Le parole e i diritti: note a margine

Silenzio
Nei contesti comunicativi la parola è d’obbligo, non si esprimono le proprie argomentazioni con il silenzio.
Sono stata in silenzio dodici secondi prima di cominciare a parlare e dopo i primi sei ho ricevuto un sollecito, con il tono di affettuoso incoraggiamento.
Di fronte a me ho colto sui volti qualche espressione di stupore, chi mi ha invitata a questo convegno forse avrà avuto un attimo di imbarazzo.
Questo significa che noi siamo sempre immerse e immersi in un universo comunicativo in cui decodifichiamo velocemente messaggi attraverso il filtro della nostra storia, sociale famigliare linguistica.
Si dice che la comunicazione passi per il 75% dal non verbale, quindi molti messaggi entrano nel mio sistema recettivo prima che io ne prenda coscienza.
Il linguaggio non si genera nel vuoto ma dentro un’organizzazione del tempo, le strutture fisiche del luogo e una grammatica dei corpi, costituita da posture atteggiamenti espressioni abbigliamento, che eccede continuamente la grammatica della lingua definendola e ridefinendola a seconda dello spazio comunicativo che i corpi pensanti predispongono e vivono.
La prossemica e lo spazio architettonico in cui siamo prevedono che chi sta in cattedra esprima un discorso verbale e che questo discorso abbia determinate caratteristiche, che fluisca in forma argomentativa e documentata. Qualche citazione poetica potrebbe essere accolta solo a chiosa del discorso, un intero poema sarebbe un intervento straniante.
Il silenzio è imprevisto: turba, disturba, sorprende, imbarazza.
Dodici secondi di silenzio sono nulla eppure modificano la percezione del contesto.
Il silenzio funziona un po’ come la punteggiatura nella scrittura.
A scuola usavo sempre questo esempio:
“La donna senza l’uomo è nulla. La donna: senza, l’uomo è nulla.”[1] Un anno le mie alunne ne fecero un manifesto appeso sulla parete più visibile dell’ingresso.
In realtà la punteggiatura traduce l’intonazione del discorso orale, il silenzio è uno strumento e una forma espressiva ben più potente e polisemica nella sua possibilità di rendere visibile il contesto, di solito lasciato sullo sfondo come ovvietà insignificante.
Quando parlo il messaggio che arriva è sempre più ampio articolato e complesso di quello che sto dicendo, se resto in silenzio metto in primo piano le percezioni di chi mi sta guardando, percezione di me e percezione di sé.
Quando a scuola entravo per la prima volta in una classe rumorosa e indisciplinata restavo in silenzio, anche a lungo, finché alunne e alunni non tacevano e tornavano al proprio posto. A questo punto cominciavo a parlare della comunicazione e dell’ordine che avevano inconsapevolmente costituito invitandoli a mettersi in disordine in silenzio. Ordine e disordine sono due temi fondamentali per capire l’organizzazione del potere e i nostri posizionamenti. Sono due termini che utilizziamo nella gestione delle nostre case che invece andrebbero osservate e vissute con i criteri di armonia/disarmonia e qualche volta il cosiddetto disordine è più armonioso di certe tipologie di ordine.
Il silenzio può diventare uno strumento potente nelle pratiche di opposizione nonviolenta, anche di questo ho fatto esperienza, sia politica che professionale.
Il silenzio qui mi serviva a suscitare un piccolo sentimento di sconcerto per evocare quel lunghissimo silenzio a cui sono state condannate le donne per secoli, attraverso regole scritte e non scritte, attraverso l’interdizione ai luoghi di potere giuridico, religioso, militare, attraverso la rimozione della loro/nostra presenza reale, la svalutazione della parola e dell’agire di metà della specie umana, la cancellazione dalle abitudini discorsive che fanno prevalere il maschile come neutro, la deformazione degli eventi memorabili che formano la consapevolezza collettiva del passato, attraverso l’ignoranza pregiudiziale della presenza femminile nella storia, in ogni storia.
Il silenzio è stato per secoli imposto alle donne nella loro vita in famiglia, a scuola, quando ne hanno avuto l’accesso, nei tribunali, presenti a lungo solo nei ruoli di imputate, nei luoghi di culto, ammesse talvolta tardivamente alla parola solo in ruoli ancillari.
Gli uomini sanno spesso usare il silenzio come atteggiamento di  controllo e magari premessa di violenza.
