Meloni: familista, non femminista

Meloni ha reso femminile la politica? Mi sembra un’affermazione esagerata e fuorviante.

Meloni non mi sembra femminista, è familista.

Per la figlia non vuole diritti ma privilegi, visto che progetta di farla crescere in un mondo in cui le differenze sociali si strutturano per nascita e si perpetuano per genealogie ereditarie (anche non di sangue se torna utile).

Le politiche razziste nei confronti di donne e uomini migranti, bambine e bambini italiani ridotti ad essere “stranieri in patria”, unite all’orientamento sessista nei confronti dei diritti delle donne (impedimenti all’aborto, pro-life nei consultori e ospedali, bonus ridicoli, tagli vari ai servizi e la lista sarebbe lunghissima) hanno avuto un’accelerazione.

Accelerazione del peggio contro un lungo percorso costellato di lotte perché nessun governo, dall’unità d’Italia ad oggi, ha “spontaneamente” operato a favore delle donne così come nessun parlamento ha varato leggi per la piena cittadinanza femminile senza la fatica di un impegno politico costante e diffuso da parte delle nostre associazioni e del più generale movimento i cui eventi fondanti e determinanti ancora non si studiano a scuola.

In linea con la tradizione delle donne di destra anche Meloni, proprio perché donna, riesce dove gli uomini falliscono. Riesce a portare a casa obiettivi che riducono la democrazia, penalizzano le cosiddette fasce deboli del lavoro di cui le donne sono gran parte, riducono e peggiorano i servizi, rilanciano il controllo sociale della libertà sessuale e riproduttiva.

Solo l’ignoranza storica può vederla lontana dall’angelo del focolare propugnato come modello dal fascismo. L’angelo del focolare di matrice cattolica, si accostava bene alla politica razzista ed eugenetica del fascismo che considerava le donne come madri prolifiche di futuri guerrieri e/o tradizionale “riposo del guerriero”.

Ma questa fu la politica del fascismo insediato al potere, in realtà, con le ovvie differenze, visto che la storia non si ripete per identità ma per linee di continuità sempre innovative, Meloni esprime convinzioni e politiche che erano già delle prime donne fasciste e nazionaliste, le donne che sostennero il regime e ne furono perfino malamente ripagate.

Se non studiamo la storia politica delle donne italiane in tutte le sue sfaccettature e nell’intreccio con la storia degli uomini come genere, delle relazioni famigliari e politiche, delle istituzioni e della marcatura maschile del loro funzionamento, capiamo poco del presente.

Quello che ostenta Meloni non è un matriarcato (non usiamo le parole a sproposito) ma il rinnovato patto famigliare in cui anche una donna trova il suo spazio se ostenta il femminile con parole similfemministe (come nel dopoguerra c’era il similoro) e si pone nella tradizione della perfetta riproduzione dei dispositivi che dividono le donne in categorie sociali attraverso la negazione di diritti fondamentali.

Meloni non è una matriarca, è più un “regiora”, la reggitora, la figura femminile fondamentale nell’organizzazione contadina che gestiva le decisioni del patriarca e garantiva la gerarchia famigliare nella riproduzione del patriarcato esercitando tutte le capacità di mediazione, manipolazione, sotterfugio, furberia, in un sottopotere faticoso e poco gratificante.

Mia nonna paterna era una reggitora buona e giusta ma il suo potere non la emancipava, non faceva di lei una donna libera e il solo diritto di voto arrivo troppo tardi per fare di lei una cittadina a pieno titolo.

La famiglia tradizionale, che Meloni rinnova con disinvoltura per sé utilizzando le leggi che altre donne hanno conquistato per tutte, è sempre fondata sulla madre che gestisce il potere secondo i dettami patriarcali.

Se ci chiediamo perché in Italia sia una donna di destra ad essere la prima presidente del Consiglio e non ci sia mai stata una presidente della Repubblica esiste solo una risposta complessa in cui non mi avventuro qui, ma certo sarebbe interessante analizzare circostanze di veti e impedimenti, collusioni e complicità, abbandoni e tradimenti, persistenza di subalternità nelle aree politiche apparentemente più schierate per la giustizia e quindi almeno per la parità.

