- Testo integrale dell’intervento svolto a Padova il 7 novembre e a Napoli il 29 novembre 2024
Mi perdo. Ogni volta che qualcuno mi chiede di scrivere o parlare di Lidia mi perdo per intere giornate nelle sue carte, nelle mail che ci siamo scambiate, nei suoi libri. E faccio fatica a trovare il filo di parole che stia dentro la misura data. Mi sono resa conto che non posso ancora parlare di lei, sono troppo vicina, e non dico “sono stata” perché, come accade con le persone care, lei è ancora presente nella mia vita, non sono ancora riuscita a collocarla nella distanza necessaria per l’elaborazione, mi parla ancora.
Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, nel lontano 1987, ho sempre utilizzato i suoi testi, le sue proposte, le sue intuizioni teoriche per leggere il mondo e agire, non solo nei luoghi abitati per lavoro o per politica, ma nella mia stessa vita. Per questo mi atterrò ai suoi testi, scritti intorno al nucleo teorico che è stato il fuoco della sua politica. Fuoco nel senso di focolare intorno al quale si costituisce e riproduce la vita.
Non racconterò di lei o di noi ma voglio ricordare con le sue parole il pensiero di fondo su cui si è sviluppato il nostro rapporto umano e politico (umano perché politico), dentro quella sorta di dichiarazione di posizionamento nelle relazioni tra donne che enuncia nel 1991 a proposito di “ordine simbolico della madre”[1]. Un tema molto di moda in quegli anni in cui ci si interrogava molto sui caratteri delle relazioni tra donne, il cui esito politico sul momento fu una grande produzione di veti, steccati, rigidità, litigiosità, interdizioni, separazioni, probabilmente anche per una malintesa opzione di fedeltà che forse non era richiesta in quei termini.
Lidia scriveva. “Tra i privilegi della mia vita colloco quello di essere nata da una donna che fu sempre una mamma ragazza, mai una Vergine Madre, mai una regina invidiosa in gara per la più bella del reame, mai una Mater dolorosa atteggiata in gesto sacrificale.
Non ho sperimentato il rapporto di dipendenza perché mia madre ci svezzò psicologicamente presto, ma con soddisfazione reciproca e ci recuperò per sempre in un rapporto amicale e sorellante. Non avrei mai voluto avere un’altra madre, non voglio avere un “ordine” nemmeno della madre. E soprattutto sono lieta di non dover essere quella madre che è oggetto di culto da parte delle figlie e costituisce per loro il simbolo della Sapienza da amare per capire il mondo. Ammetto che con la mia esperienza sbagliare è più facile e che la precarietà, il vagabondaggio, l’incertezza, l’avventura finiscono per essere caratteristiche della vita: e capisco anche che non piaccia.
Ma le forme della libertà non sono meno numerose che quelle del molteplice in cui siamo immerse: non esiste libertà femminile se non vi sono molte moltissime, forse tutte le donne libere. E siamo ancora lontane. Per questo risulta politicamente alienante un messaggio che può far credere che la pronuncia della libertà sia la libertà. È questo che chiamo idealismo, non in senso tradizionale” (…)
E dopo un omaggio non formale al libro di Luisa Muraro come “uno dei non molti che mi pongono in questione, che mi obbligano a fare i conti (tornano abbastanza). E di ciò le sono molto grata. È bello avere con chi discorrere davvero, avere domande non banali, essere contente persino di abbozzare risposte approssimative: tale è la portata delle questioni messe in gioco, e con tanta levità di scrittura. Proprio brava!”
Continua: “Su un punto credo ci sia un equivoco. Quando le scienziate parlano di limite non dicono “senso del limite” bensì “coscienza del limite” che non ha niente di autolimitante o di meschino o di prudente nel senso timoroso del termine, si tratta proprio di quell’esperienza stimolante ad andare oltre che è rappresentata nell’idillio leopardiano. L’infinito: la siepe, se si siede e mira interminati spazi e profondissima quiete permette di fingere nel pensiero. Credo davvero che pensare la scienza con intrinseca coscienza del limite significa sapere come si può andare più in là, non per gusto del rischio, che reputo in genere stupido, bensì con una conoscenza più approfondita, fine, e provata, (l’esperienza invece dell’esperimento anche perché l’esperimento di distruggere il mondo non avrebbe senso non potendo essere ripetuto).”