Le donne usano spesso il silenzio come sottrazione, fino all’estremo e ultimo silenzio della morte.
Troviamo l’analisi di questi atteggiamenti nella letteratura prima ancora che nella psicologia. Un testo in cui il silenzio della donna evidenzia il dominio maschile emerge proprio dalla falsificante autocoscienza di un marito nel racconto “La mite” di Dostoevskij che si presta sempre ad un interessante dibattito.
Le nostre rappresentazioni linguistiche sono soggette a tre procedure universali del modellamento umano: generalizzazione, cancellazione, deformazione e le procedure sono sistemi che costituiscono strutture mentali, immagini comprensibili e familiari, creano il nostro immaginario.
Questa lunga storia che ci viene trasmessa come inesistenza e/o insignificanza incide ancora sulle nostre esistenze nel modo in cui stiamo immaginando noi stesse, costruendo la nostra vita.
Se parlo dell’UOMO primitivo l’immagine che si forma generalmente è quella di un maschio rozzo, spesso violento. La cancellazione del femminile genera uno stereotipo che falsifica anche il maschile e non ha alcun riscontro documentato.
Ho utilizzato questo giochino per quarant’anni a scuola, nei corsi di formazione e perfino chiacchierando in treno (ai tempi in cui in treno si chiacchierava) e posso quindi documentare con l’esperienza la persistenza dello stereotipo.
La parola uomo non significa anche donna e ormai conosciamo a questo proposito anche le vicende delle suffragiste inglesi dell’Ottocento e di quelle italiane che nel 1906 hanno cercato di utilizzare la contraddizione della legge a proprio favore iscrivendosi alle liste elettorali (sollecitate dalle femministe come Maria Montessori).
Al termine maschile corrisponde, nel nostro cervello, un’immagine maschile. Ovviamente direi.
Il linguaggio che spaccia il maschile per universale è ingiusto secondo i criteri di una società democratica oggi considerata la migliore per quanto riguarda la garanzia dell’eguaglianza dei diritti e quindi è semplicemente scorretto dal punto di vista della comunicazione e della grammatica.
Il fatto che sia comodo e consuetudinario nel sistema linguistico, sempre necessariamente economico (dire il più possibile con il minor numero di parole) ci pone questioni di scelte e anche di intelligenza creativa per trovare un nuovo equilibrio economico.
Se per arrivarci dobbiamo passare da forme di ridondanza e meno economiche evidenziando due soggetti non crolla il mondo. Il piccolo rallentamento dell’esposizione consente di aprire visioni più ampie e strade nuove.
 
Il silenzio dei libri si definisce propriamente censura, rimozione, generalizzazione impropria di ciò che è parziale, deformazione dolosa dei dati di realtà, induzione alla svalutazione e ignoranza di tutta una gran parte della storia attraverso incentivi al disconoscimento dell’esistenza umana nella pienezza asimmetrica dei due sessi che ne definiscono il sistema riproduttivo per ragioni che si perdono nella biostoria della nostra specie.
Lidia Menapace, che già nel 1967 è stata la prima docente (o forse una delle prime se teniamo conto della censura informativa sull’attività delle donne) in Italia a tenere un corso sugli stereotipi di genere e di classe presenti nei libri della scuola elementare, all’Università Cattolica di Milano, ci ha ricordato per anni che il genocidio simbolico del genere femminile nella lingua e nella cultura ha legittimato per secoli le uccisioni delle donne reali, come gruppi o singole. Dalla caccia alle streghe agli stupri di guerra fino alle violenze domestiche e ai femminicidi, che sono l’unico reato costante e in crescita, dobbiamo registrare la violenza sulle donne come lunghissima durata della struttura profonda che informa i dispositivi sociali di potere nelle istituzioni fondamentali della società.
Il genocidio simbolico che si afferma, non a caso, con la nascita della Stato borghese è un dispositivo di occultamento dei corpi che induce a percepire la metà della popolazione (spesso maggioranza) come minoranza.
In questo modo dal genocidio simbolico si arriva facilmente a quello che Daniela Danna definisce Ginocidio[2], violenza generata dal desiderio di controllo degli uomini.
Ricordiamo che la violenza genera paura e induce sempre comportamenti divisivi perché suggerisce diverse vie di salvezza a cominciare da quella che appare più sicura: l’adattamento alle regole imposte dalla parte della popolazione che viene percepita come maggioranza.
Oggi si uccide una donna perché esercita i diritti civili di cittadinanza, perché vuole proteggere i figli e le figlie da una vita intrisa di violenza.