Trovo comunque improprio l’accostamento di Meloni alle donne che hanno operato per costruire la cittadinanza femminile come qualità imprescindibile di una repubblica democratica negli anni difficilissimi del secondo dopoguerra.

A parte le ovvie differenze generazionali, sono determinanti le differenze di visioni politiche visibili nelle scelte e nelle azioni.

Le donne che si sono misurate con scelte difficili nel territorio italiano attraversato da una guerra devastante e dall’occupazione nazifascista hanno investito sulla crescita politica di singolarità collettive, non carriere ma protagonismo insieme all’associazionismo.

Donne forti che hanno lottato in ogni luogo e circostanza in cui la vita le ha infilate: nelle famiglie e nei partiti, nella scuola e in fabbrica, nelle campagne e nelle città, senza dimenticare mai la qualità molteplice delle vite reali, che sono credibili sulla scena politica, se si vuole democratica, solo se non prevedono servitù né propria né altrui a proprio sostegno.

Dalla Seconda guerra mondiale si è resa visibile una generazione politica di donne di età cultura esperienze diverse che ha cercato la convergenza collettiva del comune interesse avvicinando ceti sociali, origini territoriali e famigliari, convinzioni politiche e religiose, orientamenti sessuali e riproduttivi. Vicinanze di comuni interessi per mutare la politica cancellando leggi inique e immettendo l’esistenza concreta delle donne nel pensiero politico astrattamente e criminosamente declinato al maschile patriarcale.

Il femminismo degli anni ’70 si innesterà su quelle azioni come incontro/scontro tra generazioni politiche, colorando le lotte per la cittadinanza di una visibilità del corpo e dell’esistenza femminile che afferma quel pensiero di sé capace di diventare diritto inalienabile a pensare il mondo, quale mondo possa essere davvero abitabile da donne libere che generano libertà di tutte e tutti.

Dagli anni ’90 dello scorso secolo le lotte collettive delle donne vengono messe in ombra come reperti di un passato di conquiste date per scontate (e proprio per questo passo dopo passo usurate e cancellate): le giovani donne che crescono in quegli anni si ritrovano come modelli le veline e le donne in carriera.

Il mantra è sull’impegno individuale mentre le parole chiave dell’esistere nel mondo diventano successo, merito, autorità.

Se guardo il panorama femminile a distanza posso vedere l’intelligenza politica di donne “singolarmente collettive” che si sono pensate come parte di un movimento da nutrire, alimentare, organizzare, in cui confondersi nella costruzione di quella novità esistenziale che per secoli era stata relegata al silenzio. E nel silenzio comunque non aveva mai smesso di parlare con tutti i linguaggi a propria disposizione.

Sono la generazione politica che ha lottato per l’emancipazione tra il 1943 e il 1963 (per usare due anni simbolici), una generazione femminista nei fatti e nello sguardo sul mondo, su di sé e sulle altre, che ha generato le condizioni per le quali oggi ogni femmina che nasce può crescere pensandosi naturalmente donna libera.

Erano donne che hanno pensato un paese di donne e uomini, di giustizia sociale e inalienabili diritti individuali allo studio, alla salute, alla casa, alla gioia.

La generazione del femminismo a cui appartengo, per età e scelta politica, orientamento sentimentale e pratica di vita, cosa ha prodotto nello spazio politico istituzionale (scuola servizi e sanità compresi)?

