LE DONNE DELLA RESISTENZA, LA RESISTENZA DELLE DONNE
In Studi e ricerche di storia contemporanea n. 100
LE DONNE DELLA RESISTENZA, LA RESISTENZA DELLE DONNE
- Testi e contesti per capire l’8 settembre
Ogni settimana ascolto una trasmissione di Rai Radio 3 che trovo interessante. Ogni volta però mi sembra pazzesco che si intitoli ancora Uomini e profeti.
Vengono invitate a parlare anche donne, ovviamente, e i conduttori cercano di dire “uomini e donne”, ma il titolo di una trasmissione, in cui si esprimono prevalentemente persone colte e non violente, resta lì a segnalare una violenza simbolica che non viene percepita come tale e resta a segnare la persistenza del potere maschile e patriarcale sulla lingua, la storia e, di conseguenza, sull’immaginario. Immaginario degli uomini e anche delle donne, che seguono gli stessi percorsi di studi, approfondiscono gli stessi autori e qualche rara autrice, pensano e si pensano attraverso la stessa sintassi, le stesse metafore, le medesime storie, collocandosi poi necessariamente e perfino involontariamente in un posizionamento sociale più determinato di quanto magari vorrebbero.
Le profete, termine che il correttore automatico mi segnala come errore, sono molte e spesso citate nella trasmissione ma restano invisibili nell’impianto che rafforza il maschile in ben due sostantivi: “uomini” cancella la presenza delle donne, che pure ci sono nella trasmissione (anche se non quanto i maschi) e “profeti”, che rende invisibili o eccezionali (ed occasionali) le profete, appunto. Evito la parola “profetesse”, che non è mai entrata nell’uso, com’è accaduto invece a professoresse diventate familiarmente prof., perché il suffisso conserva il sapore dispregiativo di un allungamento pesante, di un’aggiunta tollerata.
Suggerisco: Donne Uomini e profezie, titolo che toglierebbe ai profeti la monumentalità, rifuggita del resto da molti, e restituirebbe visibilità a un modo di profetare, quello femminile appunto, che ha segnato la storia e le vite e di cui è stata a lungo interdetta la memoria.
Cosa c’entra con le donne della Resistenza? Il meccanismo (o dispositivo direbbe Bourdieu[1]) è lo stesso: le donne esistono, ma vengono rese invisibili come genere (cioè stabilmente più della metà della popolazione del territorio) e cancellate quando esprimono una dimensione collettiva che al massimo viene registrata come imprevista. L’organizzazione politica poi viene di solito ignorata, sottovalutata o annotata in forma ancillare, come nel caso dell’Udi e, proprio nella Resistenza, dei Gdd.[2]
I dispositivi, che sono le strutture linguistiche come i criteri storiografici, diventano funzionanti automaticamente nelle nostre vite dando forma alle relazioni quotidiane, al modo di stare nelle istituzioni, presiedono la divisione del lavoro e l’attribuzione del valore, influenzano i sentimenti perfino più delle scelte, dirigono i nostri passi, disegnano i posizionamenti dei rapporti famigliari e sociali ad ogni età e in ogni contesto e determinano i sistemi di potere e le modalità della riproduzione.
Se ne accorse un uomo di profonda onestà come Nuto Revelli quando scrisse, nell’introduzione a L’anello forte, che “anche la guerra, anche questa storia di uomini, contribuiva ad escludere, ad emarginare ancora di più la donna” e continua:
Incontravo uomini pazienti e uomini prepotenti, donne rassegnate e donne forti, ribelli, ma il risultato era quasi sempre lo stesso. L’uomo paziente concedeva la parola alla donna, ma poi non sapeva ascoltare e si rimpadroniva del discorso. L’uomo prepotente mortificava la donna, le diceva ‘Tu sta’ zitta, parlo io adesso’. Gira e rigira non riuscivo mai ad ascoltare la testimonianza un po’ completa di una donna che non fosse una vedova.
E prima ancora, ricordandole come custodi delle memorie:
Erano le donne che avevano conservato le lettere, erano le donne le mie interlocutrici più preziose. Subito mi indicavano la fotografia del congiunto caduto o disperso, custodito sul ripiano della credenza, tra le immagini delle madonne e dei santi, come su un altarino. […] Parlavano le donne de L’ultimo fronte, parlavano da protagoniste. Mi insegnavano che la guerra dei poveri non finisce mai.” [3]
Le sue storie documentano quella che Lidia Menapace ha definito “Scienza della vita quotidiana”[4], con acuta e innovativa locuzione linguistica: un salto concettuale che non ha trovato la strada per affermarsi e questo dice quanto sia ancora indagata in modo marginale, anche e soprattutto in ambienti accademici, la capacità di tenere in vita la vita, ancora oggi pratica sapiente e invisibile di donne, che viene ormai definita comunemente e genericamente “lavoro di cura”. Non a caso le giovani donne, attratte dalla scolarizzazione dentro il circuito affascinante (e manipolatorio?) dei modelli maschili (delle gerarchie certificate), tendono a svalutarne il valore vitale, in ossequio al disconoscimento economico che immette questo lavoro nel circuito strutturale dello sfruttamento gratuito o, al massimo, del lavoro subalterno poco retribuito e poco gratificato.
Mi sono convinta negli anni che non si possa capire la Resistenza, tutta, senza partire da quel tessuto di scienza della vita quotidiana che emerge di colpo e si rende visibile l’8 settembre ad opera delle donne.
Poi arriveranno o riemergeranno anche le organizzazioni, e anche per le donne: i Gruppi di difesa della donna, le ragazze della Fuci[5] e dell’Azione Cattolica, le donne dei partiti antifascisti che da tempo agiscono in clandestinità, ma il tessuto in cui s’intreccia tutta la resistenza e cresce, inaspettata, la presenza e la consapevolezza delle ragazze, è quello di una vita quotidiana in cui le donne sanno agire e scegliere. Un primo tessuto steso a riparare dalla tempesta che ha lasciato senza protezione e senza direzione l’intero paese.
L’8 settembre si espande in una manciata di giorni in cui tutto si decide. Moltissime donne si muovono subito, per prime, senza organizzazioni, senza ordinanze, provvedimenti, deliberazioni, senza indicazioni, si muovono dentro quella scienza della vita quotidiana, appunto, intrisa di conoscenze concrete in cui l’imprevisto è continuo, direi strutturale.
Gli uomini sono in fuga, il paese è allo sbando; le donne aprono le case, rivestono, rifocillano, nutrono, rincuorano, danno indicazioni, accompagnano per un tratto di strada, accolgono biglietti da recapitare, si muovono impreviste e silenziose, con prontezza e sollecitudine.
Nessuno le biasimerebbe se sprangassero le porte, se negassero aiuto, alcune forse l’hanno fatto, senza porsi problemi di coscienza, in osservanza alla religione della casa imposta alle donne da una lunga tradizione misogina rafforzata dall’ideologia fascista. Moltissime invece hanno aperto la casa, ne hanno fatto rifugio, ostello, soccorso, nascondiglio, sosta. Molte case diventeranno luogo di riunione, luogo di clandestinità politica, luogo di libertà del pensiero e tempestività dell’azione, luogo di solidarietà umana e resistenza al nazifascismo.
Nel disastro delle istituzioni, nel balbettio dei governanti, nella confusione dei comandi militari, le donne rendono visibile quella capacità di governare il territorio che ha radice nell’economia della casa, nella miriade di saperi che fanno la cura delle relazioni umane dentro la concretezza materiale delle necessità dettate dalla vita stessa e dalla sopravvivenza in guerra.