Cancellate le leggi più nefaste contro le donne, processo che si è parzialmente concluso in Italia nel 1996 con il riconoscimento della violenza sessuale come reato contro la persona e non contro la morale, l’induzione alla negazione di sé, al disconoscimento e deformazione del corpo femminile sono state affidate alla potenza dei media[3] e al perdurare della falsa neutralità linguistica e cancellazione storica nella tradizione scolastica.
La persistenza nei manuali scolastici del canone letterario e filosofico a dominanza maschile, con rare eccezioni che, in quanto tali, non mutano la memorabilità della struttura profonda, costruisce il nostro immaginario. Il lavoro di decostruzione è complesso, come se dovessimo smontare una casa conservando il materiale per poterla ricostruire diversa.
Il canone viene riprodotto e rilanciato, per scelta e/o ignoranza, dalle trasmissioni colte, dai media divulgativi, da quelli che Lidia Menapace definiva patriarchi gentili vecchi e giovani, osservando che sono perfino più pericolosi di quelli violenti.
Ho sempre cominciato le lezioni sugli inizi della nostra storia letteraria accostando ai testi dei grandi i due sonetti che ci restano della censura a cui è stata condannata Compiuta Donzella, ricordata con questo appellativo per l’eccellenza ma non abbastanza da conservare i suoi scritti e il suo nome.
Il suo silenzio, che ancora ci interroga, apre lo spazio a tutta la letteratura delle donne che nei secoli è esistita accanto alla produzione maschile e talvolta con maggiore successo. Ricordo Grazia Deledda, Sibilla Aleramo, Marchesa Colombi, Alba de Céspedes, solo per fare qualche nome a caso.
Le donne hanno scritto e scrivono. Non posso non ricordare qui che sono sei donne le prime a scrivere dei campi di sterminio in Italia: Liana Millu, Luciana Nissim, Giuliana Fiorentino Tedeschi, Frida Misul, Lewinska Pelagia, Alba Capozzi Valech, come ricorda sempre la mia amica storica Elisabetta Ruffini.
Pensando a questo incontro mi è capitato tra le mani il testo divulgativo di un insigne linguista italiano che avevo letto qualche anno fa con piacere. Il testo, pubblicato da una decina di anni, ripercorre la riflessione sul linguaggio verbale attraverso il pensiero di diciassette uomini.
Riguardandolo questo elemento mi è balzato agli occhi. Possibile che non ci sia una riflessione femminile, sulla lingua, degna di memoria in duemilacinquecento anni di storia? Nemmeno un cenno al fatto che si definisce “lingua madre” quella appresa nell’infanzia? Lingua madre che diventa matrice di pensiero già mentre cresciamo nel grembo materno e avvertiamo la vibrazione dei suoni, mentre diventiamo corpo sensibile, senziente e poi pensante.
La rivoluzione digitale ha una straordinaria valenza nella democratizzazione comunicativa per la diffusione quantitativa ma ha anche la potenzialità qualitativa di mettere insieme oralità e scrittura, silenzio, parola, immagine e la tramutazione dall’una all’altra.
Per trovare criteri per capire cosa ci sta accadendo possiamo rifarci alla storia filosofica dei sistemi comunicativi ma anche ripercorrere l’apprendimento personale dentro la storia intima che parte dalla nostra nascita e prima ancora.
Si parla di lingua madre perché dentro il corpo materno in cui veniamo generate e generati si imprime in noi la matrice che ci consente di imparare la lingua prima delle spiegazioni, prima di avere nozioni grammaticali.
Non cito autore e testo per scelta.
Mi permetto una piccolissima insignificante omissione come parte della mia personale lotta per incidere sul cambiamento culturale. Tutte noi che abbiamo studiato possiamo citare uomini a iosa mentre conosciamo pochissime donne e finiamo col citare sempre le stesse. Ho deciso di smettere di citare uomini finché non vedrò cambiamenti significativi nelle relazioni politiche.
Se provassimo in molte e ovunque a omettere o ridurre al minimo, anche solo per un paio d’anni, qualsiasi riferimento a testi di uomini cercando testi di donne potremmo assistere a interessanti dibattiti.
Molti uomini (e anche donne) sarebbero costretti a smettere di considerarsi colti vantando un’immensa specifica ignoranza.
