Relazione al Seminario nazionale dell’UDI: LASCIATECI LAVORARE
ROMA 8 maggio 2015
(pubblicato negli Atti: Lasciateci lavorare)
Parto da un’osservazione sedimentata nella cultura popolare femminile dentro cui sono cresciuta: mia madre ripeteva spesso, in dialetto bergamasco, che se una donna resta vedova rifiorisce, se un uomo resta vedovo si riempie di pidocchi.
I pidocchi erano il segno dell’abbandono di sé, della mancanza di cure, non della povertà ma proprio dell’incapacità di prendersi cura di sé.
Ora possiamo aggiornare l’osservazione popolare con la realtà del tempo di crisi, che vede la perdita del lavoro da parte di uomini e donne, spesso ancora lontani dalla pensione solo per l’innalzamento dell’età minima come requisito.
Quando gli uomini non lavorano rappresentano un problema sociale: ciondolano qua e là, si deprimono, bevono, si suicidano, pochi si dedicano al volontariato e pochi fanno i nonni.
Se le donne non lavorano, cioè se non vengono registrate come lavoratrici dai criteri del mercato del lavoro, in realtà sono sempre occupate. Non esiste la categoria del “ciondolamento” e le donne che non lavorano sono tutte variamente occupate in lavori della riproduzione famigliare e/o sociale, cioè fanno le nonne, le figlie accudenti, si impegnano nel volontariato sociale, si occupano del piccolo collettivo umano entro cui vivono e della manutenzione degli spazi, sia quelli privati che quelli sociali, di enti associazioni parrocchie luoghi di culto vari. Attività che s’innestano, spesso senza soluzione di continuità, con il lavoro nero di accudimento/manutenzione domestica, accudimento di bambini e anziani, assistenza di vario tipo.
Si occupano di tutto quello che viene definito “lavoro di cura”, locuzione che riassume sinteticamente, come il termine casalinga, un insieme di lavori e mansioni di cui l’economia si è poco o per niente occupata.
Questo significa che le parole dell’economia non sono adeguate a comprendere i corpi viventi femminili, tutta una enorme parte dell’agire umano, e questo perché l’economia si è concentrata su un’astrazione umana, quella dell’homo oeconomicus, che in realtà risulta nei fatti essere il maschio bianco occidentale adulto sano, il soggetto dominante nella rappresentazione culturale che cancella e/o mistifica la realtà della differenza di genere e del transitare umano nelle diverse età della vita oltre che delle forme e modi della riproduzione.
I bisogni sono misurati su quest’uomo e lo stesso vale per il concetto di forza-lavoro, anche se nella realtà il lavoro è stato quello di donne e uomini, bambini e bambine, non a caso variamente ridotti ancora oggi a condizione schiavile e quindi ridotti a strumenti di lavoro.
Non dimentichiamo che la rappresentazione del lavoro e dell’economia sono un prodotto storico, legato alle forme specifiche di produzione. Ad esempio nell’economia dell’antica Grecia lo schiavo non era un lavoratore ma uno strumento di lavoro, appunto.
Nella storia dietro di noi, e ancora oggi, il sesso, il colore della pelle, la provenienza territoriale, l’appartenenza famigliare sono determinanti nella collocazione lavorativa e la somma degli elementi mette la maggioranza delle donne sul gradino più basso della scala sociale.
Questa è la realtà, che ci richiede quella che definisco come “torsione del pensiero”. La torsione è un postura apparentemente innaturale, che però ci consente di scoprire la nostra muscolatura e di sbloccare rigidità consentendo al corpo nuove libertà di movimento e quindi nuovi punti di vista da cui guardare il mondo.
Il capitalismo non è riformabile, ci ricorda sempre Lidia Menapace[1], raccogliendo la lezione di Rosa Luxemburg e aggiungendo la domanda già posta da Samir Amin “Uscire dalla crisi del capitalismo o dal capitalismo in crisi?”[2].
Su questi temi ci sono pratiche e pensiero di Vandana Shiva[3], Arundhati Roy[4] e molte altre.
Il fordismo applicato all’agricoltura solo apparentemente aumenta la produzione, in realtà rompe l’equilibrio ecologico tra territorio e viventi, anche umani, non solo sfruttando le risorse fino all’esaurimento, ma intaccando gravemente la possibilità della loro riproduzione.
L’ipotesi che l’agricoltura capitalista avrebbe nutrito tutto il pianeta è fallita e noi assistiamo all’aumento della mancanza di cibo, a gravissime disuguaglianze nell’accesso alle risorse e alla distruzione dell’ambiente in modo forse irreversibile.
