Se Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace del 1905, ha potuto essere rimossa dalla memoria, non meraviglia che una sorte analoga sia toccata ad altre donne che prima o contemporaneamente a lei contribuirono alla nascita e alla diffusione del movimento pacifista.
Mirella Scriboni, Abbasso la guerra! Voci di donne da Adua al primo conflitto mondiale, BFS Ed., 2008
Ciò che sarebbe più terribile per il futuro del socialismo sarebbe vedere i partiti operai dei diversi paesi decisi adottare la teoria e la pratica borghesi secondo le quali sarebbe del tutto normale ed inevitabile che i proletari delle differenti nazioni si scannino a vicenda durante la guerra, per ordine delle loro classi dominanti, per poi dopo la guerra di nuovo scambiarsi, come se niente fosse, abbracci fraterni. (…)
Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di “patria”, di “civiltà”, “libertà”, “diritto dei popoli” e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli, rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo.
Rosa Luxemburg, Alla Redazione del Labour Leader a Londra, Berlino dicembre 1914, in Lettere contro la guerra, Prospettive Edizioni, Roma, 2004
(…) C’è ancora molto da vivere e tanto di grande da affrontare. Stiamo assistendo all’affondare del vecchio mondo, ogni giorno ne scompare un altro pezzo, non smette mai, è un crollo gigantesco. E la cosa più strana è che la maggior parte delle persone non se ne accorge affatto ed è convinta di continuare a camminare sulla terraferma (…)
Rosa Luxemburg, Lettera a Sophie Liebknecht, Breslavia 12 maggio 1918, in Dappertutto è la felicità, L’Orma Editrice, p. 60
“In mezzo alla profonda pace” era un modo di dire, usato spesso fino a poco tempo fa, quando si parlava della situazione europea. Tale situazione è cambiata improvvisamente. Oggi, devono ammetterlo tristemente tutti i fautori della pace, siamo nel mezzo di una guerra generale. In Turchia infuria una fanatica carneficina; la Francia ha mosso guerra contro il Madagascar; la Spagna lotta contro Cuba; l’Italia è coinvolta in una regolare campagna di guerra contro gli eserciti africani; le colonne di tutti i giornali sono piene di bollettini militari su vittorie e sconfitte, avanzate e ritirate, su assalti e scontri, come le pagine di diario di un generale di stato maggiore; e l’aria echeggia dei lamenti dei massacrati e dei rapinati. Morti, morti, morti: questa è pur sempre la fine di ogni saggezza politica, la meta di ogni entusiasmo patriottico.
Bertha von Suttner, Giù le armi!, Fratelli Treves Editori, Milano, 1897
Occorre considerare gli armamenti anche dal punto di vista del clima morale che creano. Un clima nel quale l’unione dei popoli, l’elaborazione del diritto internazionale (per tacere dei sentimenti di fraternizzazione), non possono prosperare. Non è possibile sorridere digrignando i denti e non si possono stringere mani tenendo i pugni chiusi. Ugualmente è inconcepibile riuscire a vivere e a tenere relazioni in mezzo a tutte queste minacce di annientamento, andare tranquillamente a passeggio sui terreni minati e davanti alla bocca dei cannoni ovunque puntati. Conservare maniere cortesi e benevole, mentre ci si prepara a sbranarci l’un l’altro reciprocamente col più ampio spiegamento di mezzi (alle spese non si bada). Tale anomalia perdura soltanto perché si è diventati insensibili per abitudine. 1909
Bertha von Suttner, Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 12
I fautori degli armamenti – a questa categoria, oltre agli ambienti militari (compresi moglie, figli e parentado intero), appartengono quelli dei fabbricanti di armi e dei fornitori dell’esercito, e inoltre la massa incalcolabile di coloro che istintivamente vogliono che tutto resti com’era – tutti questi sanno che i fautori della pace sono i loro nemici dichiarati, e sanno anche che il bisogno di pace sentito da nove decimi della popolazione – perfino loro, anzi, la avvertono in gran parte -, e così succede che il concetto di pace viene sequestrato dai sostenitori degli armamenti, mentre la loro passione viene giustificata col detto latino: “Si vis pacem para bellum”. Se vuoi bianco, prepara nero. Se vuoi restare a casa, procurati la carrozza. Se vuoi fare amicizia col vicino, digrignagli i denti. Nessuno oserebbe affermare simili controsensi, ma la frase, altrettanto contraddittoria, “se vuoi la pace prepara la guerra”, per la sua origine latina, per il fatto che è stata ripetuta milioni di volte, ha acquistato tanto valore e tanta quotazione da essere riproposta sempre quando si richiedono aumenti di spese militari. (…) 1909
Bertha von Suttner, Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 27-28