Penso che non ci dovrebbero essere censure nella libertà di lettura dei testi ma non possiamo nemmeno continuare a citare i testi di uomini come se le donne non esistessero e non avessero avanzato legittime critiche.
Quando ho incontrato il diario di Sofia Tolstoj ho visto in altro modo le opere di Leone e le sue posizioni politiche.
Quando a scuola facciamo leggere Hegel possiamo accompagnarlo con la lettura di Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi.
Adele Bei, prima donna nominata nel Senato della Repubblica, appellata come senatore ha risposto: Sono una senatrice. Fondò il sindacato delle Tabacchine, non del Tabacco, per segnalare l’esistenza di un lavoro svolto da donne.
Nadia Spano affermò che se si voleva conservare il termine “capofamiglia” avrebbe dovuto essere riferito alle donne che lo erano nella realtà.
Dietro di noi non abbiamo il silenzio delle donne, ma le azioni violente con cui le donne sono state messe a tacere in vita o in morte. Oggi noi possiamo scegliere tra il silenzio delle complicità o le azioni solidali che salvando la memoria ci sostengono nel costruire reti tra noi.
Diritti
Dagli anni ’90 si è sviluppata una multiforme vendetta politica nei confronti delle donne italiane che nei primi cinquant’anni di storia della repubblica, attraverso un movimento vasto capillare articolato e continuamente rinnovato, hanno scritto, proposto e conquistato leggi fondamentali per definirci come paese democratico.
L’attacco a scuola e sanità pubbliche insieme alla precarizzazione del lavoro, per citare solo le situazioni più eclatanti, hanno fermato un processo cresciuto tenacemente, generazione dopo generazione.
La stessa legittima richiesta di parità delle donne è stata svuotata di significato nei rigidi dispositivi della politica (che si riproducono anche nei movimenti) e utilizzata per leggi apparentemente paritarie, come quella sulla bigenitorialità, che subdolamente inducono a confermare i peggiori stereotipi sessisti e consentono di penalizzare le madri nelle separazioni, anche a favore del padre violento e/o possessivo.
Il termine bigenitorialità introdotto nella legge come apparente affermazione dei diritti dei/delle minorenni è la manipolazione linguistica di qualcosa che non può essere un diritto, infatti non si può imporre per legge di avere due genitori a chi ne ha perso uno per causa di morte.
Perfino chi perde entrambi i genitori può essere cresciuto/a da parenti prossimi idonei. Generazioni intere sono state cresciute da madri sole, vedove di guerra o di emigrazione e per secoli i padri hanno utilizzato la certezza del dominio sulla prole per evitare il lavoro educativo e il coinvolgimento affettivo con il consenso e l’approvazione sociale, accettando anche a proprio vanto e alibi la costrizione strutturale del lavoro che, ancora oggi, non prevede di fatto il tempo per l’esercizio della paternità affettiva ed educativa.
Una struttura del tempo di lavoro che in genere penalizza fortemente le madri e non viene comunque mai contestata dai padri.
Non sono una giurista ma penso che, in attesa di cancellarla, la legge sulla bigenitorialità andrebbe utilizzata solo come aggravante per il colpevole nei reati di femminicidio.
In un testo di alcuni anni fa Paola Tabet[4], insigne antropologa italiana, ci invitava a fare attenzione alla possibilità che i diritti conquistati vengano utilizzati contro di noi.
In particolare ci ricorda che “mentre i vecchi rapporti di riproduzione si stanno modificando senza però che niente cambi nei rapporti socio-economici tra i sessi – i salari delle donne continuano ad essere inferiori, l’accesso al lavoro ineguale, ecc. – possiamo chiederci se non sono le donne a pagare da sole il costo di questa trasformazione.”
Ancora una volta, aggiungo, visto che è già accaduto, come nel passaggio dalla proprietà feudale alla proprietà privata per fare un solo esempio[5].
E più avanti scrive: “L’indebolimento dell’istituzione matrimoniale provoca dunque un deterioramento della situazione delle donne: ormai gli uomini possono non farsi più carico dei costi materiali e psichici di un lavoro riproduttivo di cui continuano a profittare collettivamente e, spesso, individualmente […] Questo lavoro riproduttivo (comprendente, è chiaro, la cura e l’allevamento dei bambini), è indispensabile alla perpetuazione del gruppo umano; ma il suo peso non è assunto né individualmente dai padri, né collettivamente dalla società. Potremmo quindi trovarci di fronte ad una forma inedita di sfruttamento delle donne, più schiacciante ancora della precedente. In ogni caso per ora la dissoluzione dei legami privati di riproduzione non sembra comportare la fine dei rapporti di dominio maschile più di quanto la dissoluzione dei rapporti di servitù alla fine del Medio Evo europeo non abbia comportato la fine dei rapporti di classe, ma la sostituzione di una forma di sfruttamento con un’altra”.