Nel segreto delle stanze vengono aperti gli armadi in cui gli abiti sulle grucce parlano di affetti lontani, abiti di padri, figli, fratelli, mariti che forse non torneranno più, custoditi gelosamente, rivestono generosamente uomini sconosciuti. La spoliazione della divisa militare per indossare abiti civili è il rito di un dono che stabilisce una parentela sociale dentro i gesti della cura. Una parentela che ignora la diffidenza del familismo e il nazionalismo dei confini. Sono le donne che dimostrano il fallimento, prima di tutto emozionale, di vent’anni di educazione fascista.
Un rito officiato da migliaia di donne di ogni età e condizione, singolarmente e insieme, a ricordare il fondamento di ogni vita civile che è prima di tutto accoglienza.
Le donne fanno della casa in cui sono state confinate il primo territorio di un’azione libera che rende visibile un mondo in cui l’imperativo è sempre quello di salvare vite.
Nelle case si celebra sommessamente la trasformazione: i militari ridiventano semplicemente uomini, ragazzi, restituiti alla responsabilità della scelta che è il fondamento di ogni civiltà libera. Scrive Teresa Vergalli, riferendosi ai militari stranieri che l’8 settembre scappano dal carcere militare di Montechiarugolo in territorio parmense:
Abbiamo offerto qualcosa da mangiare, qualche indumento non militare, indicazioni a gesti. Poi abbiamo preso gli atlanti scolastici che avevamo in casa e gli abbiamo mostrato che a sud c’erano le montagne, vicine e ben visibili, adatte a nascondersi e a rendere ipotizzabile un incontro con le truppe alleate che stavano salendo. Impossibile? Forse. Ma in quella fine estate e inizio autunno molte cose impossibili sono diventate possibili.
I nostri ex prigionieri stranieri sono in effetti arrivati in montagna, ma gli Alleati erano ancora troppo lontani, non avanzavano quanto avremmo voluto. E così quei soldati, insieme ad altri gruppi di stranieri provenienti da paesini della Bassa padana, si sono fermati sul nostro appennino e sono diventati partigiani.[6]
Queste donne esprimono una cultura più antica di ogni retorica di regime e aprono una cesura nel tempo che l’armistizio costringe dentro una data: per molti uomini diventa il tempo per salvarsi, il tempo per nascondersi, il tempo per decidere di sé, il tempo per scegliere da che parte stare. Il tempo che deciderà il futuro del paese. Per le donne è una scelta di libertà che tutte ricorderanno con gioia nonostante le fatiche e le ferite, il dolore per le compagne e i compagni uccisi, la consapevolezza di aver ucciso, direttamente o indirettamente, perché la guerra è solo questo: uccidere o essere uccisi.
Per questo la Resistenza anche armata, anche agita da militari in divisa, non appartiene alla cultura del mondo militare ma è un fenomeno, un evento, politico e della politica ha la complessità, la sfaccettatura delle storie e dei percorsi, delle motivazioni come delle mutazioni.
La parola stessa “resistenza” esprime del resto l’opposizione alla guerra agita in tutte le forme possibili, con armi e senza armi, che non ha bisogno di aggettivi se non per raccontare la miriade di singoli contesti in cui donne e uomini agiscono. E finalmente è caduto in disuso l’aggettivo “passiva” applicato alla resistenza di chi non usa armi (ma le trasporta), di chi testimonia la propria opposizione in lager, di chi porta messaggi, di chi dissimula, imbroglia, manipola, nasconde, per salvare vite, territori, fabbriche, aziende, raccolti.
Non fu passiva la resistenza degli Internati militari italiani nei campi di concentramento tedeschi e non lo fu certamente quella delle donne. Da molti anni si usa l’aggettivo “civile”[7] per la resistenza senza armi, ma in realtà tutta la resistenza fu civile perché aspirava a una nuova civiltà delle relazioni tra persone e tra nazioni.
La stessa grande letteratura resistenziale dei partigiani racconterà una complessità di pensieri e sentimenti, anche per le azioni armate e per il modo di muoversi sul terreno di una guerra che combattono perché finisca, complessità che sarà spesso mortificata dalla retorica dell’eroe guerresco offerta alla vulgata popolare, quasi a risarcimento di una virilità che nel dopoguerra non sa ricollocarsi senza ripetere schemi tradizionali. Ma questo accadrà dopo, quando si tornerà all’ordine iniquo, ai tradimenti, perché la strada della democrazia è appena cominciata.
Le donne hanno vissuto e sono cresciute dentro molte esclusioni, quindi non hanno obblighi, non sono chiamate a responsabilità, eppure agiscono, decidono, scelgono. Ancora non sappiamo tradurre in parole quel silenzio fattivo che ha fatto delle case i primi luoghi di liberazione.
Ci saranno poi i venti lunghi mesi della Resistenza, ma se cerchiamo i luoghi in cui è nata la nostra democrazia dobbiamo cominciare immaginando anche ogni casa in cui si è decisa la sorte di un uomo l’8 settembre 1943.
Se guardiamo il modo in cui si muovono molte donne in quella manciata di giorni potremmo definirlo “profetico”, il loro modo di muoversi infatti prefigura lo svilupparsi di una Resistenza che sembrerà sorprendente dopo vent’anni di fascismo, introducono piccoli semi di speranza nel terreno devastato di un’incertezza amara, danno il conforto che consente di governare la paura legittimandola come sentimento umano e necessario per ritrovare la determinazione e agire.
Non è azione di tutte, ma certamente di una moltitudine che non è stata mai pienamente raccontata. A me sembra che la narrazione di quell’inizio sia ancora approssimata per difetto e non avere “le parole per dirlo”[8]sarà poi per molte la strada di un ritorno all’ordine subìto con amarezza non solo da parte delle protagoniste ma anche di tutte le donne cosiddette comuni che, anche solo attraverso la crescita di un sentimento antifascista, ridefinivano gli invisibili confini delle loro vite.
Non è stata raccontata in modo adeguato in una storia che registri davvero l’esistenza di donne e uomini e ne sappia vedere tutte le implicazioni, nei silenzi come nelle azioni, una storia che muti i criteri di lettura della realtà e, rendendo visibile ciò che ancora non vediamo del passato, riesca a illuminare il presente.
Lidia Menapace contestava ad Anna Bravo[9], della quale aveva grande stima, l’uso del termine “maternage” per indicare quello che poi Anna stessa aveva definito il più grande salvataggio di un esercito realizzato in forma diffusa e senza eseguire ordini. “Sono d’accordo su tutto ma non sul termine maternage”, sosteneva Lidia “perché si riferisce a un’attitudine tradizionale e subalterna di cura alla quale le donne erano educate fin da bambine e invece le donne fecero una scelta, immediata ma consapevole del significato e dei rischi”.
Ho pensato a lungo le diverse posizioni di due donne di preparazione e intelligenza non comune: rivaluterei oggi anche il maternage come attitudine riconosciuta e storicamente radicata nella vita delle donne, restituendo alla matrice materna della relazione, dentro cui siamo nate e nati, quella possibilità-capacità di generare una cultura della cura che può contrastare in modo nonviolento ogni guerra. L’unica cultura in grado di generare una democrazia che non dimentichi la giustizia e l’equità.
Non è qualcosa che riguarda un futuro utopico, ma è accaduto nei fatti, lungo i millenni della storia umana che impropriamente definiamo preistoria[10] e ne conserviamo memoria nei gesti nonostante le cancellazioni delle accademie e il controllo delle leggi: una cultura della vita che vediamo riemergere dentro e dopo le guerre come accadde l’8 settembre 1943 appunto.