Cosa fanno le associazioni per la pace? Cosa dicono i pacifisti? Questi interrogativi imperversano intorno a noi, all’affacciarsi del periodo sopravvenuto – a partire dagli avvenimenti dei Balcani – pieno di latenti pericoli e anche di aperte minacce di guerra. Ci vogliono incoraggiare, con queste domande, ad azioni di salvezza, o ci vogliono semplicemente schernire? 1908
Bertha von Suttner, Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 79
E ancora più strane dello splendore simbolico delle vostre uniformi sono le cerimonie nel corso delle quali le indossate. A un certo punto vi inginocchiate; poi fate un inchino; ora invece incedete al seguito di un uomo che reca in mano una mazza d’argento; ora ascendete uno scranno intagliato; ora sembra che rendiate omaggio a un pezzo di legno dipinto; ora vi prostrate dinanzi a tavole ricoperte di arazzi preziosi. E, quale che sia il senso di queste cerimonie, voi le eseguite sempre coralmente, sempre a tempo, sempre indossando l’uniforme adatta alla persona e all’occasione. (…)
Che rapporto c’è tra l’haute couture dell’uomo colto e le macerie e i cadaveri della fotografia? Non occorre andare troppo lontano per trovare la connessione tra l’abito e la guerra; gli abiti più splendidi sono quelli che indossano i soldati. Ma, poiché il rosso e l’oro, gli ottoni e le piume vengono messi da parte quando siete in servizio attivo, è chiaro che il loro costoso e presumibilmente non troppo igienico splendore è stato inventato in parte per imprimere nello spettatore il senso della maestà della funzione militare, o in parte per indurre i giovani, facendo leva sulla loro vanità, a fare i soldati.
Ecco un punto, dunque, su cui la nostra influenza e la nostra differenza potrebbero avere qualche effetto; noi, a cui è proibito indossare abiti del genere, potremmo esprimere l’opinione che ai nostri occhi chi veste in quel modo non offre uno spettacolo né piacevole né impressionante.
Al contrario, lo troviamo ridicolo, barbaro, sgradevole. Ma in quanto figlie di uomini colti, potremmo più efficacemente usare la nostra influenza in un’altra direzione, sulla nostra stessa classe, sulla classe degli uomini colti. (…)
Possiamo dire che per gli uomini colti indossare un abito diverso, o premettere o aggiungere al proprio nome titoli e sigle onorifiche per sottolineare la propria superiorità, di nascita o intellettuale, sono gesti che suscitano competitività e invidia, emozioni che (non c’è bisogno di ricorrere alle biografie o alla psicologia per dimostrarlo) contribuiscono la loro parte a incoraggiare la tendenza a fare la guerra.
Virginia Woolf, Le tre ghinee, La Tartaruga, 1975 p. 41-42
Anche nell’educazione si sono privilegiati e si privilegiano valori maschili, maiuscoli, quest’eroismo da medaglia, che non responsabilizza. E invece la donna crede nell’eroismo quotidiano che è molto più impegnativo perché, essere eroi in guerra, non credo sia poi mica tanto difficile sai? Perché c’è tutta quella euforia. Tutte queste droghe psicologiche che ti mettono dentro … ti portano a fare i bei gesti. Invece nella quotidianità tu non hai nessuna droga che ti sostiene e allora, se sei fedele ai valori che scegli nella quotidianità, è molto più eroico … ma non mi piace neanche più questa parola perché è stata usata con troppa retorica: in alta uniforme, coi pennacchi.
Intervista ad Adriana Zarri in Bertha von Suttner, Giù le armi! Fuori la guerra dalla storia, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 106
Il rifiuto di integrarsi nell’universo maschile, il più maschile di tutti, di celare il corpo nell’”Uniforme”, di scambiare la casa con la caserma, di adattarsi a servizi e luoghi di rappresentanza pubblica foggiati sulla caserma, non ci è mai caduto di mente e dal cuore. (…)
Il primo punto della parità vera è che una questione che ci riguarda non può essere posta come questione parziale o particolare o specifica senza essere correlata all’universo dei problemi. In altri termini, non si può proporre il servizio militare volontario alle donne senza discutere – e proprio a motivo della parità – l’intera questione militare e della difesa. (…)
Temiamo infatti molto che essa, se rimane appannaggio del maschile e dei militari di professione, possa alimentarsi di se stessa e avere – persino involontariamente – dei risvolti che non sono adeguati all’orizzonte esclusivamente, rigorosamente difensivo che la Costituzione repubblicana pone al sistema militare del nostro paese. (…)
Riteniamo in generale che un crescente tasso di militarizzazione non sia accettabile, né augurabile, che non sia compatibile con crescenti livelli di democrazia né, alla lunga, costituzionalmente corretto.