Ci è chiaro che nei tribunali si gioca un pezzo importante di questa partita.
Scuola
Nel discorso sul linguaggio l’apprendimento scolastico è centrale perché essendo la scuola istituzione deputata all’istruzione delle giovani generazioni nell’età dei primi e fondamentali apprendimenti sociali, generalizza la riproduzione e la conservazione delle strutture profonde del patriarcato.
Faccio una breve digressione, che riguarda comunque sempre le parole, per dire che a scuola non si raggiungono obiettivi, si impara; non esiste il rendimento scolastico misurabile, esiste l’apprendimento che ti muta qualitativamente ed è valutabile; a scuola non c’è un capitale umano da accrescere ma ci sono persone, bambini e bambine, ragazze e ragazzi che crescono e noi possiamo accompagnare con ciò che di meglio ha pensato e inventato l’umanità nel cammino della conoscenza.
Educare significa portare con sé e il metodo meno efficace è quello autoritario, prescrittivo, ripetitivo; la peggior organizzazione è quella aziendale perché a scuola non si producono pezzi conformi al modello, ma si accompagna la scoperta di sé attraverso la conoscenza dei linguaggi umani; non si lavora con precisione, ma con rigore, che è diverso, non si cerca la conformità ma la creatività.
La scuola è il luogo in cui scoprire perché la storia ti riguarda ma anche perché la matematica ti riguarda e la fisica, l’arte, il cinema, la danza, il teatro, la fresatura di un bullone, il taglio dei capelli, la manipolazione di un corpo sofferente, la manutenzione di un ambiente.
Imparare a leggere il mondo ti genera e rigenera, ti sostiene o ti mortifica, propone strumenti con cui ognuna e ognuno di noi si racconta.
Nella scuola le bambine, le ragazze, sono incentivate al disconoscimento della propria storia di genere attraverso le immagini di una divisione del lavoro che relega le donne nelle aree non considerate economicamente, nelle mansioni del casalingato e della cura occultando la realtà variegata del lavoro femminile, ormai diffuso anche in settori definiti tradizionalmente maschili solo perché a lungo interdetti per legge alle donne.
Le immagini e le metafore del femminile tradizionale nel libri di scuola non fermano certamente le giovani generazioni nella ricerca di una propria realizzazione scolastica e lavorativa ma fanno un’operazione più sottile di inculcamento dei dispositivi classisti per i quali tutti i lavori della riproduzione biologica (crescere bambine e bambini, avere cura di persone malate o anziane), domestica (la manutenzione ordinaria e quotidiana degli ambienti di vita, le procedure richieste dalla preparazione del cibo) e sociale (scuola, sanità, servizi alle persone, pubblica amministrazione) hanno un basso valore sociale e quindi una legittima minore remunerazione economica anche se, di fatto, si tratta di lavori indispensabili alla vita di tutte e tutti.
Questi lavori sono la reale misura del BES, sigla che non indica i bisogni educativi speciali, orrenda distorsione del diritto allo studio introdotta nella scuola, ma il Benessere Equo e Sostenibile che dovrebbe informare i bilanci statali e istituzionali e diventare misura di valutazione del PIL oltre che informare tutte le strutture istituzionali.
Le bambine generalmente disprezzano il lavoro domestico, che viene occultato nella sua organizzazione indispensabile, ritrovandosi poi a svolgerlo di fatto, magari ammantato da missione affettiva alla quale manca quel riconoscimento di dignità come elemento fondamentale del lavoro di cui parla il primo articolo della nostra Costituzione, ridotto per molte donne ancora oggi a quella “funzione” che nell’art. 37 segnala, più che l’ambiguità nel riconoscimento di eguali diritti, la difficoltà di trovare le “parole per dirlo” come nell’efficace titolo del libro di Marie Cardinal, perché la lingua che ha censurato e discriminato a lungo non diventa improvvisamente e magicamente espressiva della differenza dell’esistenza femminile.
Il cambiamento non avviene magicamente ma anche attraverso scelte consapevoli di studio e lavoro.