Questo limite ambientale viene visto ben prima degli anni ’80, anche dal movimento femminista che individua nella morte della natura, come intitola il suo bel saggio Carolyn Merchant, il paradigma che consente lo sfruttamento della terra come materia a disposizione dimenticando che la terra è l’ambiente di vita e quindi inscindibile dalla nozione di vivente di cui siamo parte.
“Nell’investigare le radici del nostro attuale dilemma ambientale e le sue connessioni con la scienza, con la tecnologia e con l’economia, dobbiamo riesaminare il formarsi della visione del mondo e di una scienza che, riconcettualizzando la realtà come una macchina anziché come un organismo vivente, sanzionò il dominio dell’uomo sia sulla natura che sulla donna”[5], scrive Carolyn Merchant, che riscopre il pensiero di Anne Conway, critica nei confronti del pensiero di Cartesio e Hume, filosofa ovviamente sconosciuta anche agli studi universitari, ricordata in questo libro che a sua volta, pubblicato nel 1988, è ormai introvabile.
Non solo, quindi, vengono cancellati i nostri corpi, nella realtà di bisogni, desideri, esistenza reale, ma vengono cancellate le parole delle donne, una cultura che già è stata critica verso quel processo sociale che allora, nel ‘600, era agli inizi e che oggi vediamo dispiegato nella sua distruttività.
Un pensiero quindi visionario e preveggente: Anne Conway ha visto i pericoli insiti nella trasformazione dell’immagine della natura in materia inerte, della terra madre in territorio da sfruttare, conquistare, colonizzare, assoggettare, anche attraverso il cambiamento delle metafore femminili e in relazione al processo di assoggettamento delle donne che si esprime, a partire dal ‘600, anche nella persecuzione delle streghe e nell’emarginazione delle levatrici a favore di una medicina a dominanza maschile.[6]
Che cosa sta cercando di conquistare il capitalismo in questo momento?
Sappiamo che il capitalismo ha ormai conquistato tutto il pianeta con la globalizzazione del mercato.
Attraverso la colonizzazione l’imperialismo e le guerre, il mercato neoliberista impone a tutto il pianeta il modo di produzione capitalista, che mira al massimo profitto attraverso il totale sfruttamento di persone e territori, con le conseguenze che conosciamo sull’equilibrio degli ecosistemi e la sostenibilità ambientale complessiva, a partire da due elementi che non sono mai stati considerati di valore economico come l’aria e l’acqua, il cui inquinamento potrebbe pregiudicare la sopravvivenza stessa della nostra specie sulla terra.
Tra il 1500 e il 1900 il capitalismo ha conquistato tutta la terra.
Ora la nuova frontiera del capitalismo è la persona umana, l’intelligenza individuale.
Non a caso il settore della comunicazione e dei media attrae gli investimenti. Controllare l’informazione e tutta la varia produzione video significa controllare l’immaginario che va ad influenzare le scelte individuali.
Manipolare l’intelligenza umana, modellare l’immaginario di milioni di individui, plasmare e distorcere i linguaggi attraverso i quali si costituisce la nostra nozione di realtà, significa avere il potere sul mondo.
Un problema che investe direttamente la nozione di democrazia perché chi è in grado di ottenere il consenso attraverso la manipolazione dell’immaginario è in grado di avere un potere che le dittature del novecento avevano appena intuito, anche se già ampiamente utilizzato.
Chi ha mille parole ha più potere di chi ne ha cento, aveva detto Don Milani. Oggi tutti possono avere mille parole, ma pochi detengono il potere di stabilirne il significato: la deformazione e contraffazione dei significati è l’illusione diffusa dai media, in Italia soprattutto a partire dagli anni ’80.
L’esempio più eclatante è la sostituzione del concetto di diritto con il merito, in nome della quale abbiamo il dominio della stupidità.
Pensate a cosa significa l’asservimento della scuola al capitale, al mercato, al profitto attraverso l’aziendalizzazione organizzativa. E paradossalmente proprio mentre alcuni dirigenti di aziende all’avanguardia cominciano a tener conto del benessere del “fattore umano” perché fondamentale per la qualità produttiva.
Non credo sia casuale l’attacco alla scuola pubblica, che è un luogo di lavoro prevalentemente femminile.
Non è un caso che si parli di nuovo di selezione.
Immettere le procedure del lavoro produttivo, ormai superato nelle fabbriche, dove siamo esplicitamente fuori dal fordismo, il cui fallimento nell’agricoltura e nell’allevamento è documentato, produce barbarie nella scuola, nella sanità e in tutti i servizi alle persone.
Una psichiatra che dirige un servizio per malati psichiatrici gravi mi dice: “Mi chiedono di descrivere il mio prodotto!!! Ma cosa vuoi che produca: cerco di tenere in equilibrio la vita dei miei pazienti e delle loro famiglie. Come si fa a chiamarlo prodotto, si tratta della vita”.