Lidia Menapace p. 25-27, in Né indifesa né in divisa, a cura di Lidia Menapace e Chiara Ingrao, Edito a cura del Gruppo Sinistra Indipendente della Regione Lazio, 1988
Se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari non arriva alla fine della prima frase.
Lidia Menapace (cit. da Anna Bravo in La conta dei salvati)
La storiografia di oggi è ampiamente “civilizzata” ben lontana da quella che nell’Ottocento si lasciava ipnotizzare da guerre, dinastie, diplomazie. (…)
Eppure guerra e violenza restano egemoni su vari piani, a cominciare dai termini con cui si classificano le fasi. (…)
Eleggere le guerre a spartiacque è un’operazione verosimile; lo sono ancora. Ma mutila la storia. Scrivendo un manuale, mi sono trovata a dedicare moltissimo spazio alla Grande Guerra, pochissimo agli sforzi per evitarla, pochissimo alle crisi marocchine e alle guerre balcaniche, mentre sarebbe stato altrettanto importante descrivere come avviene che un conflitto non deflagri o che resti limitato, e come si tenti di scongiurare la catastrofe del ’14-18. Ero caduta nel vecchio automatismo che fa delle guerre qualcosa di simile ai buchi neri del cosmo, che attirano, assorbono, inghiottono quel che gli sta intorno – in questo caso, il lavorio fatto di abboccamenti politico-diplomatici, azzardi, intrighi, compromessi, mediazioni che precede e accompagna i conflitti. A volte si trama la guerra, a volte si trama la pace e non sempre si ritardano le ostilità per avere il tempo di armarsi meglio, in date circostanze può essere decisiva la consapevolezza che se scoppiassero sarebbero orribili per tutti.
Anna Bravo, La conta dei salvati, Laterza, 2013, p. 3-4
Noi donne la guerra l’abbiamo attraversata come un incubo, come un momento terribile, da cancellare, da rifiutare, da ripudiare, come disse allora la nostra oggi tradita Costituzione, da mandare fuori dalla storia come abbiamo detto anni dopo.
Dall’introduzione di Lidia Menapace a Le donne e la pace, a cura di Fiorella Iacono, UDI e Centro Documentazione Donna di Modena, 1991
C’è una chiara relazione tra militarismo e sessismo; sia le società militaristiche che quelle sessiste sono fondate sul potere e sull’oppressione. Il militarismo è una concezione della natura umana violenta, aggressiva e competitiva, e sul corollario che l’ordine sociale va mantenuto con la forza.
Birgit Brock-Utne, La Pace è donna, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 108
Quando le attiviste femministe impegnate nella lotta per la pace esitano un po’ a mettere in discussione il sessismo esistente nei gruppi pacifici misti, come ho mostrato qui, è perché spesso sentono che non dobbiamo nuocere a noi stesse, che dobbiamo tacere per amore della pace. Ma forse è proprio per amore della pace che non dovremmo tacere. Noi non stiamo solo dicendo no alle armi nucleari, ma all’intera mentalità che porta ad esse, all’uso della violenza e dell’oppressione, compresa quella delle donne. Non c’è dubbio che dovremo lottare contro la nostra oppressione anche all’interno dei gruppi pacifisti misti, se ne facciamo parte.
Birgit Brock-Utne, La Pace è donna, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 93
Le donne sono capaci di pensare a strade nuove, di prefigurare soluzioni alternative. Invece di diventare come gli uomini, uccidendo la donna che è in noi come l’esercito richiede agli uomini, dobbiamo aiutare gli uomini a rifiutare l’esercito. Dobbiamo aiutarli a pensare e a sentire come le donne. Anziché imitare i modelli dei nostri oppressori dovremmo accostarci alle nostre “madri” pacifiste, incominciando a leggere le loro riflessioni e a ricostruire il loro pensiero.
