Luoghi, contesti, relazioni, corpi: lì stanno collocati i discorsi e non altrove.
Fare l’insegnante di italiano e storia è il mestiere che ho scelto (per caso poi nel triennio di un I.T.C. della provincia di Bergamo), essere donna è il “disegno di fondo” della mia vita, condizione materiale e storica da cui non posso prescindere perfino nell’inedita possibilità di aprire interrogativi a tutto campo in questo tempo-luogo a cui il caso mi ha assegnata.
A scuola. Come mettere insieme la scansione cronologica dei programmi e la cancellazione della memoria che caratterizza questo territorio e queste generazioni, le domande che non hanno mai imparato a formulare e i segnali “sopra e sotto il banco” che i loro corpi propongono ?
Identità, memoria, storia, sono le parole chiave di un lavoro che mi divide tra ragazze e ragazzi, colleghe e colleghi, testi e programmi.
Di anno in anno ridisegno un piano di lavoro in cui la centralità dei soggetti consente un’esistenza del genere femminile non accessoria: una cornice, aperta, elastica, ma non occasionale, dentro cui affrontare temi e percorsi più specifici, definiti nel rapporto con la classe, ragazze e ragazzi reali che ho di fronte.
La formula è sintetica, il lavoro da formica: da un lato la ricerca e l’accumulo del materiale (per il lavoro ma anche per la verifica) con il rischio costante dell’approssimazione (perché la giornata è comunque di 24 ore ) e poi la ridefinizione dei termini, l’uso delle categorie interpretative (non sempre esplicitate, non sempre “originali”), la ricerca/invenzione di pratiche didattiche, dall’altra parte il “corpo a corpo” con loro: allieve e allievi demotivati e distratti o tradizionalmente obbedienti, oppressi e oppresse dalla quantità di studio passivo richiesto.
L’onestà intellettuale e il coinvolgimento emotivo, la mia necessità di studiare (forte come una fame) e il tempo occupato dai loro compiti da correggere, da ascoltare.
L’emozione per i percorsi aperti, le intuizioni da approfondire, le competenze affinate e l’avvilimento per la censura di un’organizzazione che non prevede per il nostro lavoro la dimensione della ricerca.
In un luogo che ci richiede di vivere e far vivere “a mezzo busto”(perché così è confezionato l’ambiente) cercare di esistere intera: un crinale sottile da percorrere con responsabilità, proporre l’intensità dei rapporti senza richiedere l’intimità della confidenza, pattuire il percorso, l’impegno, la reciprocità ma rinunciare, quando qualcuno si sottrae, al ricatto punitivo, per ricominciare da capo…
Comunque, anche se costretta alla condizione della formica proseguo il lavoro con la sfrontatezza della cicala.
Ho continuato a lavorare sulle immagini della storia in terza, immagini che restano uguali nel tempo, iscritte in quella memoria duratura che i sentimenti profondi sedimentano e di cui la scuola non si occupa; in quarta lavoriamo sui soggetti e sulle biografie e anche in quinta sto cercando di uscire dalla fase di semplice introduzione dei soggetti femminili sia nella storia che nella letteratura (operazione comunque meno banalmente paritaria di quanto possa sembrare) per proporre ogni anno un tema di ricerca che consenta una verifica complessa ma reale di tutto il percorso.
L’anno scorso abbiamo lavorato sulle memorie private della 2^ Guerra mondiale e spontaneamente hanno cercato le testimonianze di donne oltre che di uomini. Ne è nata una mostra “Quando la loro storia diventa la nostra memoria”, segnata, come dice il titolo, dal rapporto anche emotivo che ragazze e ragazzi hanno stabilito con questo passato recente che è uscito dalle immagini oleografiche e lontane per diventare parte ancora viva della loro vita.
La guerra e la sopravvivenza, gli uomini e le donne ma anche loro, ragazze e ragazzi direttamente protagonisti/e se la storia diventa eredità che interroga le nostre scelte, i nostri sentimenti, il nostro vivere quotidiano.
Dietro la precisione con cui hanno composto i loro cartelloni (ognuno e ognuna il proprio) il disordine dei sentimenti e molte domande rimaste aperte, quelle a cui si è chiamate/i a rispondere in proprio.