La politica dello Stato democratico diventa serva del capitale rinunciando a quella mediazione che aveva costruito lo Stato sociale.
Qual è l’obiettivo sotteso alla conquista della comunicazione, dell’istruzione, dei luoghi e soggetti di produzione della cultura, di cui non si parla?
Il capitalismo è all’attacco del potere della riproduzione umana, dalla riproduzione biologica a quella culturale, intimamente legate anche se a lungo divise, anche nell’immaginario, tra servizio alla specie da parte delle donne e controllo maschile delle istituzioni culturali.
“Oggi la biologia riproduttiva umana è diventata una vera e propria forma di lavoro economico in alcuni settori chiave della bioeconomia” scrivono Melinda Cooper e Catherine Waldby, che indagano come si tratti dell’esito storico e della riproposizione di rapporti di potere postcoloniali e di classe.[7]
Al di là di tutte le metafore maschili sul parto della mente, la specie umana si riproduce attraverso la gestazione e il parto di donne che mettono al mondo bambine e bambini e al di là di qualsiasi pensiero fantascientifico su esseri cresciuti fuori dall’utero femminile, la riproduzione materna dall’ovulo fecondato, fino allo svezzamento e oltre, resta il modo più economico possibile per la riproduzione della specie umana.
Economico a tal punto che c’è perfino chi ha osservato che la produzione di latte materno sarebbe più conveniente di quello da allevamento animale.
Non basta un ovulo fecondato per la sopravvivenza della specie, serve un corpo generativo e un accudimento affettuosamente educativo che conduca letteralmente per mano, passo dopo passo, l’infanzia totalmente dipendente di chi è neonato/a fino all’autonomia dentro le relazioni sociali.
La riproduzione umana porta con sé necessariamente quella domestica. Noi siamo una specie che costruisce la propria abitazione e il proprio habitat.
Le donne organizzano e gestiscono la maggior parte della riproduzione domestica che non è solo la manutenzione degli ambienti di vita, ma la complessità delle forme dell’abitare umano.[8]
Mi sembra indispensabile che ci interroghiamo sulla crisi del capitalismo dal punto di vista delle donne.
Del resto la parola economia significa “legge della casa”.
Intanto bisogna osservare prima di tutto che il capitalismo è strutturalmente contro le donne, infatti fin dalle sue origini sfrutta la forza lavoro femminile e infantile attraverso l’utilizzo, dentro il nuovo sistema di produzione, dei vecchi pregiudizi sull’inferiorità femminile, che consentono di erogare alle donne un salario dimezzato, a parità di lavoro, rispetto a quello degli uomini. Alla faccia della razionalità scientifica e delle cosiddette leggi di mercato.
E’ curioso che mentre si affermano le idee di uguaglianza tra gli uomini, si ribadisca per legge l’inferiorità delle donne, che diventa incapacità giuridica, assoggettamento agli uomini di famiglia, interdizione di spazi e possibilità, compresa la libera disposizione del proprio corpo, legittimazione di un maggiore sfruttamento economico.
Allo sfruttamento di grandi masse femminili, nella nuova agricoltura industrializzata e nelle fabbriche, si accompagna un’ideologia familista che prevede lo sfruttamento femminile del lavoro domestico, di assistenza e accudimento considerato, tecnicamente, come lavoro dovuto per la riproduzione della forza lavoro, in forma obbligatoria e gratuita.
Sull’obbligatorio e gratuito si è poi costruita l’ideologia del materno come oblatività e servizio, attraverso un’adeguata manipolazione educativa dell’emotività femminile (e di conseguenza anche di quella maschile).
Come lo sfruttamento anche la disoccupazione delle donne è strutturale al capitalismo, che non a caso le utilizza come esercito di lavoro di riserva.
Eclatante è il mutamento dell’immagine femminile nelle due guerre mondiali, quando le donne, considerate giuridicamente incapaci e costituzionalmente inette per tutta una serie di lavori, vengono utilizzate, proprio in quei lavori, come manodopera sostitutiva di quella mandata in guerra come carne da macello.
Non è casuale che i dati ci dicano che la crisi incide meno sulla disoccupazione delle donne che su quella degli uomini, perché una quota di disoccupazione delle donne è strutturale al sistema.
Le donne cosiddette inoccupate sono comunque occupate nel lavoro invisibile che si svolge nelle case e che sostiene l’intero abitare umano riproducendone giorno per giorno l’esistenza.
La scolarizzazione femminile ha reso visibili le contraddizioni della democrazia perché le donne che studiano hanno potenzialmente accesso, oltre che al mercato del lavoro di livello superiore, a un tempo per sé che consente l’autodeterminazione nelle scelte di vita.