Birgit Brock-Utne, La Pace è donna, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 173
Saremo capaci di cambiare il mondo se continuiamo a lavorare secondo l’ottica pacifista femminista, se non entriamo nell’esercito, se sviluppiamo la nostra “logica femminile”, se continuiamo a prenderci cura degli altri, a provare compassione, a dividere il potere e diventiamo più fiduciose nelle nostre possibilità? Penso di sì, a patto che non prendiamo gli uomini come modello.
Birgit Brock-Utne, La Pace è donna, Edizioni Gruppo Abele, 1989, p. 174
Lo spirito maschile è entrato definitivamente in crisi quando ha scatenato un meccanismo che ha toccato il limite di sicurezza della sopravvivenza umana. La donna esce dalla tutela riconoscendo il centro propulsore della pericolosità nella struttura caratteriale del patriarca e nella sua cultura. (…)
La specie dell’uomo ha sfidato continuamente la vita e oggi sfida la sopravvivenza; la donna è rimasta schiava per non aver accettato; è rimasta inferiore, incapace, impotente. La donna rivendica la sopravvivenza come valore.
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1974
Per due anni più che incontrare persone e annotare i loro racconti, ho pensato. Ho letto. Di cosa avrebbe parlato il mio libro? Beh, sarebbe stato un altro libro sulla guerra … A che scopo? C’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note e meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma … erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini: questo balzava subito all’occhio. Tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci “maschili”. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione “maschile” della guerra. Che nasce da percezioni prettamente “maschili”. Rese con parole maschili. Nel silenzio delle donne. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra “femminile” ma quella “maschile”. Si adattano al canone invalso. E solo in casa o, piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. A rivelarla. Ed è una guerra sconosciuta. Non solo per me, ma per tutti noi. Nelle mie trasferte da giornalista sono stata più di una volta testimone, e sola ascoltatrice, di storie assolutamente nuove. E ne ero fortemente emozionata, come dalle letture giovanili. In quei racconti balenava talvolta, come un digrignare di denti, il terribile scintillio di un feroce mistero. Nelle narrazioni delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire: gente che ammazza eroicamente altra gente e vince. O viene sconfitta. E la tecnica schierata in campo e i generali. I racconti femminili sono altri e parlano d’altro. La guerra “al femminile” ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue. Dove non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma semplicemente persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo. E a soffrirne non sono solo loro (le persone!) ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi. Ogni cosa che convive con noi su questa terra. E, oltre a noi, a soffrire erano esseri privi della parola, in un’angoscia aggravata dall’essere muti.
Ma com’è potuto accadere? Me lo sono chiesta più di una volta: come mai, una volta acquisito e occupato il proprio posto in un mondo un tempo esclusivamente maschile, le donne non hanno saputo far valere con altrettanta forza la propria storia? Le proprie parole e i propri sentimenti? Non hanno creduto abbastanza di poterci riuscire, neanche loro. Tenendoci così nascosto tutto un mondo. La loro guerra è rimasta sconosciuta…
Voglio scrivere la storia di questa guerra. Una storia al femminile.
Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, Bompiani, 2015 p. 9-10
Guardala attentamente, osservala di nuovo. Cammina lungo una strada polverosa, in testa una grande cesta, un bambino al collo. Oppure lascia l’ufficio, dove ha lavorato fino a tardi. O alle prime luci di un’alba estiva va ad attingere l’acqua al pozzo oppure fa jogging per tenersi in esercizio. Dietro di lei sente dei passi, dei passi maschili. Ha paura. Ha ragione ad avere paura. La sua reazione è diversa se alle sue spalle sente un passo di donna.
Adesso guarda attentamente l’uomo. Sta correndo a prendere un aereo. Oppure pedala sulla sua bicicletta, il cestino colmo di libri, diretto all’università. O sale i gradini dell’ambasciata dove lavora. O ancora infila una pellicola nella macchina fotografica e inizia a realizzare il suo nuovo servizio. All’improvviso sente un rumore di passi alle sue spalle. Pesanti, rapidi. Passi maschili. Una frazione di secondo prima di girarsi, sa di avere paura. Dice a se stesso che non ha nessuna ragione di avere paura. Però ha paura. La sua reazione è diversa se dietro di lui sente un passo di donna.