Un dibattito che avrebbe potuto essere appassionante. Non è accaduto e non voglio commentare il presente, sarebbe un discorso lungo, voglio invece parlare dell’attualità del pensiero di Lidia, e mi viene facile perché è un tema che mi è consueto, del resto è il mandato esplicito che mi ha consegnato.
Il suo più importante e più ignorato apporto teorico al femminismo e quindi alla politica intera.
Lidia ha sempre dichiarato la propria ambizione teorica commentando la scelta delle parole: l’ambizione è sempre stata considerata sconveniente e riprovevole per le donne, alle quali viene raramente riconosciuta una competenza teorica.
Sto trascrivendo i suoi scritti inediti, tra i quali uno, scritto nel 1987, dopo la pubblicazione di “Economia politica della differenza sessuale” si intitola AUTOBIOGRAFIA.
Comincia spiegando:
L’autobiografia “È una narrazione che non ha confini certi, né appartiene a un genere letterario preciso. Non esiste – che io sappia – l’autobiografia di una donna che consideri la politica una forma di espressione artistica, ma non un estetismo; parte intima della propria vita e di quelle delle donne che sono state importanti per la sua formazione pur non essendo state politiche esse stesse. Ho come l’impressione che a rendere possibile questo impasto singolare concorra la mia collocazione nel tempo: infatti sono figlia di una “ragazza emancipata” dei suoi tempi.”
Esprime così il suo interesse per le forme in cui si esprimono i contesti, la realtà, a cominciare dalla lingua e dai canoni letterari, narrativi, disciplinari, espressivi, che sono l’argilla di cui sono impastate le sedimentazioni culturali. Di questa forma originale della politica come espressione artistica Lidia cita come fonte le donne da cui ha appreso i modi del vivere che sono i fondamenti di quella che poi definirà Scienza della vita quotidiana.
Non sono solo fonti orali ma sono l’intera complessità degli scambi comunicativi dentro cui viviamo e che impariamo a decifrare fin dall’infanzia quando siamo ancor letteralmente senza parole e ci muoviamo dentro il mondo che si muove intorno a noi con le mille sfumature di linguaggio dei corpi.
Partendo dalla vita quotidiana affronterà le forme della politica istituzionale così come le caratteristiche dei movimenti a cominciare dal femminismo.
Nel testo, allora appena pubblicato, scriveva, ripercorrendo la storia femminista degli anni ’70:
“Tempo, spazio, rapporti e cure ci sembravano degni di essere sottratti al mercato, così come la sessualità. Proprio perché intendevamo avere col denaro e col potere un rapporto che non ci confinasse più nell’erogazione coatta del “gratuito”, intendevamo avere un mondo e una società nella quale il gratuito, cioè l’espressione, la qualità, la contemplazione, il tempo del silenzio, la cura dei sentimenti, avesse riconoscimento e valore. E se il gratuito veniva in conflitto con il mercato non volevamo che dovesse sempre soccombere o essere messo a margine, in coda, cancellato e rovesciato sulle spalle del genere femminile come gratuito obbligatorio. Ci sembrava che per salvare e allargare il peso lo spazio e la voce della gratuità fosse necessario non erogare gratuitamente ciò che è misurabile come lavoro, prestazione, merce e che fosse preso in carico dalla società organizzata ciò che merce non è. Ci si rivelava una funzione dello Stato non del tutto statalista, ma non del tutto riducibile. In questo senso, (…) non far più riferimento al dovere sociale di organizzarsi, anche per rispondere a bisogni non di mercato, era non soltanto un enorme impoverimento ma anche un’ingiustizia, che avrebbe rimesso in vigore (magari sotto la forma “moderna” del volontariato) un rapporto ineguale e una corrente di “gratitudini” obbligate per gratuiti obbligati: un groviglio di contraddizioni.”[2]
Riprende gli stessi temi nel 2012, venticinque anni dopo.