L’agire delle donne è una sorta di profezia diffusa e incoraggiante, senza altari o piedestalli, senza gerarchie o devozioni, che non ci saranno nemmeno dopo, quando la continuità dello Stato sessista costringerà alla lotta per costruire una democrazia reale, per cancellare quelle leggi inique contro le donne che avevano segnato lo Stato unitario fin dalla sua nascita, peggiorate poi dal fascismo con discriminazioni, interdizioni e leggi razziste. Le donne non sono una massa amorfa e compatta, sono individualità diverse e fanno scelte diverse ma tutte si misurano con la misoginia, i suoi esiti politici e i suoi effetti nella vita quotidiana: nel ’43 la maggioranza è certamente stanca della guerra e spaventata da ciò che accade, ma basta l’imprevisto di un governo che manda l’esercito allo sbando perché queste donne si muovano dimostrando che le case non sono solo il luogo segregato di un privato deprivato di storia, ma parte integrante e viva del tessuto sociale dove emergono i primi legami di una solidarietà umana che si farà, sempre più e in un tempo brevissimo, politica.
Nelle case della resistenza le donne organizzarono la sopravvivenza quotidiana, il sostegno alle bande partigiane, la diffusione della stampa clandestina, i piani di fuga dai campi fascisti per i prigionieri: nelle case dove le donne governavano i rapporti di vicinato, lo scambio solidale, crescevano bambini e bambine insieme al desiderio di pace e libertà.
Nelle case contadine dove le donne, insieme ad anziane e anziani, bambini e bambine, hanno tenuto in piedi l’agricoltura e la sopravvivenza della comunità, costituendo presidi di nuova civiltà al tempo del terrore nazifascista.
Negli appartamenti di città dove le donne partecipavano a riunioni clandestine e ne organizzavano la possibilità materiale predisponendo letti, cibo, rifugi, camuffamenti salvifici.
Nelle case sono state prese le decisioni, dalle case sono spesso partite le rivolte organizzate dalle donne nel passaparola del vicinato.
Nelle case le madri hanno sostenuto le figlie e le loro libere scelte, le nonne hanno approvato il coraggio delle nipoti in un passaparola che ha consentito la trasmissione di quel sapere politico che si è fatto e ancora si fa liberazione delle vite.
Nelle case donne e uomini, ragazze e ragazzi, si sono scoperti pari nelle responsabilità e vicini negli ideali. Nelle case le donne hanno sostenuto donne e uomini.
Nelle case gli uomini sono stati accuditi, ascoltati, sostenuti, curati, hanno trovato nelle donne compagne di strada, dirigenti politiche, capitane di brigata.
Molte case diventeranno i nodi di una rete di percorsi clandestini tra città e montagna, tra la pianura e la fuga, tra la lotta e il riparo. Dalle case usciranno le donne in bicicletta, staffette instancabili che tracceranno la mappa di una resistenza a cui garantivano armi, esplosivi, informazioni, ma anche protezione, cibo e abiti puliti.
Nel corso di quei venti mesi terribili le case saranno devastate dalle delazioni, svuotate da chi organizzava stragi, bruciate per ritorsione perché rappresentavano la base sicura per le bande partigiane. Le case si sono riempite del dolore per gli uomini uccisi, per le donne uccise: figli e figlie, mariti e mogli, padri e madri, sorelle e fratelli. Anche bambine e bambini.
Il rischio, la tortura, la morte hanno riguardato uomini e donne, senza riguardo, ma gli uomini erano chiamati a scegliere, le donne hanno scelto senza chiamata.
Le case sono state la rete di resistenza clandestina in cui le donne hanno reso visibile la concretezza dell’intelligenza politica, la lungimiranza dell’umanità, la solidarietà che costruisce società civile.
E quando tutto è finito nelle case sono tornati i reduci dai campi di prigionia e gli uomini segnati dalla guerra, le donne e gli uomini sopravvissuti ai campi di sterminio, nelle case si è cominciata la ricostruzione materiale e morale. E sempre a fare casa c’erano le donne, capaci di fare casa per tutti, anche per se stesse, capaci di scegliere solitudini attive e dignitose invece di piegarsi a quelle consuetudini mortificanti in cui si tornava a infilare la vita come se nulla fosse accaduto.
- Le parole per dirlo
Che si tratti comunque di qualcosa che va oltre il maternage e che si tratti di “imprevisto” solo nel senso dei tanti imprevisti della storia e non perché opera di donne, lo dicono i fatti precedenti.
Le donne sono molto presenti nei grandi scioperi operai, dalla Mirafiori alla Pirelli alla Falck alla Borletti. In primavera scendono in piazza a migliaia, organizzano cortei, a Torino riescono a far fuggire le compagne arrestate dai carabinieri. Tremila sono le scioperanti della Venchi Unica: lavoratrici che non hanno alcun collegamento col fronte antifascista. Ma non sono solo le fabbriche ad aprire un fronte di lotta. In molte città (Ancona, Milano, Torino) centinaia di donne manifestano contro la guerra e la fame. A Torino gli scioperi sono preceduti dalla manifestazione dell’8 marzo, preparata clandestinamente dai partiti antifascisti”, (quindi dalle donne dei partiti antifascisti!) possiamo leggere nell’utilissimo libro sul Novecento delle italiane[11] in cui si confrontano le vicende delle donne con la cronologia della storia “da manuale”, pagina destra con/contro pagina sinistra. Mi capita spesso di ricorrere a questo libro perché a vent’anni dalla sua pubblicazione non è ancora entrato nella biblioteca fondamentale delle/degli insegnanti (e non solo di storia), mancando quindi come base generativa di domande nella preparazione e nella consapevolezza delle generazioni di studenti che nella scuola sono cresciute e abitano il presente.
Il libro ripassa solo il Novecento, ma si tratta di un’operazione che andrebbe fatta per tutta la storia utilizzandolo come metodo a scuola e dimostra che in circostanze eccezionali e inedite, come fu per molti aspetti la Seconda guerra mondiale, le donne entrano in scena da protagoniste, ma che non si tratta certamente della prima volta. C’è una continuità nella storia delle donne, una trasmissione di memoria in forme ancora non esplorate e quindi inedite, anche una continuità di storia politica invisibile solo perché ridotta a frammento.
Dispiace che questo stereotipo della prima volta venga ripreso nel libro sulla Resistenza di Benedetta Tobagi[12], anche se in un breve passaggio che vuole certamente rendere omaggio a quelle nostre antenate.
Un libro accattivante per lo stile di sicura competenza letteraria, la scrittura incalzante e la ricchezza di citazioni che, insieme alla notorietà dell’autrice e della casa editrice, lo rendono facilmente divulgativo.
Un collage di storie, testimonianze, fotografie cucito con l’innegabile maestria della scrittura sembra però offuscare nel trascinamento letterario proprio quello che vuol far risaltare: avrei preferito le sobrie note con indicazione di data e fonte sotto le fotografie, magari insieme alla narrazione-interpretazione con cui sono accompagnate, (anche se con risultati talvolta discutibili) e avrei apprezzato le note in fondo alla pagina per le tante citazioni invece dei riferimenti alle fonti bibliografiche tutte insieme in caratteri minuti in fondo al libro. Sarebbe stato utile anche l’elenco dei nomi citati, alla fine, perché sono proprio i nomi ad essere stati dimenticati e l’elenco poteva essere un invito a completarlo con le tante storie ancora nascoste o rimosse, farne un invito alla memorabilità generativa.