Quest’anno il tema è “Shoah”. Tra gli obiettivi elaborati insieme “Analizzare ed eliminare i nostri lager mentali” . Siamo all’inizio: le ragazze sono interessate alla condizione dei bambini, alla vita nel lager, ai sentimenti di chi è sopravvissuto; i ragazzi (in bilico tra una destra che li affascina e una crisi a cui non sanno dare nome) si interrogano sulla personalità dei nazisti, sulle “ragioni” del lager. Nel percorso so che le domande si intrecceranno e alla fine “sapere” sarà anche sapere di sé qualcosa di nuovo, scoprire, spero, un modo di essere uomini e donne lontano dalle strettoie degli stereotipi e più vicino alle proprie individuali inclinazioni.
Anche quest’anno per me l’obiettivo non dichiarato è quello di riuscire a conservare uno spazio di “libertà del pensiero” sottratto alla tirannia insulsa dell’esame di maturità.
Un racconto per cenni, una “lunga sintesi”, ossimoro necessario per spiegare alcune pieghe che ha preso il mio modo di essere a scuola e rispondere dal luogo concreto in cui sono all’invito implicito nella lettera di Antonella, Susanna, Marisa, Alidina, Paola.
Che dire della differenza di genere: abbiamo ormai intere biblioteche sul tema.
Ridotta all’osso direi che è un criterio in più per leggere noi e il mondo. E per noi intendo uomini e donne.
Un criterio che in questo momento mi sembra irrinunciabile proprio per capire, certamente non per stilare un sistema di regole. Quella lingua che parliamo come neutra è in realtà segnata da una storia comune in cui ruoli, destini, scelte ma anche immagini, fantasie, desideri sono stati diversi.
E’ un luogo misto, École, o neutro ?
Essere donna o uomo all’anagrafe ti inserisce fin dalla nascita in un tessuto culturale che ti insegna il tuo sesso, di questa come di altre appartenenze puoi non voler prendere coscienza, puoi vivere “come se”, puoi evitarne le implicazioni culturali e politiche su cui comunque si misurano le tue scelte.
Sono scelte appunto e tra noi lettori e lettrici di Ecole, redattori e redattrici, non c’è nessuno che non sappia il valore e la responsabilità sociale che accompagnano ogni nostra più intima scelta.
Faccio un esempio: la prima domanda della “Pagella degli insegnanti” (Ecole n.25 – ottobre ‘94) “Se fare scuola fosse come contribuire a realizzare un edificio, quale mansione ritiene sia più idonea a rappresentare il lavoro dell’insegnante?” io l’avrei posta probabilmente così:
“Se fare scuola fosse come allevare un neonato quali parole di questo lavoro ti sembrano più utili per rappresentare il lavoro insegnante?”
Oppure “se fare scuola fosse come confezionare un vestito … o ancora, se fosse come gestire due giorni normali in una famiglia media (amici e amiche propri e dei figli, figlie inclusi – la sessuazione del discorso complica più la lingua o la vita? -) ecc.
Discorsi da donna? No, metafore diverse per pensare. Quali più utili per raccontare davvero il nostro lavoro ?
Lascio il punto interrogativo non per vezzo retorico ma per segnalare la realtà di una ricerca aperta.
Non sono una donna “modesta” (è una di quelle virtù che ho imparato nell’adolescenza e sono riuscita ad abbandonare nella “maturità” insieme ad alcune altre cose) e discuto con passione le mie idee e soprattutto le mie pratiche ma mi sento molto lontana dal proporre quelle verità luminose che stigmatizzano senza ombra di dubbio i buoni e i cattivi, insegnanti, redattori e chicchessia.
Sul mio “fare scuola” proprio i dubbi lievitano ogni anno un pane diverso per ragazze e ragazzi diversi.
Non mi interessa un luogo “misto” se significa indifferenziato, mi interessa un rapporto con donne e uomini che non si vergognino né si vantino della propria origine.
3.11.’94
ALL’ATTENZIONE DI MARA DE PAULIS
da Rosangela Pesenti Grazie!