Questo ovviamente se a scuola ci va una minoranza, perché una delle contraddizioni fondamentali del sistema è visibile quando l’accesso agli studi è davvero generalizzato.
Intanto uno degli esiti visibili del processo di scolarizzazione femminile è certamente la denatalità perché queste donne vogliono scegliere e non accettano il fatto che mettere al mondo un bambino abbia come prezzo la rinuncia alla propria realizzazione individuale. La diminuzione delle nascite denuncia, anche solo implicitamente, l’ingiustizia presente in una società che si riempie la bocca della madre e non investe in servizi alla maternità e men che meno nei diritti di bambini e bambine, come già chiedeva l’UDI negli anni ’60.
Perché ancora fino a metà del novecento le donne sfornavano figli a decine? Perché non governavano il proprio potere riproduttivo.
L’istruzione è un potente messaggio d’invito a investire su di sé e quando una donna investe su di sé esce dall’assoggettamento al ruolo di riproduttrice della specie e diventa soggetto della propria vita, quindi anche madre consapevole che investendo su di sé apre possibilità anche ai propri figli e figlie.
Non più quindi servizio alla specie, ma investimento sul futuro a cominciare dal proprio.
Cominciò proprio l’Udi dicendo “I figli: quando li vogliamo, quanti ne vogliamo”.
Questa è una grande forza, che è stata trasmessa alle ragazze perfino nel silenzio della scuola e dell’università su tutto ciò che concerne l’esistenza femminile e la necessità/possibilità di pensarne la potenza generativa.
La scuola e l’università hanno taciuto la storia delle donne, l’elaborazione femminista dell’esistenza umana eppure la trasmissione alle giovani generazioni è avvenuta.
La trasmissione culturale è inscindibile dalla riproduzione umana ed è qualcosa di più ampio e misterioso di quanto le istituzioni deputate alla trasmissione stessa possano far pensare, più ampio di quello che si insegna nel recinto scolastico e universitario, che ancora ignora le donne e la cultura della vita, assoggettandole in un’emancipazione imitativa che riproduce le strutture fondamentali del dominio maschile.
Le donne sono state espropriate dalla riproduzione sociale e immesse poi, attraverso il diritto al lavoro, in forma subalterna alle gerarchie e modelli patriarcali.
Sono in maggioranza donne impiegate nei lavori della riproduzione sociale, tranne che nei livelli dirigenziali: scuola, sanità, servizi alla persona, pubblica amministrazione.
Oggi vediamo anche i guasti del modello dell’emancipazione imitativa del maschile, gli esiti dell’accesso alla parità dentro istituzioni, forme e immagini sociali dominate e manipolate dai modelli patriarcali.
La rimozione del lavoro della riproduzione dalla teoria e pratica economica ha messo di fatto tutti i lavori della riproduzione nell’invisibilità della contrattazione privata famigliare contribuendo a conservare anche nello spazio pubblico le pratiche feudali di investitura/sottomissione personale.
Non penso solo all’uso familista delle nonne ma anche all’invenzione dello stage gratuito, alla presenza all’università delle “cultrici” della disciplina, che lavorano gratuitamente svolgendo esami e seminari pur di riuscire a tenere un piede dentro un luogo ancora fortemente patriarcale.
Che cosa giustifica la differenza stipendiale tra il docente della più astrusa disciplina di nicchia all’università e l’educatrice dipendente precaria di una cooperativa che si occupa di un bambino disabile grave e contribuisce all’equilibrio della sua famiglia?
Una parte preponderante dell’attacco alla scuola pubblica è la mortificazione dell’autonomia e della libertà attraverso forme di controllo che mirano sostanzialmente alla passivizzazione di chi vi lavora, cioè prevalentemente delle donne, anche attraverso la costruzione di gerarchie che dividono.
Per non parlare del rilancio dell’ideologia familista proprietaria, per la quale i figli sono proprietà dei genitori, unici titolari del loro bene, che quindi devono decidere quale scuola, quali insegnanti, quale futuro e, in nome dell’amore, inseriscono nella relazione genitoriale aspettative di tipo produttivo e forme di perenne infantilizzazione.
Come ha scritto Robin Morgan: “Se dovessi condensare in un’unica qualità il genio del patriarcato, direi: la capacità di dividere, di istituzionalizzare la disconnessione. Ragione vs emozioni. Pensiero vs azione. Scienza vs arte. La terra stessa è frammentata dai confini nazionali. Gli esseri umani sono divisi in categorie: per sesso, età, razza, etnia, preferenze sessuali, altezza, peso, classe, religione, capacità fisica, ad nauseam. Il personale isolato dal politico. Il sesso separato dall’amore. La materia dissociata dallo spirito. Il passato scisso dal presente, a sua volta distinto dal futuro. La legge scorporata dalla giustizia. L’immaginazione disgiunta dalla realtà.”[9]
Oggi si discute anche dell’utero in affitto e qualcuna teorizza la distinzione tra scambio economico e dono senza rendersi conto che si tratta di una riedizione, in forme tecnologicamente e scientificamente più avanzate, dell’antica pratica nobiliare di utilizzare l’utero della serva per avere figli legittimati dalla paternità. A quel tempo ancora si pensava che il ruolo della donna nella procreazione fosse solo quello di contenitore della gestazione fino alla nascita. Pratica analoga a quella che costringeva le contadine ad abbandonare i propri figli per allattare quelli delle donne più ricche.