“La mia passione dominante è la teoria politica, non l’ideologia che tuttavia non considero affatto una cattiva azione né una parolaccia. (…) per me varrebbe dire: che dolce cosa è la teoria; dolce cioè amabile; cosa, dunque un fatto concreto non una proiezione fantastica, una figura svaporata, un’inquadratura ideale, no, la teoria è una cosa concreta.
Per farmi capire senza troppa perdita di tempo la chiamerò teoria d’occasione, non è dunque pensata come una totalità armonica separata dal mondo, chiusa nel suo recinto, è legata agli eventi nella loro confusionaria apparizione nel tempo e nello spazio.”[3]
Nel 1987 aveva già affrontato il tema dell’oppressione femminile. Va ricordato che verso la fine degli anni’80 e per tutti gli anni ’90 prenderà piede la retorica della carriera, della donna che può fare tutto quello che fanno gli uomini e a questo proposito Lidia rispose, a una mia alunna che pensava di affermare così una posizione progressista, “Anche le scemate?”.
Scriveva infatti: “La forma più grave di oppressione è proporre alle donne di omologarsi al modello maschile consapevolmente, fino a “meritare” il complimento “Donna, sei un vero uomo”. La forma che chiamiamo neopatriarcato è quella di una oppressione che non nega i diritti purché siano astratti, pari e non venga messa in campo, come fattore di mutamento, la differenza, purché non si pretenda di giocare intera la propria storia, anche passata, e non si voglia non studiarla pietosamente per “colmare una lacuna” filologica, ma anche riviverla per riempire di identità ciò che fu passivo, di conoscenza ciò che fu sepolto, di futuro ciò che fu necessità, di libertà ciò cui non si riconobbe nome. È questo che il neopatriarcato non accetta, non vuole, non ammette. Ed è questo difficile parto storico della differenza che anche noi donne talora rifiutiamo, quasi spaventate dal rischio dell’evento. Corre un rapporto biunivoco, ed equivoco insieme, tra il nostro stare meglio, avere accesso a tutto e il nostro stare peggio, il non avere più quasi accesso a sé stesse; tra il mettere in comune le nostre capacità, non rifiutare la parità, e il cedere ad altri subito la rappresentanza di noi. Quando, ad esempio, a qualche persona maschile può venire in mente di stabilire alleanze con forme di integralismo religioso mettendo in campo il rispetto per la vita (aborto ed ecologia) è evidente a ciascuna donna quanto sia facile, involontaria e “nobile” la nuova ideologia patriarcale. Come tutte le ideologie genera anche la più ottusa e fitta falsa coscienza: chi percorre tale strada si ritiene un “progressista.
La formazione della coscienza di sé come sfruttato o come oppressa non è un processo né limpido, né lineare, né senza rischi. Infatti, classi o sesso dominante o anche nazionalità o religione o razza dominanti, tendono ad omologare a sé alcuni “scelti”, “cooptati” dalla classe, sesso, religione, nazionalità, razza, sfruttati e oppressi: così si vengono formando gli operai che aspirano a diventare padroni, le donne che aspirano ad essere riconosciute uomini, le razze che si adeguano ai modelli di quelle che le opprimono.
Non è facile capire che il massimo dell’oppressione è ricevere riconoscimento da parte dell’oppressore, e magari considerare ciò come un traguardo, una meta, forse addirittura non essere sicure di sé se non si è avuto tale riconoscimento”.[4]
È la premessa per la questione che Lidia considerava centrale: “Il lavoro di riproduzione appare, dunque, quello che non può essere compresso oltre misura, quello che nel futuro non si ridurrà ne potrà, a previsione razionale odierna e non altrimenti che in misura particolare e parziale, essere sostituito da macchine.