Non ho una passione per le note e per certa puntigliosità accademica che le richiede, ma in questo caso si tratta di rendere visibile ciò che ancora è invisibile e quindi ininfluente, si tratta dei racconti fatti in prima persona da protagoniste tra le quali alcune erano, per nostra fortuna, anche straordinarie scrittrici come Giovanna Zangrandi (pseudonimo di Alma Bevilacqua)[13] o Ida D’Este[14] e comunque non sono da meno per intensità i racconti orali raccolti e trascritti con profondo rispetto e commossa partecipazione da Bianca Guidetti Serra.[15]
In un libro che punta sulla forza della scrittura mi sarebbe piaciuto che i libri scritti dalle donne, dalle protagoniste della Resistenza, fossero visibili come lampeggianti insegne al neon che invogliano all’acquisto e non come le tante fiammelle di un cimitero che ci incanta nella visione a distanza.
So che i libri sono prodotti dell’industria culturale e si muovono (o restano fermi) nel mercato editoriale, inoltre in Italia si legge poco, come ci informano le statistiche, ma mi piacerebbe che in qualche modo i libri sulla Resistenza delle donne si muovessero insieme, rendendo visibile la ricchezza di una collettività in cui possiamo riconoscere le singolarità personali come scoperta continua e in continuità con quell’esistere straordinario della lotta che vogliamo ricordare, cioè tenere nel cuore, che è l’unico modo per tenere nella mente.
Vorrei intanto che non fosse oscurato e di nuovo dimenticato il lavoro di Mirella Alloisio e Giuliana Beltrami Gadola, Le volontarie della libertà[16], pubblicato nel 1981 e ripubblicato proprio l’anno scorso (come quello di cui sopra), in cui le autrici hanno ricostruito la presenza delle donne regione per regione, provincia per provincia, con una difficoltà che conosce solo chi sa quanto sia stato arduo fondare gli archivi delle donne salvando le carte che andavano disperdendosi e raccogliendo testimonianze di protagoniste che stavano inesorabilmente invecchiando. Libro prezioso proprio per la geografia degli eventi e delle presenze in una guerra che si spalmò in tempi e modi diversi sul paese.
Libro che, insieme a Mille volte no[17], ripubblicato nel 1975 come regalo per le abbonate al giornale “Noi Donne”, La Resistenza taciuta[18] di Annamaria Bruzzone e Rachele Farina, del 1976, e Compagne di Bianca Guidetti Serra, del 1977, rappresentò per noi, giovani di allora, affamate di conoscenza, l’apertura di una nuova stagione storiografica: avevamo grandi speranze che si sedimentasse finalmente un’informazione completa e corretta prima di tutto nell’insegnamento scolastico e cominciavamo a ritrovare e custodire carte, costituire archivi, cercare testimonianze con un’attività spesso solitaria che non sentivamo del tutto sostenuta e compresa neppure dalla nuova collettività che si affacciava alla storia con il movimento delle donne, in cui il femminismo (rinato e riemerso) faceva lievitare inedite prospettive e nuove lotte.
In questo libro, che mi emoziona ancora come la prima volta, ho incontrato le donne di Bergamo che solo più tardi cominceranno ad essere ricordate e citate. In questo libro si ricorda che a Bergamo, già il 4 novembre 1943 ci fu un episodio importante ad opera di un gruppo di donne e studenti che, per manifestare odio ai tedeschi e alla guerra, portarono fiori alla lapide dei caduti della Prima guerra mondiale (combattuta “contro” i tedeschi); trovandola presidiata da poliziotti armati fino ai denti, gettarono i fiori al monumento passando sopra le loro teste. La cosa fece molto scalpore.[19]
Di questo scalpore si perderanno a lungo le tracce, diventerà un episodio sbiadito e poi irrilevante nelle narrazioni che mettono in primo piano gli uomini armati che la resistenza la fanno davvero.
Così accadrà ovunque quello che scrive Alba de Cespedes nel romanzo Dalla parte di lei, in cui fotografa il dopoguerra delle donne in alcuni passaggi folgoranti di una storia coniugale molto comune:
Anche con i compagni, ormai, non trovavamo più nulla da dirci: l’amicizia che fingevamo era fittizia: in realtà essi erano tornati ad essere gli amici di Francesco. Infatti, quando conducevano con loro un nuovo amico o compagno me lo presentavano dicendo brevemente ‘la signora Minelli’ e già, trascinandolo pel braccio mentre costui avrebbe voluto indugiarsi in qualche frase di convenienza, lo presentavano a Francesco con una voce del tutto diversa. Poi illustravano le ormai famose avventure di mio marito.
Io ero contenta che non accennassero alle modeste missioni che io avevo compiuto: poiché, per me, esse possedevano un valore assolutamente personale e mi infastidiva che altri ne disponesse liberamente. Tuttavia, mi veniva fatto di sospettare che le bombe che avevo portato io fossero false: se solamente quelle che gli uomini avevano portato rappresentavano un pericolo; dubitavo del contenuto dei manifesti […] Ma, se anche fossero stati falsi, ciò non avrebbe avuto alcuna importanza; io li avevo portati con la stessa paura, avevo ugualmente accettato di correre quel rischio. E ora tutti eravamo qui, tutti ugualmente salvi, tutti scampati.[20]
Non è vero che le donne non parlano, non raccontano, non scrivono, semmai è il contrario, ma se parlano non sono ascoltate, le scritture sono relegate a “minori” come se fossero semplici trascrizioni di testimonianze e non elaborazioni spesso anche di altissimo valore letterario per la capacità di trovare parole metafore sintassi che rendono viva per chi legge la specificità di un’esperienza straordinaria.
Ricordo che anni fa, quando tornai da Velia Sacchi per decidere come procedere, dopo che le avevo consegnato la prima bozza trascritta e corretta della sua testimonianza, mi disse: “Non se ne fa niente, l’ho fatta leggere a Sergio e mi ha detto che sono tutte fregnacce, cose di donne, niente di importante”, eppure Sergio Marturano, il suo compagno, l’amava come donna e la stimava come artista. Ne parlammo un intero pomeriggio, e lo ricordo bene, perché alla fine fu grazie alla sua scelta di fiducia nei miei confronti che decise di dare l’assenso alla prosecuzione del lavoro per la realizzazione del libro.[21] Fu la scelta di una femminista di fidarsi di una femminista, più che del compagno di una vita, e di questo le sarò sempre grata perché mi sosteneva su una strada che ancora percorro.
Alba de Céspedes, indimenticabile voce di Radio Bari, col nome di Clorinda, che aveva in qualche modo prefigurato nella storia delle otto ragazze protagoniste del romanzo Nessuno torna indietro[22] le inquietudini della generazione che avrebbe scelto la Resistenza, registra nel romanzo del dopoguerra la condizione delle donne che devono ricominciare a lottare solo per “esistere come donne”.[23]
La guerra, ogni guerra, acuisce aggrava e rilancia quella “guerra alle donne”[24] che percorre la storia della formazione degli Stati nazionali in Europa e del colonialismo europeo nel mondo, attraversa in modo strutturale le guerre del Novecento e ancora semina violenza e morte in ogni tempo di pace.