Robin Morgan, Il demone amante, La Tartaruga, 1998, p. 29
Nel caso personale, la perdita del mio paese – la disgregazione della Jugoslavia e il diffuso senso di impotenza che uno prova di fronte agli avvenimenti della storia considerati grandi, e in effetti “grandi” soltanto per la loro infamia, come lo è stata la sanguinosa guerra per la spartizione della Jugoslavia – non significava una perdita di qualcosa che potrebbe essere identificato con l’ideologia e ancor meno con il regime; si tratta del senso di sconfitta per la irreparabile perdita di arte della convivenza, di rispetto dell’altro, di gesti semplici e modi usuali della quotidianità della pace.
Il fatto di non potermi appropriare dei “valori nuovi”, di riconoscermi in una lingua “nuova” e “purificata” e allo stesso tempo colma di arcaismi, di non poter aderire alla giustificazione di alcuna guerra, e quindi neppure quella “patriottica”, né di sentire miei i “sogni millenari della nazione”, di rifiutare la cultura della morte e del sacrificio in nome della “patria”, di non riconoscermi in una società “purificata”, che non è mai stata quella in cui ero cresciuta, tutto questo significava: trovarsi improvvisamente “straniera” a casa propria. È una nuova condizione di sconfinamento, una sfida che, oltre il coraggio, richiede coerenza etica e genera molta tristezza. Sconfinare lì, significa opporsi alla cancellazione della memoria collettiva e all’estinzione delle biografie personali. È una sfida ardua che indica i confini come scelte che sempre più attraversano la nostra interiorità, un capitolo nuovo a cui sarebbe necessario dedicare tempo e spazio più ampi.
Melita Richter Malabotta, Guarire mondi in crisi, Vita Activa Nuova, Trieste, 2023 p. 285
L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani.
Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione di intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa di imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti.
Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti 1991, p. 255, (ed. or. 1954)
Anche le storie abitano, hanno una casa. Siamo noi la loro casa.
Dentro di noi nascono, nella nostra testa riposano o si agitano insonni, ai nostri occhi si affacciano e guardano, alle nostre orecchie si ascoltano, contenute dalle nostre braccia lievitano, nel nostro cuore ridono e piangono.
Ma ci sono case anche di ghiaccio, con occhi che non sanno vedere e orecchie che non sanno ascoltare e braccia che non sanno abbracciare, allora le nostre storie si ammalano, cercano una nuova casa che abbia orecchie buone, e fini, molto fini, perché le storie non ascoltate muoiono.
Da Le case delle storie di Vivian Lamarque, in Dina Vallino, Raccontami una storia, Borla, Roma 1999 p.
Si dimentica tutto, tu dici?
L’ho creduto a lungo, per questo un giorno ho voluto diventare una studiosa di storia, per cercare a ogni costo di sfondare il muro dell’oblio, per rinnovare cioè la memoria, dopo tanti anni passati a credere smarrito il ricordo di un’infanzia e di un’adolescenza alle quali non ho mai potuto dare un nome. Di quel periodo emergeva una vaga impressione di colore: un bianco opaco. Doveva essere quello il colore del tempo, del tempo bianco, degli anni lunghi senza storia. […] Fu fatto di tutto perché la storia mi fosse evitata: preservata dagli effetti della storia, esclusa da ciò che poteva essere la mia storia, resa spettatrice per non essere contaminata, divenuta sabbia senza la certezza e lo schiaffo del mare. […] Fui privata della storia, come garanzia di protezione della femminilità da preservare da ogni contaminazione, e la storia ne è per forza una.
Essere privata della storia è forse, in fin dei conti, la storia più importante e più comune che accada quotidianamente alle donne ed è accaduta a me, non per caso né per progetto, ma come conseguenza normale del solo fatto di essere nata femmina dopo due maschi. A loro la storia era offerta come pegno di vita e di ambizione, come passaggio obbligato verso l’avvenire; a loro il compito di integrare, come potevano, sozzure, ferite e privilegi; a loro le valli e i monti, le strade da percorrere, le tracce da scavare nei solchi umani. Due sessi, due destini. Scoprire la storia significa obbligare il tempo a diventare attore e sentirsi definitivamente discendere da qualche parte (dal tempo degli uomini). Bere a questa sorgente mi era indispensabile come se colasse in me, per la prima volta, la trascrizione del tempo e del divenire. […] La terra che emerge è terra di uomini; terra che non lascia vedere che la metà del cielo e falsifica la memoria tanto da farci smarrire. Io vengo pure da qualche parte e tuttavia non posso riconoscermi: lo specchio della storia non riflette il mio viso, ma il suo, quello dell’altro, maschile. Senza memoria la donna rimane bianca come l’oblio, la sua storia è stata scritta soltanto con l’inchiostro incolore. E nessuno ha mai cercato di farlo riapparire.