E dunque è necessario cominciare a costruire un’economia politica che sia fondata anche sulla riproduzione. Dico ‘anche’: infatti voglio evitare le assolutizzazioni che hanno caratterizzato l’era del produrre e anche la cultura dell’antiproduzione.[5]
Il lavoro riproduttivo “regge” l’intero settore dei grandi e piccoli “servizi sociali” cui attribuisce non solo una utilità sociale o una capacità di produrre consenso, ma una “necessità” per la quale si debbono trovare risorse mezzi e forme organizzative adeguate. Infatti, il lavoro della riproduzione ha propri modi, tempi e forme che riversa e riproduce sui settori che investe della propria attenzione. Impedisce cioè che ogni forma dell’attività umana venga collocata sotto il segno del mercato e della produzione di tipo industriale, sostenendo con ragione che salute, cultura, piacere, casa, movimento nello spazio, pace, ambiente, non sono merci e non possono essere per tali trattati. (…)
Oggi tale necessità è così lampante che, per non lasciarla agire, è necessario a paesi anche di grandi tradizioni democratiche e di libertà di stampa, censurare certe notizie e impedire lo sviluppo di talune ricerche: sul nucleare e sulla scienza, privata di autonomia decisionale e specifica in quanto finanziata da interessi di pura e indifferente produzione di merci, manchiamo addirittura di informazioni. È una ripetizione ossessiva, sempre ingigantita e accelerata degli stessi errori, rischia di portarci a punti non reversibili di morte della specie e dell’ecumene.”[6]
Nello stesso anno, 1987, Lidia diventa responsabile della sede nazionale dell’UDI insieme a Emilia Lotti con cui preparerà il XII Congresso che, svolto l’anno successivo in due tappe, sarà un passaggio fondamentale per la sopravvivenza dell’associazione. La scelta di investire tempo energia pensiero nell’UDI è controcorrente in quegli anni, sia nel femminismo che, ridotta la dimensione diffusa, si stabilizzava in piccole prestigiose imprese culturali e/o del privato sociale (con finanziamenti pubblici), sia tra le donne comuniste ormai avviate su un’altra strada, spesso considerando l’UDI un’associazione superata e fuori moda.
Lidia, insieme a Emilia Lotti, come lei instancabile e a lei complementare nel sostegno organizzativo, riuscì a far convergere donne dell’Udi di provenienze e storie diverse proponendo al dibattito congressuale la “Gestione politica delle differenze teoricamente incomponibili”.
Ci fu chi storse il naso per la locuzione non semplice e non semplificabile, ma era una vera sfida al nostro pensiero, a ciò che pensavamo singolarmente e confusamente per trovare le pratiche di uno stare insieme che salvasse quella straordinaria idea originaria, nata nella Resistenza, di un’associazione di donne diffusa e nazionale, politica e separatista, vicina alla vita concreta delle donne e capace di interloquire con le istituzioni. Forse lo potrebbe essere anche oggi per la dispersa soggettività politica delle donne.
Più avanti elaborerà la proposta di Convenzione come forma pattizia di espressione politica della molteplicità caratteristica del movimento delle donne. Una forma che non riduce il molteplice e non lo banalizza nel pluralismo. Un percorso controcorrente che a me faceva pensare all’anguilla di Montale e infatti lei ed Emilia mi conquistarono al loro progetto convincendomi a tornare a frequentare l’Autoconvocazione nazionale dell’UDI, cosa che, per la mia vita di quei tempi, era una vera follia.
Sono comunque gli anni più fecondi della sua riflessione politica, in cui porta a compimento teorico riflessioni cominciate da giovanissima dopo l’esperienza partigiana.
Nel 1989 osservava che “Invece di iscrivere nel diritto la differenza, con ciò che di sconvolgente essa ha per la simmetria degli ordinamenti giuridici, politici, culturali, per gli statuti scientifici e professionali, si preferisce stabilire una forma del dominio e una forma della tutela. La libertà si restringe e – come è noto – se la libertà diminuisce, il suo esercizio tende a ridursi anche per quelli che se ne ritengono titolari.”