Sono i libri mancati e che ancora mancano nei programmi scolastici, aggiunti talvolta per scelta individuale dell’insegnante, nonostante gli studi critici abbiano messo in luce da anni l’inconsistenza di un canone letterario costituito di soli uomini con l’aggiunta qua e là di qualche eccezione femminile. Sono i libri mancati a molte generazioni di ragazze e ragazzi, oggi genitori, lavoratrici e lavoratori, professioniste/i, dirigenti, con incarichi e responsabilità istituzionali, nella formazione della coscienza di sé che è prima di tutto consapevolezza del limite, della differenza, dell’alterità, di essere maschi e femmine che scoprono pensano provano come diventare donne e uomini mettendo insieme i tanti fili delle storie che costituiscono il passato in cui abbiamo preso forma venendo al mondo.
- Equivoci, lapsus, deformazioni, sintomi
La storia si può raccontare solo di guerra in guerra?
Scriveva Anna Bravo, dieci anni fa:
Gli studi delle donne hanno spezzato le angustie monosessuali del racconto storico. Eppure guerra e violenza restano egemoni su vari piani, a cominciare dai termini con cui si classificano le fasi. Eleggere le guerre a spartiacque è un’operazione verosimile; lo sono ancora. Ma mutila la storia.”[25]
Sono diventata una ri-lettrice e mi capita sempre più spesso di ripercorrere le riflessioni di Anna Bravo che, all’inizio del suo libro, non manca di citare la frase di Lidia Menapace ripetuta in mille occasioni: “se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari non arriva alla fine della prima frase.”[26]
Unendo le competenze linguistiche alla convinta ammirazione del pensiero politico antimilitarista di Rosa Luxemburg, Lidia ha proposto per anni, e fino alla fine, di smilitarizzare il linguaggio e in particolare quello politico; una riforma a costo zero e praticabile da chiunque che, dismettendo l’uso delle metafore belliche a favore di un tessuto linguistico quotidiano e civile, può avviare un mutamento culturale collettivo e potente, capace di incidere anche sulle dissennate e devastanti scelte politiche dei governi.
Rinasce invece oggi il linguaggio bellico, adottato anche da molte donne, che considerano un merito essere una guerriera. Il termine è diventato elogio per le vittorie in campo sportivo o per qualsiasi impegno e meta raggiunta. Fa parte stabilmente di un intero pacchetto di metafore belliche con le quali si racconta la malattia, la cura, i ruoli sanitari e l’organizzazione ospedaliera. Il cancro si combatte da guerriera e si vince armi in pugno. Le crocerossine, che pure sono organizzate in forma militare, come osservava la pacifista Bertha von Suttner, che per questo non riteneva degno del Nobel per la pace il fondatore della Croce Rossa, sono oggetto di disprezzo come se salvare vite e curare feriti fosse una forma di debolezza incline al pietismo (e comunque il pietismo fa meno danni del militarismo). Un disprezzo che non si fonda ovviamente su nessuna conoscenza storica se teniamo conto dell’attività delle crocerossine, anche solo nella Prima guerra mondiale, ma deforma l’immaginario a favore della guerra che gonfia le parole di chi non ne conosce la realtà distruttiva.
Le generazioni più giovani sembrano cadere nella trappola che divise il femminismo italiano all’inizio del Novecento, in occasione della guerra di Libia, proprio sul disprezzo delle giovani per il pacifismo delle vecchie e sappiamo dove ha portato l’esaltazione della guerra come igiene del mondo. Cede al fascino della “parola armata” un libro documentato e appassionante sulle grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione[27], in cui si parla di donne attive con straordinaria capacità di scrittura e non di armi certamente. Si dimentica che le partigiane, anche quando presero le armi e spararono e uccisero, lo fecero con un pensiero disarmato, con propositi disarmanti. Basta leggere Carla Capponi o perfino Elsa Oliva, Gina Borellini o Teresa Mattei, solo per fare qualche nome[28]. Nessuna esaltò le armi e il bel gesto dell’eroe che uccide o viene ucciso, non lo fecero nemmeno gli uomini, come possiamo leggere nelle tante testimonianze perché nessuno prese le armi e sparò e mise bombe e uccise a cuor leggero.
Si trovarono dentro una guerra e ognuno fece quello che sapeva e si sentiva di fare: donne e uomini. La guerra è una forma di delinquenza, ricordava Velia Sacchi, e induce a delinquere, tira fuori il peggio delle persone. Nella Resistenza uomini e donne cercarono, nelle condizioni che abbiamo imparato a conoscere, di tirar fuori il meglio, di preparare un futuro di libertà e giustizia. Sono proprio gli uomini anzi a scoprire, nella durezza della guerra, il valore dei gesti di cura, la solidarietà tra compagni e a praticare quelle virtù quotidiane che tengono in vita e ne fanno le più autentiche virtù eroiche, come ricorda Todorov[29].
Le parole non sono armi, possono fare molto male ma non uccidono e non feriscono, sono strumenti utilizzabili in moltissimi modi, sono fondamenti della cultura, del modo stesso di esistere della specie umana, invece le armi, tutte le armi, hanno solo due funzioni: uccidere o restare inutilizzate come investimenti che occupano spazi e risorse, pronte a ridiventare redditizie nelle guerre, nell’azione di uccidere. Chi ha dovuto combattere davvero, in una guerra che non aveva voluto, conosceva bene la differenza tra l’enfasi guerresca del regime fascista e la realtà di una guerra atroce in cui si trovava a combattere.
Le parole però possono convincere, incoraggiare, trascinare, manipolare, indurre, forzare, obbligare: non devono essere utilizzate a caso e le metafore non sono mai neutre.
Anche per questo sono rimasta disorientata, e non sono la sola, leggendo nella bella e affettuosa prefazione di Dacia Maraini a un’importante raccolta di saggi[30] di Lidia Menapace che “ha imbracciato il fucile”. Uno scivolone certamente visto che cita l’autobiografia in cui Lidia racconta, col solito piglio ironico e antieroico, che non ha voluto una pistola perché aveva paura di spararsi addosso ed era certa di non voler sparare a nessuno, accettando però di portare l’esplosivo per far saltare i ponti. Maturò poi, anche dentro quella scelta, la posizione pacifista e antimilitarista che l’ha caratterizzata per tutta la vita.
Lei, in pubblico, forse avrebbe fatto una risata, accompagnandola con una delle sue battute argute specificando, come non si stancava di ripetere, che la Resistenza è stata politica e civile, anche armata, ma non militare, aggiungendo, per qualcuno più ottuso, che la differenza tra un movimento armato e un esercito sta nelle scelte individuali, che rendono molto diverso anche il gesto di prendere le armi se fatto liberamente secondo coscienza o in obbedienza alla gerarchia militare, sotto la minaccia dell’ordinamento militare.
L’immagine dell’imbracciare un fucile fissa però, in un gesto tipico della retorica militarista eroica, la narrazione di uno straordinario movimento in cui anche prendere un’arma fu l’esito di un percorso mai scontato (e molto più per le donne che per gli uomini) come ci raccontano le numerosissime testimonianze di chi ha vissuto quella stagione. Si tratta dell’inquinamento mentale prodotto dall’assuefazione sociale al linguaggio bellico, avrebbe detto Lidia, e senza renderci conto scivoliamo dalla responsabilità di resistere ai soprusi e alla violenza alla legittimazione della guerra.
Avremmo riso insieme, come abbiamo fatto tante volte, sull’immagine di lei che “imbraccia” il fucile, “magari più alto di me” avrebbe detto e poi avrebbe forse imbastito un raccontino ironico e antieroico come quello di Resisté[31] sul “diploma” firmato dal generale Alexander, che l’aveva congedata con il grado di sottotenente “anche se io non mi ero mai arruolata” precisava, per sottolineare l’involontaria stupidità del sistema militare anche con le migliori intenzioni. Ho imparato da lei a passare oltre e occuparmi di ciò che davvero conta, ma lei non c’è più e prima o poi dovrò affrontare (non solo per la profonda amicizia che ci legava) le sviste e imprecisioni, più o meno clamorose, che la riguardano (non solo nel testo citato) perché toccano scelte politiche e convinzioni profonde.