Arlette Farge, La storia senza qualità, Essedue edizioni, Verona, 1981 p. 14
Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo, e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei corpi celesti – del sole, della luna e delle stelle. (…)
Questo avvenimento, che non era inferiore per importanza a nessun altro, nemmeno alla scissione dell’atomo, sarebbe stato salutato con assoluta gioia se non si fosse verificato in circostanze militari e politiche particolarmente spiacevoli. (…)
La reazione immediata, espressa sotto l’impulso del momento, fu di sollievo per “il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre”. (…)
La banalità dell’osservazione non dovrebbe farci trascurare il suo carattere straordinario; infatti benché i cristiani abbiano parlato della terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come prigione della mente o dell’anima, nessuno nella storia dell’umanità ha mai concepito la terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna. Sarebbe questo l’esito dell’emancipazione e della secolarizzazione dell’età moderna, iniziate con l’abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il padre celeste: il ripudio sempre più fatidico di una terra che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo?
La terra è la vera quintessenza della condizione umana, e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio. (…)
Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani) che desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto. Non c’è motivo di dubitare della nostra capacità di effettuare uno scambio del genere, come non c’è ragione di dubitare del nostro potere attuale di distruggere tutta la vita organica sulla terra. La questione consiste solo nel vedere se vogliamo servirci delle nostre nuove conoscenze scientifiche e tecniche in questa direzione, ed è una questione che non può essere decisa con i mezzi della scienza; è una questione politica di prim’ordine, e perciò non può essere lasciata alla decisione degli scienziati di professione e neppure a quella dei politici di professione.
Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, 1994 (ed. or. 1958) p. 1-3
Nelle culture che non conoscevano la scrittura o che comunque non avevano una storiografia, c’erano solo due vie per rendere accessibile il passato, almeno in maniera limitata, alla capacità umana di memorizzazione: compilare cataloghi e concentrarsi su quanto l’immaginazione poetica considerava essenziale. Nel corso di questo processo di concentrazione – alla fine del quale, se si è fortunati, può darsi che ci sia un epos omerico – verrà sfoltita la gran quantità di personaggi, fatto salve poche chiare e vitali figure ideali; la massa degli eventi sarà sostituita da pochi atti simbolici. Enormi distese temporali verranno fuse insieme. Non esiste memoria né del prosastico né del prosaico. Ma migliaia di versi sono stati conservati senza fatica.
Che significato ha questa esperienza per una letteratura che non vuole più creare grandi e vitali figure ideali, che non vuole più raccontare storie ben connesse – ben connesse grazie alla guerra e all’assassinio e al crimine e alle gesta degli eroi che ne derivano? Quale sorta di memoria richiede e puntella la prosa di Virginia Woolf? Perché il cervello, che pure viene spesso paragonato a un reticolo, dovrebbe riuscire a ritenere la narrazione lineare di una storia meglio di un reticolo narrativo? In quale altro modo un autore potrebbe combattere contro l’abitudine (che non corrisponde più alle esigenze del tempo) di ricordare la storia come storia di eroi? Gli eroi sono intercambiabili, il modello resta. È su questo modello che si è sviluppata l’estetica.
Christa Wolf, Premesse a Cassandra, Edizioni E/O, 1984 p. 127-128
Il 6 agosto, di sera, un documentario su una famiglia giapponese di Hiroshima. La donna era rimasta esposta alle radiazioni durante la gravidanza, aveva partorito una figlia handicappata e nel 1979 era morta miseramente di cancro alle ossa per effetto delle lesioni. La cinepresa mostrava gli stadi del suo declino. Il marito, che è barbiere. Il viso della figlia indifesa che, quando la madre non riesce a fare più nulla, l’assiste per quel che può. Il medico, che dice alla donna che la colonna vertebrale è stata “colpita”. La vicina, che le fa visita regolarmente. Lo straziante commiato tra le due donne. L’ammalata, che a ogni cambiamento di posizione è costretta a temere che le si spezzino le ossa fragili. Il viso piangente. Le braccia smagrite, le mani imploranti. La figlia piangente. Che al funerale si rifiuta di separarsi dalla madre morta. E, settimane più tardi, chiede di andare al cimitero. E bacia la pietra levigata sulla tomba della madre. Alla fine arriva una scolaresca che ha visto il film e vuole interessarsi del destino di quella famiglia: la maggior parte dei giovani in Giappone non sa niente delle conseguenze di Hiroshima.