Lo scritto, intitolato ‘Le donne invisibili’[7] iniziava con l’analisi della violenza sessuale e della violenza domestica e concludeva: “Poiché tutto ciò [il cambiamento] non avviene meccanicamente e trova ostacoli profondissimi nelle pieghe etiche e di pensiero, di logica, da tempo impresse nei nostri cervelli, il lavoro da fare appare talora persino eccessivo per una generazione. Infatti durerà.”
Proprio nell’UDI, subito dopo il congresso, costituisce il Gruppo Scienza della vita quotidiana, che sarà il luogo di elaborazione politica dell’Economia di riproduzione, in particolare attraverso quattro convegni sulla creatività politica delle donne, l’abitare, l’habitat e la scuola smemorata.
Il suo manifesto della Scienza della vita quotidiana viene pubblicato su Reti.[8]
Scrive: “La scienza ha sempre spregiato la vita quotidiana come luogo meramente pratico, legato alla concretezza dei singoli eventi, inabile a raggiungere i livelli di astrazione, generalizzazione, necessari al riconoscimento di ‘razionalità’. Credo che anche la scienza e la filosofia sbaglino. (…)
Il conservatorismo poggia sulla scotomizzazione, sul nascondimento della vita quotidiana come base del mutamento. (…)
Nella vita quotidiana si iscrive tutto il lavoro materiale organizzativo e di pensiero che talora è racchiuso sotto la categoria di ‘lavoro domestico’ ‘lavoro casalingo’: preferisco dire che la vita quotidiana è il luogo-spazio nel quale si esplica il casalingato, con ciò indicando non solo la fatica e le ore di lavoro ma anche le mansioni le capacità le nozioni le facoltà le abilità che in quel lavoro si sviluppano.”
Nel testo riflette sul gratuito della libertà come valore etico che trova fondamento nel casalingato libero dall’obbligo e dall’oppressione e come parte della vita comunque non trasferibile al mercato. Al centro le categorie di tempo e spazio radicati nell’esperienza storica delle donne, a cui dedicherà molti scritti.
“Bisogna avere tempi di lavoro di organizzazione sociale orari di scuola negozi uffici trasporti tali che non rubino tutto il tempo sottraendolo al gratuito, bisogna avere spazi non ostacolati da pericoli, non soffocati dal rumore dal traffico, dalla speculazione, per poter liberare il gratuito e diventare capaci di vedere la natura, ascoltare la musica, ammirare luoghi arti persone tempi messaggi.
La riduzione dell’orario di lavoro e la riorganizzazione urbana sono le condizioni per rendere possibile il gratuito. Proprio qui vedo che è impossibile il salario alla casalinga: non voglio un’indennità di accompagnamento dei bambini a scuola, voglio che vi siano percorsi non pericolosi perché bambini e bambine possono andare a scuola da soli il che consentirà loro di fare esperienza del tempo e dello spazio, della loro libertà, invece di essere caricati e scaricati come fagotti dalle nostre affannose macchine.
E da qui un elenco di proposte puntuali e concrete, oggi ancora più attuali e sempre difficilmente attuabili.
“Mi resta da dire” continua, “quanto il casalingato, a mio parere, sia fonte di conoscenze e di rapporto con la realtà. L’organizzazione della vita quotidiana è un’impresa di difficoltà sovrumana, anche se tutte le casalinghe più o meno ce la fanno e riescono là dove scienziati dell’organizzazione, illustri managers, mirabili comandanti fallirebbero miseramente. (…)
Mentre il pensiero maschile fondato su una sorta di onnipotenza del tempo e dello spazio nonché delle risorse (o infinite oppure tutte governate dallo stato o dall’economia) produce l’idea della programmazione alla quale non può far fronte se salta, tanto da cadere subito in quel caso nell’emergenza, che sospende qualsiasi razionalità; il pensiero e la pratica finora delle donne fa previsioni approssimate ed è sempre flessibile rispetto alla non completa verifica della previsione: ciò dipende dalla condizione non libera che noi donne abbiamo subito per millenni ma credo che in quella condizione noi ci siamo abituate ad elaborare delle strategie di sopravvivenza che non sono affatto disprezzabili anche se non le vogliamo certo assumere nella loro forma che è talora anche meschina. Mi interessa però che liberiamo e valorizziamo l’abito mentale, il modo concettuale di porsi rispetto alla realtà, cioè l’atteggiamento previsionale aperto che mi pare tanto più conforme a una realtà complessa come quella in cui viviamo, con la predisposizione a mutare correggere ridiscutere la previsione in presenza o all’apparire di un evento non calcolato non previsto. (…) Mi piacerebbe che trasferissimo queste capacità in positivo e nella normalità candidandoci come titolari di una scienza della previsione flessibile che risponde agli eventi meglio della coppia concettuale programmazione-emergenza”.
