Noi che siamo rimaste a casa con gli impegni di sempre, le mani occupate nell’angusto orizzonte del quotidiano e lo sguardo a frugare le immagini avare che ci arrivavano dal video e dai giornali. Noi: da principio magari distratte e poi rincuorate, e non trovo un altro termine, se non questo abusato e retorico del cuore, per definire un sentire che si è caricato in pochi giorni di quell’insieme di attese e interrogativi che non sono solo il segno di una “ragione politica”, troppo spesso bloccata nel corto circuito di parole afone, ma quello di un sentire più profondo, di un’intelligenza delle cose che ci ha rimesse insieme a fare, a pensare, finalmente, a partire dal fatto che ognuna ha sentito, prima di tutto da sé e per sé, che lì si aprivano territori più vasti da percorrere, per tutte, quasi scorresse, dietro le immagini ufficiali, quel potente tam tam delle donne che là, a Pechino, era già diventato parola.
Perché se di evento si è trattato non sono stati i media a diffonderlo ma i mille legami che ingarbugliavano, con fili sempre più tenaci, cuore e pensieri a quel lungo viaggio che altre affrontavano anche per noi.
I media infatti, avari e distratti per vocazione quando si tratta di donne, ci hanno raccontato uno dei tanti appuntamenti internazionali importanti, un tempo e un luogo solenni dedicati, con un filo di paternalismo nel racconto, alle donne e ai loro problemi: al centro i discorsi scontati della Conferenza, ai margini le immagini, dal taglio spesso folcloristico, del Forum.
Ma proprio da quelle immagini, che da tempo abbiamo imparato a leggere, ci è arrivata, con un’evidenza che le altre al ritorno ci hanno felicemente confermata, la capacità dei movimenti delle donne di porre al centro la propria agenda dei lavori chiamando i governi a discutere non di “donne escluse da integrare nello sviluppo” ma di ciò che pensano le donne dello “stato del mondo”.
Uno sbalordimento felice che ha colto di sorpresa anche molte delle donne partite tutto sommato in sordina, con piccoli mandati di piccoli gruppi, più per passione politica personale che per tensione del movimento italiano e che ora ci restituiscono, raccontando e raccontandosi, nei luoghi delle donne di nuovo affollati e curiosi, un sapere della politica che si era appannato nei sofismi linguistici o nelle rozze cancellazioni di un emancipazionismo rampante minoritario e di un’accettazione dei ruoli più pubblicizzata che reale, ci restituiscono il senso di una collettività multiforme che possiede la consapevolezza profonda della pregnanza attuale della propria progettualità politica, immagini di donne che sanno misurarsi col tempo della giornata e con il tempo del futuro.
Nello stesso documento del forum (e l’invito è ad una lettura attenta e partecipe) si chiede per tutte le donne “un decente standard di vita, salute, acqua e aria pulita, cibo sufficiente, vestiario e sanità, un’abitazione adeguata, adeguata sicurezza e assicurazione sociale, educazione e assistenza legale” e si mettono sotto accusa “la globalizzazione delle cosiddette economie di mercato del mondo” e “il modello di crescita corrente” che “genera una grande quantità di beni materiali per pochi e l’impoverimento di molti” affermando con forza che “il nostro lavoro rappresenta un sostegno invisibile per la prosperità del mondo”.
Sono grata alle donne del Forum di Pechino per averci tolte dal battibecco insulso di una politica che ci immeschinisce sia quando la guardiamo incredule e disgustate (e impotenti) che quando ci tappiamo occhi e orecchie nel tentativo (vano) di conservare un piccolo territorio di dignità al nostro vivere sociale; sono grata alle donne di Pechino per averci restituite alle nostre responsabilità, difficili certo, faticose ancora, ma all’altezza giusta delle nostre storie personali e collettive, per averci richiamate alla politica che è, al dunque, come esplicitamente dimostra il documento del forum, sobrietà della parola, efficacia delle forme, consapevolezza dei gesti e soprattutto patto, convenzione, conclusione.
Per questo anche col cuore, perché se lì tra donne alla fine molti abbracci ci sono stati non si è trattato della spettacolarizzazione enfatica di un luogo comune ma della realtà fisica, da cui ci sentiamo contagiate, di quell’intelligenza dei corpi che sa esattamente come, quando e perché può a buon diritto dirsi “corpo politico”.
Ottobre 1995 – La Melagranata