- Una provocazione
Durante la pandemia, a dicembre 2020, ho tenuto un incontro on-line sul tema delle donne nella storia della Repubblica italiana. Ho cominciato dicendo che sarei partita leggendo un articolo apparso il 4 giugno 1946 sulla prima pagina di un giornale di sinistra a Bergamo.
Titolo a caratteri cubitali: La Repubblica è donna!
Testo: Come nell’immagine simbolica dell’Italia con la corona di torri in testa oggi possiamo dire che davvero la Repubblica è finalmente anche donna.
Tra le elette alla Costituente nomi di spicco della Resistenza: Gisella Floreanini, già ministro nella Repubblica dell’Ossola, Ada Gobetti, Mirella Alloisio, Elvira Berrini Pajetta, Bianca Guidetti Serra, Marcella Balconi, Giuliana Beltrami Gadola, Rachele Farina, Marisa Rodano, Marisa Musu, Carla Capponi, Giovanna Marturano, Laura Lombardo Radice, Angela Caffaratto (Lina Colajanni), Gina Borellini, Laura Polizzi (Mirka), Alba De Céspedes (Clorinda di Radio Bari), Teresa Vergalli, Lina Tridenti, Maria Antonietta Moro, Maria Maddalena Rossi, Julia Banfi, Teresa Noce, Angelina Merlin, Nella Baroncini, Elsa Oliva, Maria Martini, Bruna Carazzolo, Francesca Meneghin, Tina Merlin e poi tra le sopravvissute tornate dai campi di sterminio tedeschi: Ondina Peteani, Luciana Nissim, Liana Millu, Frida Misul, Giuliana Fiorentino Tedeschi, Lidia Rolfi Beccaria.
Perfino a Bergamo vengono elette Mimma Quarti, Velia Sacchi, Emma Coggiola, Frida Ballini, Lina Dasso, la giovanissima Angelica Casile detta Cocca, insieme alle moltissime cattoliche capeggiate da Betty Ambiveri. (Elenco completo in terza pagina).
Questa elezione è anche il frutto del riconoscimento dei partigiani, i ragazzi, gli uomini che non hanno dimenticato quanto e come le donne sono state fondamentali per la Resistenza e ancora cercano casa per casa quelle donne che li hanno accolti, rivestiti, nascosti, che hanno condiviso con loro il pane e il rischio della morte, le cercano per scrivere i nomi e non lasciare che la clandestinità della lotta diventi rimozione delle vite.
Ancora si lavora nei comitati di accoglienza per le donne e gli uomini che tornano dai campi di sterminio e dai campi di prigionia.
Quasi duecento donne elette su 556, ma arriveremo alla metà con le prossime elezioni hanno affermato insieme Teresa Noce, Maria Federici, Lina Merlin e Ada Gobetti, esponenti di spicco dei maggiori partiti antifascisti, che hanno aggiunto: ‘Le donne e gli uomini dell’Italia libera repubblicana e antifascista dichiarano solennemente …, questo sarà l’incipit della nostra Costituzione’.”
Si tratta ovviamente di un falso, perfino frettolosamente confezionato per la serata con i primi nomi che mi sono venuti in mente, sapendo che molte donne tornate dai campi non hanno nemmeno potuto votare, senza mettere i nomi in ordine alfabetico come sarebbe giusto, omettendo volutamente alcune delle pochissime realmente elette. Un testo con molti difetti, che mi serviva però per cominciare la storia della Repubblica con una provocazione e infatti non sono mancate le reazioni. Perché non è andata così, ovviamente, ma quella che viene considerata l’ovvietà dell’accadimento storico non è solo un’ingiustizia profonda che ha segnato negativamente la nascita stessa della democrazia, ma segnala la lunga durata di uno Stato-nazione nato contro le donne.
Purtroppo, infatti andò diversamente, il falso articolo fa sorridere per la normalità del dopoguerra che ha ripristinato ogni ingiustizia, perfino raccontando il voto come concessione alle donne e non come voto delle donne che hanno gli stessi diritti originari degli uomini, ricordando che per il voto si mossero da Palermo a Bergamo, come dicono i documenti di varie iniziative e la nascita di un Comitato pro-voto ad opera delle donne dei partiti del Cln già nel 1944, nella Roma liberata.[32]
“Non parlo per me, ma una Corinaldi, una Bianca Guidetti Serra avrebbero dovuto essere perlomeno deputate. Tanto più che sono convinta che, se ci fosse bisogno di nuovo le donne antifasciste si impegnerebbero ancora con tutte le loro forze” commenta Albina Caviglione Lusso[33] nella sua testimonianza.
Ricorda l’ingiustizia con linguaggio sobrio ed efficace proprio Bianca Guidetti Serra scrivendo, a proposito delle donne intervistate che hanno accettato di raccontare per la prima volta la loro esperienza partigiana:
Nessuna ha ricoperto cariche politiche di rilievo, né all’interno delle rispettive organizzazioni né negli affari pubblici.
Nessuna ha tratto vantaggi economici o qualsiasi altro tipo di remunerazione.
Vivono tutte, anche questo è da segnalare, modestamente seppure con estremo decoro. Le loro abitazioni, linde e curate, talvolta consistenti in una camera o due affacciantesi su un vecchio balcone comune, sono anch’esse, per la loro uniformità, il simbolo di una scelta di vita. Solo alcune di loro hanno raggiunto una certa agiatezza, così come qualche altra è al limite dell’indigenza. […] Nessuna si è lamentata della sua situazione economica. Se mai esiste rammarico, è dovuto ad una sorta di silenzio che grava loro intorno.”[34]
Potrei scrivere le stesse parole ricordando l’incontro con Lavinia Guastalla[35] negli anni Ottanta, in un modesto appartamento di un quartiere popolare di Bergamo. Ormai anziana, viveva di una piccola pensione e negli ultimi anni di lavoro aveva fatto la domestica. Velia Sacchi la ricordava bellissima e bravissima, appassionata trascinante oratrice che suscitava le invidie maschili per le sue doti, con gli inevitabili commenti malevoli.
Le donne della Resistenza restano lucide e dignitose fino alla fine. Tanti anni fa ci siamo interrogate sulla modestia, se non avesse pesato sulla loro stessa capacità di farsi avanti come ingombrante residuo di un’educazione che ha imposto alle donne le virtù che potevano dare spazio agli uomini, ma non era così, in realtà le donne che si esponevano e lottavano per le proprie convinzioni venivano tacciate di cattivo carattere, lo fecero con Teresa Noce e lo fecero anche a Bergamo con Lavinia Guastalla.
Da anni le donne si presentano sicure di sé, talvolta perfino con arroganza, ma il risultato non cambia: modeste o sfrontate restano incastrate nell’oggettività dei dati che raccontano una parità politica ancora molto lontana, per non parlare di quella sociale.
Nella Resistenza cresce e si rende visibile uno straordinario ceto politico femminile antifascista che sarà spesso emarginato, con uno spreco d’intelligenza preparazione acume e onestà i cui esiti ancora ci riguardano. Un ceto politico di vario orientamento ideale che troverà in tutti i partiti più ostacoli che incoraggiamenti, dovrà passare da spiragli più che da porte spalancate. Questa è la storia del dopo che va oltre l’argomento di queste riflessioni e riguarda tutti gli ottant’anni che hanno determinato il nostro presente.