Riprende il tema nel libro “A furor di popolo” che l’aiutai a comporre nel 2012 con testi già scritti.[9] Fu l’unica occasione in cui abbiamo litigato. Voleva che firmassimo il libro insieme e che pubblicassi nello stesso ciò che avevo elaborato autonomamente sull’economia della riproduzione e già pubblicato in testi di scarsa circolazione.
Raggiungemmo un compromesso, scrissi la prefazione al libro e lei iniziò così:
“Per suggerimento e con la collaborazione di Rosangela Pesenti mi riprometto di scrivere in modo connesso e non casuale e disperso ciò che penso di un’attività che chiamo ‘economia della riproduzione’ e di come si debba redistribuire il potere politico nel mondo da quando le donne sono stabilmente diventate la maggioranza della popolazione ecumenica e possono regolare la bomba demografica dopo aver raggiunto e superato tutte le prove e gli esami richiesti per il raggiungimento dell’emancipazione, cioè dell’uscita dalla schiavitù.
La parola economia significa ‘regole di governo della casa’ o, se le due sillabe iniziali si intendono per ecumene, regole della terra abitata (da case) e fare economia è espressione che le donne conoscono bene a cominciare da quelle che hanno a disposizione poche risorse.”[10] (…)
“Sembra esistere una incompatibilità tra economia della riproduzione e patriarcato. Finalmente mi è chiaro perché gli uomini più intelligenti colti attenti sembrino presi da improvvise amnesie incomprensioni stupidaggine appena dico che se proprio si vuole parlare di beni comuni, non si può fare a meno di parlare innanzitutto di riproduzione della specie umana. Invece acqua acqua acqua e poi tutto: pace lavoro libertà e via dicendo con straordinaria oscurità logica e pronta cancellazione delle donne.
Ho detto subito che la locuzione “Beni comuni” non mi piaceva proprio e che sarebbe diventata presto un’espressione generica usata da tutti, da Napolitano a Monti da Bindi a Ferrero. E così è.
Per indicare i beni che non sottostanno alla legge del profitto nella tradizione marxista si parla di beni d’uso”[11]
E alla fine del libro riprenderà il tema precisando: “il lavoro è un diritto non un Bene comune. Oggi la locuzione è diventata una moda che serve per far circolare una visione interclassista e combinatoria dell’economia”.[12]
Dopo aver spiegato l’origine filosofica della locuzione riprende:
“Bene comune non è semplicemente la somma di tutti i beni dati ma comporta l’uso del potere politico per distribuirli. (…)
In ogni caso qualsiasi lessico si usi non è possibile escludere dal discorso economico generale la riproduzione della specie, la demografia. E qui il discorso si fa subito difficile perché il pensiero religioso e i divieti di origine religiosa non vengono affrontati ma agiscono di nascosto in modo clandestino. Da Malthus ad oggi, l’ho spesso detto.