Asservire allo scambio, che è comunque sempre economico, perché si fonda sul desiderio di affermare la propria linea genetica nella sopravvivenza della specie, l’utero femminile significa oggi asservire alle strutture del capitalismo in crisi il corpo delle donne attraverso la persistenza del dominio patriarcale che si camuffa di ogni possibile forma di modernità.
Non possiamo dimenticare che il capitalismo ha strutturato la propria economia, a partire proprio dalle parole che le hanno dato forma, dentro l’ovvia permanenza del patriarcato, che infatti è sopravvissuto alla fine di due grandi sistemi economico-politici: la società schiavile antica, fino alla forma propria dell’Impero romano, e il sistema feudale, traghettando le forme del dominio maschile dentro il nuovo sistema di produzione.
Temo che il patriarcato potrebbe sopravvivere anche all’odierna crisi del sistema capitalistico.
Come? Anche attraverso la cooptazione di quote di donne divise tra loro da quantità e qualità diverse di privilegi e separate dalla maggioranza delle “altre” da cattedrali di immaginario sociale fatto di simboli, immagini deformate e parole mistificanti utilizzate per cancellare la realtà della condizione comune.
Offrendo quote di privilegi diversi vengono rilegittimate le gerarchie tra donne nelle condizioni di accesso alle risorse fondamentali e ai diritti, primo fra tutti l’autodeterminazione nelle scelte sessuali e riproduttive e quell’autentica libertà che è solo dichiarazione astratta se non è la possibilità di un processo di liberazione verso la realizzazione dei propri talenti, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali tra i quali c’è l’armonia con il territorio, la bellezza, la gestione nonviolenta dei conflitti e soprattutto la fine dell’asservimento del corpo. Il lavoro infatti oggi può essere liberato dall’asservimento.
Noi viviamo con uomini, non solo in coppia, in famiglia (pensiamo al rapporto con padre, fratelli, figli), ma ovunque: nei luoghi di lavoro dove gli uomini sono sostenuti da un apparato simbolico che contemporaneamente cancella, deforma, mortifica le donne, nei luoghi pubblici materialmente plasmati da una progettualità che ha escluso le donne e la riproduzione della vita.
In questi luoghi fondamentali del vivere quotidiano: casa, lavoro, tempo libero, fino a tutte le istituzioni pubbliche e private che frequentiamo, siamo continuamente costrette a una contrattazione dentro la quale abbiamo meno forza, meno strumenti, meno potere anche quando abbiamo più saperi, più competenze, più talenti, più capacità di visione olistica del mondo e dell’interconnessione tra risorse e relazioni.
Se abbiamo meno parole per dirci, meno rappresentazioni simboliche che ci corrispondono, che ci esprimono e ci potenziano, è chiaro che noi abbiamo un’estenuante fatica da fare, spesso continua e logorante.
Diventiamo insopportabili anche a noi stesse, perché il terreno di lotta non è deciso da noi e ci mortifica o ci costringe ad essere ciò che non vorremmo essere.
Ancora non è facile esistere come donna.
C’è tra noi chi si vende al miglior offerente ma c’è anche chi cede per sfinimento, cede quote di potere in cambio di serenità, accetta di ottenere solo qualcosa, sceglie il compromesso e patisce la mediazione.
Insomma siamo ancora sul terreno della sopravvivenza.
Il potere sulla riproduzione della vita è anche il potere sul tempo, la più preziosa delle risorse umane. Il tempo totalmente occupato delle donne è la forma più semplice per l’asservimento e la riproduzione delle strutture del dominio.[10]
Per questo un elemento che vorrei mettere in luce, perché determinante nelle nostre esistenze, è l’accelerazione dei tempi di vita, che avviene anche attraverso il peggioramento delle condizioni in cui si svolgono i lavori della riproduzione sociale: sanità, scuola, servizi alle persone, pubblica amministrazione, servizi per la mobilità (ferrovie, strade, ecc.), manutenzione dell’habitat (dalle case al territorio).