Storie diverse per origini familiari, formazione politica, scolarizzazione, reddito e lavoro, unite dall’esperienza della lotta antifascista, cioè dall’essere state donne dentro quell’esperienza in cui hanno misurato le proprie capacità e cresciuto le proprie convinzioni: sono le donne che, di fatto e per moltissimi aspetti, hanno generato un proprio programma democratico autonomo e indipendente anche da quello dei partiti di appartenenza. Un programma non scritto esplicitamente, ma visibile oggi per noi nelle tappe delle leggi che hanno cambiato il paese e in quei legami mantenuti al di là e al di sopra di ogni divisione partitica che ancora non sono stati raccontati e di cui abbiamo i frammenti nelle memorie o negli atti parlamentari.
Una storia straordinaria che le protagoniste considerano ordinaria ed è questo il salto politico che non riescono a comprendere gli uomini, che siano storici o compagni di brigata, mariti, amanti, parenti, docenti.
Sono le donne che si occuperanno degli stupri di guerra, operati anche dai soldati dell’esercito alleato che risaliva la penisola e che in certe zone fu un fenomeno di massa, denunciando la vergognosa omertà delle istituzioni, le donne che organizzarono il salvataggio di migliaia di bambini e bambine dalla povertà e dalla fame subito dopo la liberazione, ma sono anche le donne che nelle famiglie, come dopo ogni guerra, si fanno carico del dolore degli uomini, sono le confidenti che non hanno bisogno di parole per capire, le custodi di una debolezza che la società non accoglie perché lesiva dell’identità maschile forte ed eroica. Le donne ascoltano, accolgono e proteggono dall’arroganza.
Delusione e insieme nostalgia per un tempo in cui hanno agito in libertà nei mesi in cui lo stato di diritto era sospeso: sono i sentimenti che nel dopoguerra si mescolano e potenziano l’energia necessaria a costruire la democrazia sognata e usare quel diritto di voto, a lungo negato, finalmente a favore delle donne e quindi di tutti. La disparità della rappresentanza finirà col riprodurre la solita pratica della cooptazione mortificando le possibilità della democrazia, favorendo una parità imitativa e spesso subalterna più che la creatività di quelle nuove soggettività politiche che erano le donne.
Le istituzioni non ne hanno guadagnato e per molti versi si è di nuovo interrotta la memoria politica delle donne, anche se oggi più generazioni hanno vissuto la denuncia del patriarcato e non si sottomettono al maschilismo diffuso.
A lungo (troppo a lungo) nel dopoguerra si parlò della Donna, al singolare, come termine generico da accostare, magari come un post-it provvisorio, al dominio simbolico dell’Uomo che non aveva nemmeno bisogno di essere nominato, perché nella storia era sottinteso.
Gli uomini si sorprendono della presenza delle donne, ma noi donne non possiamo sorprenderci se facciamo un minimo di autocoscienza e sgombriamo gli occhi dal filtro delle pagine di storia che hanno omesso i fatti e deformato la realtà deformando i sentimenti stessi con cui ci pensiamo.
Gli uomini hanno ghermito il potere con tutti i mezzi legiferando contro le donne e la loro (nostra) libertà, appropriandosi del potere riproduttivo che riguarda i corpi e le anime, per dirla con una dicotomia vetusta ma chiara: da un lato il cognome paterno e i diritti ereditari, dall’altro tutte le forme della memorabilità, dai monumenti e i nomi delle strade ai criteri storiografici che sedimentano le narrazioni collettive in cui inevitabilmente si riconoscono persone e collettività.
Non possiamo capire gli anni della storia repubblicana se non andiamo a vedere, documentare, raccontare i modi eclatanti o subdoli, sempre abietti, con cui le istituzioni a tutti i livelli hanno impedito la trasmissione della storia politica delle donne. Eppure, in qualche modo, e prima di tutto grazie alle donne della Resistenza, la trasmissione c’è stata e si rinnova ancora oggi in un momento in cui i crimini di violenza contro le donne aumentano, in controtendenza rispetto a tutti gli altri crimini, e rappresentano il sintomo più eclatante di un male sociale che ha radici lontane.
Ha radici lontane anche il modo inedito di pensare sé e il mondo nonostante tutto, che rinasce perché è una forza incoercibile: nei venti mesi della Resistenza le donne hanno sentito di poter fare vacillare i pilastri del patriarcato e non stupisce che i racconti di fatiche e rischi spaventosi siano intrisi anche di gioia. Uno spostamento simbolico, esito della visibilità reale delle donne durante la guerra, che genera via via mutamenti di posizione continuamente aggrediti eppure irreversibili.
Nessuna ragazza penserebbe oggi sé stessa come “minore” rispetto agli uomini.
“E nel futuro una donna che va, a ricercare la sua identità”: non ho mai dimenticato il monito di queste parole, scritte sul manifesto dello spettacolo teatrale dell’Udi di Perugia che si tenne in occasione del X Congresso nazionale dell’UDI nel 1978.
Mani di donna tolgono maschere, che s’accumulano di lato, da un volto che resta invisibile coperto da un’ultima maschera. Ultima? Mi chiedo da allora, vedendo quanto siamo ancora impastoiate, per non dire di peggio, nella cultura che definiamo sinteticamente patriarcale dentro la quale ci muoviamo, lavoriamo, amiamo, viviamo. E quante maschere devono togliersi gli uomini?
A quel congresso erano presenti molte donne della Resistenza a cominciare da Camilla Ravera, insieme alla generazione che oggi definiamo del neofemminismo. Ci sono voluti cinquant’anni dopo la liberazione dal nazifascismo e la nascita della Repubblica democratica per modificare nel 1996 le norme del Codice Rocco e definire la violenza sessuale reato contro la persona non contro la morale, ma le donne non sono ancora cittadine a pieno titolo nelle leggi che conservano, anche quando cambiano, le antiche strutture sessiste.
Oggi si discute della necessità di introdurre la psicologia nella formazione delle forze dell’ordine e della magistratura che si occupa di violenza maschile sulle donne: io penso che ogni sapere è inutile se non è accompagnato dalla storia che è anche storia della formazione e del dominio del sapere nei suoi aspetti profondamente misogini.
Il modo in cui documentiamo e narriamo la storia è una questione politica: il modo in cui non sono stati affrontati gli stupri di guerra segna ancora la storia del nostro paese e significa che la maggioranza degli uomini eletta in parlamento dal 1946 ad oggi ha considerato irrilevante la vita delle donne: è un fatto che non riguarda solo le donne, ma anche gli uomini e la democrazia stessa, sempre minacciata, da allora, in modo subdolo e violento dalla persistenza di rigurgiti fascisti.
Teresa Mattei, la più giovane delle madri costituenti, ha parlato dello stupro, subito dai fascisti, solo in vecchiaia; delle 60.000 donne stuprate dall’esercito francese in Lazio si è occupata Maria Maddalena Rossi con un piccolo gruppo, e lei stessa, pure madre costituente, è sconosciuta come loro.
Una storia che è stata ridimensionata, negata, brutalmente emarginata, a cui è stato vietato l’ingresso a scuola, anche con la complicità di un corpo insegnante femminile assuefatto/costretto alla subalternità (con eccezioni individuali e collettive che hanno fatto “resistenza” in alcuni luoghi e momenti) eppure è una storia ricostruita ormai in moltissimi lavori di alto valore scientifico ed è una storia rimasta nella memoria passata di voce in voce.