Nessun documento potrebbe essere più efficace. Ma non avrebbe nessun effetto su coloro che dispongono dell’uso delle armi, anche se lo vedessero. Perché no? Non sarebbe meglio, in questo caso, commuoversi piuttosto che fare una sola mossa? E se nessuno di quelli che operano nel campo degli armamenti muovesse più un dito? Resterebbero tutti disoccupati. Beh, e allora? Pensiamo. Meglio disoccupati che morti. Così però non la pensano loro, perché temono la morte sociale, che è certa, più di quella fisica, che è incerta. Io chiamo ciò: false alternative. Il loro numero è in aumento.
Christa Wolf, Premesse a Cassandra, Edizioni E/O, 1984 p. 132
Provate a immaginare che Apollo e Artemide dicano alla loro madre di calmarsi e si rifiutino di obbedire al suo ordine, o che l’esercito, rifiutandosi di stroncare uno sciopero, di fatto si metta in sciopero esso stesso, deponga le armi, apra i confini, si rifiuti di sorvegliare o di chiudere i posti di blocco, e che tutti/e coloro che ne fanno parte siano sollevati/e dalla colpa che mantiene al loro posto l’obbedienza e la violenza di Stato, e che anzi siano spinti/e a trattenersi dall’agire dal ricordo e dall’anticipazione di così tanto dolore e sofferenza; e provate a immaginare che questo avvenga nel nome dell’essere vivente.
Judith Butler, Critica, coercizione e vita sacra in “Per la critica della violenza” di Benjamin, (Trad. Sergia Adamo), in Aut Aut n. 344/2009, p. 100
La forma più grave di oppressione è proporre alle donne di omologarsi al modello maschile consapevolmente, fino a “meritare” il complimento “Donna, sei un vero uomo”. La forma che chiamiamo neopatriarcato è quello di una oppressione che non nega i diritti purché siano astratti, pari e non venga messa in campo, come fattore di mutamento, la differenza, purché non si pretenda di giocare intera la propria storia, anche passata, e non si voglia non studiarla pietosamente per “colmare una lacuna” filologica, ma anche riviverla per riempire di identità ciò che fu passivo, di conoscenza ciò che fu sepolto, di futuro ciò che fu necessità, di libertà ciò cui non si riconobbe nome. È questo che il neopatriarcato non accetta, non vuole, non ammette. Ed è questo difficile parto storico della differenza che anche noi donne talora rifiutiamo, quasi spaventate dal rischio dell’evento. Corre un rapporto biunivoco, ed equivoco insieme, tra il nostro stare meglio, avere accesso a tutto e il nostro stare peggio, il non avere più quasi accesso a se stesse; tra il mettere in comune le nostre capacità, non rifiutare la parità, e il cedere ad altri subito la rappresentanza di noi. Quando, ad esempio, a qualche persona maschile può venire in mente di stabilire alleanze con forme di integralismo religioso mettendo in campo il rispetto per la vita (aborto ed ecologia) è evidente a ciascuna donna quanto sia facile, involontaria e “nobile” la nuova ideologia patriarcale. Come tutte le ideologie genera anche la più ottusa e fitta falsa coscienza: chi percorre tale strada si ritiene un “progressista”.
Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Edizioni Felina Libri 1987
L’alterità che il secolo si dedica a colonizzare sta sia all’esterno sia all’interno dell’Occidente.
Mentre l’antropologia criminale misura i crani dei devianti, le scienze mediche contendono alle donne la conoscenza di sé stesse. È il passaggio cruciale di una lotta per il monopolio diagnostico e terapeutico che ha come posta il controllo del corpo fecondo. Ancora nel primo Ottocento lo si guarda con gli occhi della tradizione, che tengono in primo piano la percezione femminile di dolori, gonfiori, movimenti del feto. Alla fine del secolo, lungo un cammino che va dalle mani del medico allo stetoscopio ai raggi X e che continuerà nel ‘900 con l’ecografia, la gravidanza è ormai un insieme di riscontri “oggettivi” accertati dai professionisti, attestati pubblicamente e rilevati sul piano giuridico. Anche se l’Ottocento non è la fonte di tutti i mali, certo rappresenta il momento chiave della moderna espropriazione del corpo.