La scuola che adotta il modello fordista (nel momento in cui il fordismo si rivela inadeguato nella produzione) e che diventa quell’ossessivo incalzare dei compiti, delle verifiche, del cumulo di libri sempre più pesanti, del tempo totalmente occupato perché il nozionismo è infinito, rappresenta un’accelerazione temporale nella vita prima di tutto di bambine e bambini e, di conseguenza, un’accelerazione dei tempi di vita delle famiglie, che è un modo di dire, perché in realtà determina un’accelerazione nel tempo delle madri soprattutto e spesso della catena famigliare delle donne, cioè madri nonne zie e poi anche, parzialmente, ma in modo comunque crescente, anche di uomini.
Possiamo definirla tecnicamente “catena dello sfruttamento parentale delle donne”, dentro la quale il legame affettivo diventa veicolo di reciproco sfruttamento, coperto dal senso delle relazioni stesse e dalla perenne ambiguità per cui la connotazione intrinsecamente relazionale del lavoro di riproduzione diventa motivo per non considerarlo come tale.
E non dimentichiamo quanto la dipendenza nelle relazioni affettive adulte diventi automaticamente complicazione, che determina un di più di fatica nella gestione, proprio a motivo del maggior carico sentimentale.
Se nella relazione con le insegnanti dell’asilo nido un genitore, spesso la madre, può discutere l’impostazione educativa sulla base del riconoscimento della professionalità, non è così semplice discutere le pratiche educative della propria madre o della suocera.
Con l’insegnante, l’educatrice, l’assistente c’è la garanzia di una contrattazione sociale che definisce la professionalità, l’ingaggio, i compiti.
Ridurre i lavori della riproduzione alla contrattazione privata, oltretutto interna alla famiglia, significa decurtare queste attività dalla qualità stessa di lavoro, riducendole a fatica asservita ai buoni sentimenti.
Ridurre i lavori della riproduzione alla contrattazione privata senza che sia nemmeno nominata in questo modo è il modo attraverso il quale il capitalismo espelle la condizione umana dalla remunerazione del lavoro.
Ovviamente nella contrattazione privata le donne sono perdenti, perché non esiste il concetto di contrattazione, è debole la percezione lavorativa delle attività svolte in casa a favore di familiari ma soprattutto perché la contrattazione individuale è ingestibile e il conflitto può sempre degenerare in violenza.
Ancora molte donne ripetono quello che hanno detto le generazioni precedenti, compresa la mia, di fronte all’insipienza, pigrizia e ipocrisia maschile: “con il tempo che ci metto a insegnarglielo e a ricordarglielo, lo faccio io e ci guadagno”.
Del resto l’insegnamento delle pratiche indispensabili alla sopravvivenza non può essere mescolato alla relazione affettiva, perché dovrebbe essere un apprendimento socialmente considerato indispensabile per maschi e femmine, dovrebbe essere parte dei saperi fondamentali, la base dell’alfabetizzazione umana il cui scopo è fornire alle nuove generazioni tutti gli strumenti culturali per realizzare la vita e immaginare il futuro.
Il carattere sociale della riproduzione richiede che ci si interroghi sul suo statuto tra le attività umane.
I lavori della riproduzione sono sempre intrinsecamente generativi perché esistono solo in uno scambio tra due soggettività che si modificano reciprocamente e dunque non possono prescindere dalla dimensione affettiva ed emotiva.[11] Rappresentano di fatto la scuola della vita.
Quello che coinvolge i sentimenti non è lavoro?
Eppure costa fatica, è logorante, ha un limite fisico esattamente come il lavoro produttivo.
E nel concreto sappiamo benissimo che il rapporto operaio con il lavoro produttivo non è mai solo meccanico.
Non esiste attività umana che utilizzi solo la meccanica del corpo senza l’energia di pensieri e sentimenti, senza un continuo processo di costruzione della coscienza e sappiamo che il tentativo di fare del lavoro umano una pura funzione tecnico-energetica alla pari degli altri dispositivi tecnologici dentro il processo produttivo, genera grave disagio.
Il capitalismo in crisi rilancia l’appropriazione della riproduzione a partire dal corpo delle donne. La pratica dell’utero in affitto ripropone, attraverso le scoperte scientifiche, la vecchia pratica dell’aristocrazia di espropriazione dell’utero femminile di donne asservite a vantaggio della riproduzione della propria classe sociale.
Fa parte dello stesso disegno l’idea che esista una sessualità maschile dotata di inderogabili bisogni che possono essere soddisfatti dall’acquisto del servizio di un corpo femminile.
E’ chiaro che qui si apre l’enorme questione della mercificazione del corpo a tutti i livelli dell’organizzazione sociale come forma delle relazioni economiche dentro cui siamo tutti e tutte inserite. Con la differenza che la donne continuano ad essere costrette a forme di contrattazione sociale che le rendono oggettivamente subalterne perché non sono nate da una società in cui anche le donne sono “libere ed eguali”.