Vorrei provare a discutere il perché del rifiuto di prendere in considerazione un’analisi critica e la liberazione da vari tabù di questa tematica che obbliga ad affrontare in modo netto e profondo la differenza tra i generi: quello maschile atto a fecondare, quello femminile atto a generare. È il primo segno della differenza di genere nella sua radice fondamentale, necessità, reciprocità. Se si parte dalla differenza di genere non è più possibile esprimere il mondo in modo monistico senza commettere una violenza verbale mentale culturale sociale così forte che uccide il pensiero, è una aporia, uno stop al pensiero, un’impossibilità di connettere, non può essere sostenuta se non con la forza, la violenza, senza ragione. Essa è perciò l’insensatezza della vita e del pensiero. Certamente pensare in base due invece che in modo monoteistico può comportare alcune difficoltà, tuttavia se si rompe la magia dell’Uno ci si apre davanti l’infinita serie dei numeri, la molteplicità irriducibile del reale, un avvio affascinante: perché vietarselo? Certamente vi è di mezzo una questione di potere perché se si sceglie l’uso di un linguaggio ordinato secondo l’esistenza dei due generi è impossibile non dividere il potere. Ma come mai molti uomini non se ne rendono conto e continuano a pensare, magari educatamente, che bisogna aver pazienza rispetto alle strane femministe? Credo sia uno dei casi più lampanti di impossibilità oggettiva di capire da alienazione.
Gli uomini non ci vedono, non si aspettano che parliamo, attendono solo che stiamo al loro fianco preferibilmente tacite o imitative. È noto che l’alienazione da potere impedisce di vedere la realtà e copre chi ha privilegi dalla possibilità di privarsene. (…)
È molto indicativo che appena si è venuta manifestando un’ampia variegata stabile cultura politica del soggetto donna con tutta la sua ricchezza e forza, invece di affrontare la questione si è venuta costruendo da parte maschile una cultura ecologica, una dei beni comuni, una della decrescita, tutte culture che non possono nascondere il fondamento demografico ma si presentano neutre dal punto di vista di genere e abbondantemente fatte di patriarchi gentili e distratti.
Bisogna ripartire dal peso della definizione: le donne man mano che prendono coscienza di sé sono il nuovo proletariato.
Chi invece non prende coscienza di sé ed esercita un grande potere sono quelle donne che volentieri sarcasticamente chiamerei sottoproletarie di lusso, ad esempio Lagarde presidente del fondo monetario internazionale, sorridente ed elegante signora che parla come un registratore; Hillary Clinton che con la signora Strausskahn appartiene alla categoria delle mogli comprensive e altre: la destra arruola volentieri queste signore prive di coscienza di sé anche da noi. Infatti della categoria fa parte anche la nostra Fornero e anche la Severino. Spicca come una stella solitaria la Merkel l’unica vera emancipata, appartenente alla categoria definita coi termini: “quando una donna è brava è più brava di un uomo”.[13]
Nel libro dell’87 concludeva scrivendo:
“Da circa 10 anni una vendetta sociale, politica, economica e culturale di inusitata durezza e rozzezza si rivolge contro le speranze, le utopie, le maternalità, che cominciavano a germinare alla fine degli anni Sessanta. E capita a tutti – con questi chiari di luna – di pensare che sia necessario, se non pentirsi, almeno scordarsi di quelle audacie. Ma poiché dieci anni di dominio della destra mondiale hanno prodotto più miseria, violenza, infelicità, ineguaglianza, competitività selvaggia, diffidenza sociale, sfrontata esibizione di potenza e di ricchezza, volgarità insomma, militarizzazione dell’economia e miseria del terzo mondo, non è più solo una petizione di principio o una disperata tenacia, ma una forma della ragione ricominciare a dire che bisogna davvero cambiare, aprire strade di liberazione, non credere che la tristezza di questi anni sia giusta, saggia e adulta. È invece follia poiché quando politica, scienza, economia e cultura – la ragione cioè e non il suo sonno – generano mostri, mostri di morte e di follia, morte e follia avevano in sé”.[14]
E ancora, tenacemente, venticinque anni dopo:
“Quella in corso è una ‘crisi strutturale e globale del capitalismo’. Significa che colpisce e inceppa il meccanismo profondo del sistema (la struttura) e che si estende all’intero pianeta. (…) Inoltre non è possibile parlare della crisi capitalistica senza mettere in conto la questione climatica che discende dalla considerazione delle risorse e dell’applicazione di un’economia imperialistica destinata a colpire a morte il pianeta. Ancora, l’estensione dell’economia capitalistica all’intero comparto della riproduzione provoca barbarie e miseria, insicurezza e violazione di diritti non negoziabili. La dimensione planetaria mette inoltre a confronto pressoché simultaneo eventi ricette scacchi emozioni reazioni paure speranze, ovunque insieme. Un’enorme ondata richiama i migliori surfisti, lì dove si produce, ma insieme mostra che ben pochi sono in grado di cavalcarla e per poco tempo: si palesa quindi come estremamente selettiva e presenta un gioco che per quanto magari bello per chi resiste alla selezione, dura poco. Quando perciò i governi dicono o annunciano che la crisi è alle nostre spalle ma che la disoccupazione aumenterà ancora, che sul clima non si è deciso nulla, che i servizi saranno sostituiti da qualche misura assistenziale di breve e modesta portata, bisogna incominciare a dichiarare forte che non è vero: non è alle nostre spalle, siamo invece a uno di quei bivi che propongono: “socialismo o barbarie”.
