essere a disposizione di nessun mercato e di nessun mercante.
Articolo per “L’Isola delle donne” – Catania 1994