Che fare?
Con questo seminario l’UDI si propone di avviare la definizione di una piattaforma per la contrattazione sociale.
Non è un’impresa facile: si rischia di fare un elenco dei desiderata che rispecchia e ripete cose già dette.
Non c’è niente di male ad avanzare richieste che riteniamo legittime e indispensabili e invece di fare uno sforzo per trovare nuove parole proverei a seguire un’altra strada.
In uno degli episodi della saga di Harry Potter, il mago Albus Silente suggerisce a Ermione e Harry: “Quando si è in dubbio, trovo che tornare sui propri passi sia un modo saggio di cominciare”. I due amici ripercorrono la propria storia e guardandola da un punto di vista diverso riescono a vedere ciò che prima non avevano visto. Così bastano piccoli spostamenti per trasformare due condanne a morte in occasioni di vita.
In questo momento dubbi e confusione sono grandi e nell’ansia di andare avanti e trovare soluzioni rischiamo di non vedere quello che abbiamo sotto gli occhi.
Per una piattaforma che metta al centro dell’economia, e quindi della politica, il corpo delle donne nella sua manipolata e misconosciuta, ma fondamentale, funzione riproduttiva della specie, materiale e culturale, potremmo ripercorre le tappe di riflessione che hanno costruito nell’Udi fondamentali campagne per la conquista di una piena cittadinanza femminile che mettesse le basi per un grande cambiamento sociale e culturale. Nella storia politica delle donne non si tratta di un tempo lontano ma di ieri, anzi del presente stesso.
Ritrovare quelle parole, diffonderne la conoscenza insieme all’anno e al contesto in cui furono proclamate, appena ieri appunto, ci può servire a immettere poi quelle piccole innovazioni che possono fare una grande differenza.
Le grandi idee o invenzioni sono spesso il frutto di un lungo oscuro lavoro precedente e portarlo alla luce può essere già un’azione che modifica il punto di vista.
Si tratterebbe di fare un’analisi dettagliata della condizione attuale dei lavori della riproduzione biologica, domestica e sociale.
Aggiungo un paio di battute.
1.
Lavoro della riproduzione domestica: si possono mettere sul mercato tutte le mansioni relative alla manutenzione della vita imprescindibili per ogni essere umano, ma in questo momento questo lavoro, insieme a quello di assistenza e accudimento di persone con ridotto o nessun grado di autonomia, viene messo sul mercato e calcolato però, dentro il bilancio delle famiglie, sul salario o stipendio femminile.
Sono le donne a dover misurare il vantaggio dell’assunzione di una persona perché viene considerata sostitutiva della donna di casa nel lavoro che andrà a svolgere.
Molte donne giovani, calcolando il costo di una persona per le pulizie e una baby sitter o del nido per i figli, in relazione al proprio introito, decidono di restare a casa dal lavoro perché più conveniente dal punto di vista economico e, apparentemente, meno stressante dal punto di vista dell’organizzazione della vita famigliare, che ovviamente tocca a loro.
Gli uomini infatti al massimo erogano singole prestazioni, spesso a richiesta, ma non riescono a organizzare il ritmo della vita che si fonda sul lavoro di riproduzione.
A queste donne non viene in mente che il calcolo dell’esborso in servizi andrebbe fatto relativamente alla somma degli introiti famigliari e misurato insieme al tasso di benessere personale di tutti e tutte.
Lo stipendio del marito è spesso superiore e di conseguenza il lavoro da cui deriva risulta più importante, anche se la crisi e le politiche che sostengono il profitto attraverso la precarizzazione del lavoro stanno determinando alcuni mutamenti. Ma si tratta di costrizione, e sempre dentro la contrattazione privata, non di un pensiero sociale verso il cambiamento.
Le poche che sono riuscite o riescono a svolgere un lavoro adeguato ai propri talenti e a accedere quindi a lavori socialmente riconosciuti, anche poco, ma più del lavoro operaio, di quello domestico e di manutenzione dell’ambiente, utilizzano il lavoro domestico di un’altra donna che ha socialmente minore o spesso, nessun potere contrattuale rispetto al salario e alla propria collocazione sociale.
La nostra liberazione dai lavori domestici, di assistenza accudimento educativi, avviene sulla pelle e sullo sfruttamento di altre donne, che oggi sono spesso le migranti.
Paradossalmente lo sfruttamento non viene più definito di classe perché la posizione di straniera sposta l’attenzione sulla condizione di partenza che, nel paese d’origine, può essere così terribile da far accettare qualsiasi condizione nel paese d’arrivo.
Un tempo la migrazione era dalla campagna alla città e la differenza della lingua e dei corpi non era diversa da quella che viene percepita nelle odierne migrazioni.