Riconoscere la barbarie significa capire la portata della crisi e che non si tratta di uscire dalla crisi cercando di ripristinare il capitalismo, cioè per via riformistica, ciò non è nemmeno più possibile e allora si palesa impellente il compito di preparare almeno una cultura diffusa che ci spinga a fare lotte, costruire relazioni, ridisegnare la vita quotidiana, insomma preparare un’alternativa, un antagonismo, che non può essere nemmeno più fatto di grandi o grandissime lotte disarticolate, bensì di un tessuto socioculturale che si incomincia a tessere nelle relazioni, nelle occasioni che si storicizzano memorizzandole, costruendo perciò una teoria concreta, per le occasioni storiche da cui prende il via, e di prospettiva, perché misura la propria gittata verso il futuro.” [15]
Alle ragazze e ai ragazzi che stanno crescendo accanto a noi, a cui si racconta la balorda menzogna che “non hanno futuro”, potrebbe essere utile conoscere il pensiero di una ragazza rimasta sempre partigiana e proprio per questo visionaria nutrice di futuro che qualunque cosa accada è comunque sempre nelle nostre mani.
Anche per questo Lidia scriveva in una riflessione sulle giovani generazioni che oggi “vita e morte non sono ‘fatti naturali’, sono ‘eventi politici’. Finora nessuna etica comprende questa sconvolgente novità”[16].
A noi il compito di pensare e vivere oggi questa sconvolgente novità e, come lei diceva, “c’è lavoro e gloria per tutte e tutti”.
[1] Testo presente nella miscellanea di scritti dell’archivio privato di Lidia Menapace, in attesa di riordino, affidato a Rosangela Pesenti e depositato presso l’Archivio delle donne dell’ISREC di Bergamo, che sarà inaugurato a breve nella nuova sede dell’Istituto.
[2] Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma, 1987, p. 3-4
[3] Lidia Menapace, … A furor di popolo, Supplemento di Marea, n.4, 2012, p. 10-11
[4] Lidia Menapace, Economia politica, cit. p. 49-51
[5] Lidia Menapace, Economia politica, cit., p. 59
[6] Lidia Menapace, Economia politica, cit., p. 101
[7] Lidia Menapace, Le donne invisibili, estratto da Democrazia e Diritto, n. 3, 1989
[8] Lidia Menapace, Scienza della vita quotidiana, in Reti, 1990
[9] Lidia Menapace, …A furor di popolo, cit.
[10] Lidia Menapace, …A furor di popolo, cit. p. 13
[11] Lidia Menapace, …A furor di popolo, cit. p. 31
[12] Lidia Menapace, …A furor di popolo, cit. p. 131
[13] Lidia Menapace, …A furor di popolo, cit. p. 32-33
[14] Lidia Menapace, Economia politica, cit. p. 105
[15] Lidia Menapace, …A furor di popolo, cit. p. 20-21
[16] In Riflessioni, testo presente nella miscellanea di scritti dell’archivio privato di Lidia Menapace, in attesa di riordino, cit.