Per ora: nei casi migliori, un certo numero di oneste carriere, esito di una costante fatica a farsi strada nella persistenza dei dispositivi di riproduzione dell’immaginario monosessuato; in molti casi un certo numero di abili carriere di donne che hanno imparato ad usare l’ignoranza maschile della cultura relazionale e le rodate pratiche femminili di sopravvivenza per farsi strada nel mondo maschile. Complessivamente migliaia di singole donne che si attestano in un’emancipazione prevalentemente imitativa degli uomini dal cui modello poche si discostano brillando di luce propria e molte si adattano perfino con orgoglio e talvolta perfino superando l’originale nel peggio. L’esito per ora è stato il rinnovamento e rilancio dei dispositivi che riproducono le differenze sociali attraverso molti peggioramenti, fino all’invisibilità politica di intere quote di donne lavoratrici ormai fuori dalla possibilità di elaborazione collettiva delle proprie istanze di libertà e giustizia. Questo è accaduto attraverso processi di cooptazione femminile passati anche da una scuola che ha continuato a cancellare il femminile come genere, le donne come soggettività e soprattutto le azioni e i processi collettivi agiti e generati dalle donne sulla scena politica e sociale.

I governi che si sono succeduti, soprattutto negli ultimi trent’anni sono responsabili del disastro attuale ma i governi precedenti, quelli della DC per capirci, non erano certamente meglio: è cambiato invece il posizionamento collettivo delle donne e questo è determinante.

Meloni non mi sta antipatica e nemmeno simpatica, guardo alla sua politica, alla sua rappresentazione e alla sua capacità di manipolare le parole esposte con la finta assertività di un tono forte e sicuro: perfino il concetto di genealogia, utilizzato nel femminismo per ritrovare il passato di cui siamo figlie, per scegliere la storia a cui sentiamo di appartenere, viene piegato al familismo delle relazioni in cui si esalta la madre, la figlia, la sorella, come se si trattasse di scelte e non della casualità della riproduzione umana.

Il familismo è il fondamento del patriarcato, non a caso ampiamente strutturato anche nella delinquenza organizzata. Ribellarsi alla famiglia e ai suoi vincoli è stato il processo, agito soprattutto dalle donne, che ha liberato l’affettività, le relazioni e le visioni famigliari, anche se non ha intaccato ancora il filone economico ereditario.

Meloni non mi rappresenta. E in questo momento non mi sento politicamente rappresentata, nemmeno nella confusione del femminismo che ha bisogno di aggettivi o di plurali che disegnano identificazioni rigide contro quell’attivarsi molteplice che vive nel confronto politico.

Meloni è esattamente la mia sconfitta. Lei è una delle tante donne arrivate a gestire ruoli di potere attraverso abilissimi percorsi di alleanza con gli uomini, giocando e giocandoli sul loro stesso terreno. L’hanno fatto altre nel passato, regine e imperatrici nelle monarchie e imperi, esponenti della destra liberale nelle moderne zoppicanti democrazie.

Non le assomigliano le tante, di cui poche e rare visibili, che hanno provato a percorrere strade inedite di autorevolezza femminile radicata nelle collettività e non solo nelle necessarie alleanze.

Lei non mi rappresenta e non si occupa di ciò che sento indispensabile pe il mio ben-essere. Continua e peggiora indirizzi politici che si sono scavati un tracciato sicuro, di governo in governo, peggiorando la mia/la nostra vita. Probabilmente non può fare altro se vuole perseguire la sua principale ambizione, forse non vuole fare altro che perseguire la sua personale ambizione.

Meloni guarda diritta, io mi guardo intorno in una circolarità variabile che disegna percorsi inediti senza rinunciare all’idea di giustizia, quell’idea semplice per la quale aspiriamo a una buona vita e qualche sprazzo di felicità per tutte e tutti.

Io sono della generazione delle nonne, lei delle adulte, nostre figlie. Lei ha vinto, io ho perso. Per ora, ma il tempo dirà la qualità politica e umana della sua vittoria. E gli esiti.

Il futuro sta crescendo accanto a noi, il futuro arriva anche da lontano e ci cresce accanto come pianta nuova rigenerante.

Per ora, e finché aumentano le spese militari, le carriere politiche delle donne mi sembrano ininfluenti. Emancipazione decorativa o funzionale.

Come diceva sempre Lidia Menapace, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, se vogliamo un mondo diverso c’è lavoro e gloria per tutte.