Parlo di corpi perché ricchi e poveri erano diversi per postura, odore, abitudini, abbigliamento e, non ultimo, colore della pelle.
Dubito che possiamo dirci davvero femministe se non affrontiamo questo nodo specifico che investe e definisce le relazioni di classe tra donne.
2.
Possiamo far diventare lavoro riconosciuto e adeguatamente pagato molte mansioni della riproduzione biologica e domestica, ma ci sarà sempre una quota di manutenzione e cura del proprio habitat irriducibile al trasferimento ad altre persone. Si tratta di necessità che si intrecciano anche con il piacere personale di accudimento di sé e delle persone amate, con il piacere di vivere ed esprimersi. Attività che richiedono tempo e questo tempo deve entrare nella contrattazione sociale.
Tra l’altro, se proprio vogliamo restare nel pensiero economicista, le persone serene, realizzate, non stressate, svolgono il lavoro dal quale ricavano reddito con più competenza.
Quindi torniamo al governo del tempo come questione fondamentale nella contrattazione sul lavoro.
Anche qui il discorsa merita approfondimenti.
Come avviare un dibattito che porti le donne a riconoscere e gestire la propria forza nella contrattazione sociale, usandola a proprio vantaggio?
Lo sciopero e il sabotaggio, pratiche nonviolente inventate dal movimento operaio sono praticabili solo parzialmente per i lavori della riproduzione.
Sappiamo che anche durante gli scioperi, come nei giorni di festa e vacanza, i lavori della riproduzione non possono fermarsi perché assicurano la sopravvivenza al livello raggiunto da una società.
I lavori della riproduzione definiscono la natura del patto sociale e quindi il livello dei diritti di cittadinanza.
Come diventare soggetto politico di questa contrattazione che sconvolgerebbe totalmente gli assetti politici?
Su questi concetti ho prodotto, con altre tre donne, anche uno spettacolo teatrale dal titolo QUESTA CASA NON E’ UN’AZIENDA, perché vorrei cominciassimo a cambiare le parole, a trovare le parole che esprimono esattamente le cose e contemporaneamente uscire dall’ambito accademico ed esprimere le analisi in un linguaggio divulgativo che faccia presa nell’immaginario.
La rivoluzione non verrà dalla presa del palazzo d’inverno, che non è mai stato il mio modello nemmeno quando ero giovane (se non per farne progetti di cohousing, scuole, servizi, sale da ballo e musica …)
Credo che noi abbiamo la forza del cambiamento, che passa sempre dal mutamento individuale e dalla percezione che questo mutamento può essere solo consapevolmente collettivo.
Rosangela Pesenti, femminista, Presidente Associazione Nazionale Archivi Udi, del Coordinamento Nazionale UDI. Laureata in Filosofia, PhD in Antropologia ed Epistemologia della complessità, già insegnante di Storia e Letteratura, Counsellor Professionista e Analista Transazionale (C.T.A.), Formatrice.
Ultime pubblicazioni: Racconti di case, il linguaggio dell’abitare nella relazione tra generi e generazioni, Ed. Junior; Velia Sacchi, Io non sto a guardare, Manni.
www.rosangelapesenti.it
[1] Cfr. Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Edizioni Felina libri, Roma 1987; Lidia Menapace, … A furor di popolo, Libri di Marea, Genova 2012
[2] Cfr. Samir Amin, Il virus liberale, Edizioni Punto Rosso, Milano 2004; Samir Amin, Uscire dalla crisi del capitalismo o dal capitalismo in crisi?, Edizioni Punto Rosso, Milano 2009
[3] Cfr.: Vandana Shiva, Monoculture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Vandana Shiva, Il bene comune della terra, Feltrinelli, Milano 2006, solo per citarne alcuni.
[4] Cfr.: Arundhaty Roy, Guida all’impero per la gente comune, Guando, Parma 2003; Arundhaty Roy, I fantasmi del capitale, Guanda 2015
[5] Carolyn Merchant, La morte della natura, Garzanti, 1988 (Ed. or. 1980), p. 33
[6] Cfr.: Rosangela Pesenti, Terra: nutrice e selvaggia, in Marea 1/2010
[7] Melinda Cooper, Catherine Waldby, Biolavoro globale, Derive Approdi, 2015
[8] Cfr.: Rosangela Pesenti, Racconti di case. Il linguaggio dell’abitare nella relazione tra generi e generazioni, Ed. Junior, Bergamo 2013
[9] Robin Morgan, Il demone amante, La Tartaruga, Milano 1998 (Ed. or. 1989), p. 31
[10] Cfr.: Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998; Paola Tabet, Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014
[11] Rosangela Pesenti, Cura, in Ritanna Armeni (a cura di), Parola di donna, Ponte alle Grazie, Milano 2011