Con un movimento parallelo, le forme di conoscenza del passato in cui si erano fino allora esercitate le donne vengono svilite a impressionismo aneddotico-amatoriale. Al racconto “particolare” e decentrato si contrappone la storia cosiddetta generale, oggettiva, professionalizzata; all’interesse per molte e diverse forme vitali subentra una focalizzazione rigida sulla sfera politica, sulle sue fonti e procedure. Associate grossolanamente alla sfera privata, le donne sono estromesse anche come soggetto storiografico.
Se è vero che tutte le branche del sapere moderno si formano per differenziazione, la scelta dello spartiacque resta significativa: la nuova storiografia scientifica, dove signoreggiano lo Stato, le istituzioni, le guerre, si qualifica precisamente per l’intreccio maschile. Chi scrive di donne non fa storia. Delle donne parleranno il romanzo, il dramma, la commedia, l’opera lirica. Parlerà moltissimo la biologia, il nuovo linguaggio che fa del corpo e della sessualità un fenomeno extrastorico, a metà fra destino e scienze naturali.
Paradossalmente, questa espulsione dal campo del memorabile coincide con una fase che vede i movimenti femministi acquistare maggiore peso politico, e le adolescenti accedere sempre più numerose all’istruzione superiore, dove non incontreranno né storie di donne né scritti di donne.
Sprofonda così, forse l’ultima in ordine di tempo, una tradizione di saperi che aveva rappresentato un’alternativa alle concezioni universalistiche e dinastico-militari della storia. Non spariscono le autrici, e anzi alcune, per esempio le prime laureate in storia in Svezia e Germania, studiano e scrivono di donne; ma è una presenza marginalizzata, e il filo tarda a riannodarsi, tanto più che all’altro capo c’è stata spesso una noncuranza da nate ieri.
Anna Bravo, Inventare intrecci, dire la verità: donne e uomini fra storie vissute e storie raccontate, in Scrivere vivere vedere, a cura di Francesca Pasini, La Tartaruga, Milano 1987 p. 14-15
Tutte e tre le attività e le loro corrispondenti condizioni sono intimamente connesse con le condizioni più generali dell’esistenza umana: nascita e morte, natalità e mortalità. L’attività lavorativa assicura non solo la sopravvivenza individuale, ma anche la vita della specie. L’operare e il suo prodotto l’”artificio” umano, conferiscono un elemento di permanenza e continuità alla limitatezza della vita mortale e alla labilità del tempo umano. L’azione, in quanto fonda e conserva gli organismi politici, crea la condizione per il ricordo, cioè la storia. Lavoro, opera e azione sono anche radicati nella natalità in quanto hanno il compito di fornire e preservare il mondo per i nuovi venuti, che vengono al mondo come stranieri, e di prevederne e valutarne il costante afflusso. Tuttavia, delle tre attività, è l’azione che è più in stretto rapporto con la condizione umana della natalità; il cominciamento inerente alla nascita può farsi riconoscere nel mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire. Alla luce di questo concetto di iniziativa, un elemento di azione, e perciò di natalità, è intrinseco in tutte le attività umane. Inoltre, poiché l’azione è l’attività politica per eccellenza, la natalità, e non la mortalità, può essere la categoria centrale del pensiero politico in quanto si distingue da quello metafisico.
Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994 p. 8
La cultura occidentale ha separato corpo e anima, spaventata dal mutamento e dal limite insiti nella storia umana, ma chi ha cura dei corpi è sempre in contatto con l’intimità dell’anima.
Pochi ne hanno piena coscienza e sanno operare con gesti precisi ma discreti, potenti senza esercitare potere, intelligenti senza diventare arroganti, competenti senza essere invadenti.
Affidare il proprio corpo è il modo con cui comincia e si chiude la vita di ognuno e ognuna.
Il corpo è inerme, affidato alle cure di altre/i, all’inizio e alla fine della vita e la malattia è forse insieme esito della memoria e sperimentazione del nuovo, passaggio fondamentale per la crescita della coscienza di sé e del rapporto con le altre, con gli altri.
Accompagnare questo passaggio, favorire questa crescita, è sempre una pratica magistrale. Coloro che per caso o scelta esercitano questo compito sanno di poter essere buone o cattive maestre, buoni o cattivi maestri, nella misura in cui imparano a riconoscere l’inevitabile asimmetria dei ruoli, ma anche l’infinita variabile della reciprocità di questo apprendistato.
Rosangela Pesenti 11 gennaio 2007