Oggi sono moltissime le raccolte di testimonianze così come le biografie e autobiografie di donne della Resistenza, ma non oltrepassano la soglia di piccoli circuiti anche prestigiosi mentre nella cosiddetta cultura popolare, che su questi temi non è certamente di maggioranza nella popolazione, diventa rilevante l’opera che trova canali di pubblicizzazione soprattutto se presentata come fosse la prima o unica.[36] Accade per le donne della Resistenza come per le deportate che, sopravvissute al lager, furono costrette a cimentarsi con una vita che continuava ad espellerle, come persone e come memoria. E accadde a lungo nel dopoguerra.
Sono tutte le donne che ci hanno insegnato a cercare la storia nelle pieghe delle narrazioni dominanti, come hanno fatto loro, che ricordavano ogni nome di donna sfuggito alla censura dei secoli perché sapevano di muoversi sulla scena politica (comprese le istituzioni culturali) senza avere una tradizione a cui fare appello, ma erano consapevoli, sentivano, di essere anche figlie di una lunga storia.
Noi possiamo/dobbiamo continuare il loro cammino, restituendo con le nostre parole la visibilità a ciò che è stato sommerso, facendo risuonare le loro voci nella nostra voce.
[1] Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998.
[2] Gruppi di difesa della donna e per l’Assistenza ai combattenti della libertà, nati a Milano nel novembre 1943. Archivio Centrale, I Gruppi di Difesa della Donna 1943-1945, Unione donne italiane.
[3] Nuto Revelli, L’anello forte, Einaudi, Torino 1985, Introduzione, pp. XVII-XVIII.
[4] Cfr. Lidia Menapace, Scienza della vita quotidiana in “Reti”, n. 1, 1990, pp. 63-69.
[5] Federazione universitari cattolici italiani.
[6] Teresa Vergalli, Una vita partigiana, Mondadori, Milano 2023, p. 30.
[7] Jacques Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler, Edizioni Sonda, Torino 1993; Anna Bravo – Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945; Laterza, Bari 1995.
[8] Titolo del famoso libro di Marie Cardinal pubblicato nei Tascabili Bompiani nel 1975.
[9] Tra le opere più significative segnalo: Anna Bravo – Anna Maria Bruzzone, In guerra senz’armi, cit. e ancora Anna Bravo, La conta dei salvati, Laterza, 2013.
[10] Tra i tanti testi sull’argomento, a partire da tutta l’opera di Marija Gimbutas, segnalo: Riane Eisler, Il calice e la spada, Pratiche Editrice, 1996 (ed or. 1987); Marylène Patou-Mathis, La preistoria è donna, Giunti, 2021; Antonella Savio, Prima Era Grandi insegnamenti, Prospettiva Edizioni, 2023.
[11] AAVV, Il Novecento delle italiane Una storia ancora da raccontare, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 131.
[12] Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, Torino 2022.
[13] Giovanna Zangrandi, I giorni veri, ISBN Edizioni, Milano 2012 (prima ed. 1963).
[14] Ida D’Este, Croce sulla schiena, CIERRE Edizioni, Verona, 2018 (prima ed. Stamperia Fantoni di Venezia, 1953).
[15] Bianca Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977.
[16] Mirella Alloisio – Giuliana Beltrami, Volontarie della libertà, Mazzotta, Milano, 1981, p. 264. Nella nuova edizione del 2022 viene aggiunto l’articolo: Le Volontarie e il cognome da ragazza di Giuliana: Gadola. Beltrami, infatti, era il cognome del marito, leggendario capitano di una delle prime formazioni partigiane, ucciso con alcuni compagni nel febbraio 1944 in Val d’Ossola. Cfr., Giuliana Gadola Beltrami, Il capitano, Edizioni Avanti!, Milano 1964; Ed. Lampi di stampa, 2016.
[17] AAVV, Mille volte no, Editori Riuniti, Roma 1975 (prima ed. 1957).
[18] Annamaria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta, La pietra, Milano 1976.
[19] Mirella Alloisio – Giuliana Beltrami, Volontarie della libertà, cit., p. 264.
[20] Alba De Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori, Milano 1994, pp. 383-384 (prima ed. 1949).
[21] Rosangela Pesenti (presentazione e cura), Velia Sacchi E io crescevo, Supernova, 2001. Il libro non conteneva la documentazione presente nella nuova edizione completa del 2015. Rosangela Pesenti (a cura di), Velia Sacchi. Io non sto a guardare. Memorie di una partigiana femminista, Manni, Lecce 2015.
[22] Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano 1938.
[23] Titolo della Mostra realizzata dalla Ripartizione cultura e spettacolo del Comune di Milano con il coordinamento di Rachele Farina nel 1983 a Palazzo Reale. Nel Catalogo Mazzotta, significativa la sezione curata da Giuliana Beltrami Gadola e Anna Maria Bruzzone con il titolo: La Resistenza sulle spalle.
[24] Riprendo il titolo molto pertinente del lavoro approfondito di Michela Ponzani, Einaudi, Torino 2012, ripubblicato nel 2021.
[25] Anna Bravo, La conta dei salvati, cit., p. 3.
[26] Lidia Menapace e Giovanna Providenti, Tra femminismo e nonviolenza: un dialogo tra generazioni diverse.
Tra i tanti volumi collettanei che comprendono interventi di Lidia Menapace su questi temi segnalo: Monica Lanfranco – Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne Disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003.
[27] Valeria P. Babini, Parole armate, La Tartaruga, Milano 2018.
[28] Carla Capponi, Con cuore di donna, Il saggiatore, Milano, 2000; Elsa Oliva, Ragazza partigiana, La Nuova Italia, Firenze, 1974;
Gina Borellini, Un paltò per l’onorevole, Centro di Documentazione Donna Moderna, 2009; Patrizia Pacini, La costituente: storia di Teresa Mattei, Edizioni Altreconomia, Milano 2011.
[29] Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano 1992.
[30] Carlo Bertorelle e Mariapia Bigaran (a cura di), Lidia Menapace. Un pensiero in movimento, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano, 2023.
[31] Lidia Menapace, Resisté, Il dito e la luna ed., Milano 2001.
[32] Patrizia Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, Donzelli, Roma, 2009; Patrizia Gabrielli, Il primo voto, Castelvecchi, Roma 2016; Maria Michetti – Margherita Repetto – Luciana Viviani, UDI: laboratorio di politica delle donne, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 1998 (prima ed. 1985)
[33] Albina Caviglione Lusso (Laura), in Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (prima ed. La Pietra, Milano 1976), p. 71.
[34] Bianca Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977, volume primo, p. XI della Premessa.
[35] L’attività di Lavinia Guastalla nella Resistenza è ricordata in Paolo Bianchi, Pianura rossa, Edizioni Bottazzi, Suzzara (Mn), 2016.
[36] Esistono testimonianze, biografie, autobiografie di tutte le donne citate in questo scritto e moltissime altre che non ho citato. Tra i tanti volumi di testimonianze mi limito a ricordarne tre rappresentativi, per certi versi, anche di tre stagioni politiche e quindi storiografiche: Franca Pieroni Bortolotti, Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia-Romagna: 1943-1945, Vangelista editore, Milano 1978; Luisa Bellina – Maria Teresa Sega, Tra la città di Dio e la città dell’uomo. Donne cattoliche nella Resistenza Veneta, Istituto veneziano per la storia della resistenza e dell’età contemporanea, 2004; Alessandro Portelli con Antonio Parisella, Ribelle e mai domata. Canti e racconti di antifascismo e resistenza, Squi[libri], Roma 2016