La lingua che ho imparato mi ha plasmata anche contro di me, quindi mutarla è una scelta costante di lavoro. Questo lavoro è indispensabile per chiunque lavori in una pubblica istituzione e sarebbe ovvio cominciare dalla scuola ma in questo momento occorre farlo ovunque e contemporaneamente se vogliamo che il cambiamento non sia ancora il vago orizzonte del futuro.
La differenza inscritta nel corpo, che a lungo è stata utilizzata in forma discriminante e svalutante, oggi afferma la propria esistenza nella lingua e nella storia ma non si tratta di un processo semplice e indolore.
Basta pensare, come esempio, alla locuzione del “voto alle donne” che troviamo ancora scritta nei libri di storia, come se ci fosse qualcuno titolare del diritto di elargire un diritto in un momento storico in cui esisteva solo una continuità che definirei amministrativa e il paese era in presenza di una reale discontinuità politica, quella che sarà poi sancita con il cambiamento della forma statuale da monarchia a repubblica attraverso il voto a suffragio universale.
Il voto delle donne, la cui richiesta è diffusa già dal 1943, come documentano carte d’archivio, ha rappresentato il primo segno di una cesura storica già in atto e di quel percorso di lotte dentro e fuori dal parlamento grazie alle quali le donne hanno qualificato la repubblica come crescente democrazia, anche se ancora lacunosa e imperfetta.
Nella scuola dell’Italia repubblicana e democratica, mentre avanzava la scolarizzazione femminile, abbiamo constatato il permanere oltre ogni decenza di immagini e metafore che svalutano tutto ciò che storicamente è stato ascritto all’area del femminile. In questo modo generazioni di ragazze sono state indotte ad assumere posture, atteggiamenti, linguaggi e abitudini tradizionalmente ascritti all’identità maschile, a nascondere ciò che consideravano debolezza, emozione, dolcezza, empatia per presentarsi come forti e guerriere secondo uno stereotipo bellico che inneggia alla guerra anche in tempo di pace.
In questo modo viene garantita la riproduzione del modello patriarcale che oggi non ha più bisogno di leggi che ne riservino i privilegi al genere maschile perché le donne sono perfino più efficaci ed efficienti nella conservazione, alla quale portano anche le tradizionali capacità riproduttive di cura, attenzione, flessibilità, lungimiranza, versatilità, empatia e la novità della presenza stessa.
Oggi nella scuola viene legittimata socialmente la stratificazione delle donne nella gerarchia sociale classista a matrice patriarcale: se riesci a fare carriera trovi ovvio che altre si occupino, con stipendi più modesti (nelle ipotesi migliori), di bambini e bambine, anziani e anziane, malati e malate, della pulizia degli ambienti e raccolta rifiuti.
Una quota di donne può raggiungere i vertici delle carriere a patto che una quota ben più grande resti nell’area del lavoro invisibile e/o sfruttato.
L’analisi dell’incastro tra sessismo classismo e razzismo esula da questo intervento ma certamente è il sistema delle relazioni di potere registrato anche dalla lingua che parliamo.
Il patriarcato è sopravvissuto al crollo di imperi, al mutamento di forme politiche e di strutture economiche anche grazie alla cooptazione di quote di donne a proprio sostegno attraverso l’elargizione più o meno occulta di privilegi in cambio della cancellazione di diritti universali.
Se definiamo la cultura, scientifica filosofica letteraria artistica giuridica linguistica (con tutti i sottosistemi specialistici) come ciò che indaga e interpreta il mondo nell’attività della specie umana che opera la trasmissione “memorabile” attraverso strutture materiali e dispositivi immateriali, a differenza di tutte le altre specie, dobbiamo pensare la possibilità di accesso universale al potere culturale come necessità per la realizzazione di una società democratica con eguaglianza di possibilità e distribuzione equa delle risorse.
Nel 2021, in un documento diventato collettivo, ho scritto: “La scuola dovrebbe essere la strada per trasformare la casualità della nascita nell’armonia della vita di cui si diventa titolari alla ricerca di un’esistenza libera e appagante, cammino sempre individuale e imprevedibile che la società può solo facilitare. Il diritto a un tempo in cui crescere, individualmente e insieme, per trovare la propria strada nel mondo.”
Oggi è questa la partita che si gioca nelle istituzioni a cominciare dalla scuola e l’esito non è scontato, per fortuna.

Le donne continuano ad essere l’imprevisto della storia perché ognuna di noi può fare la differenza lì dove il caso ci ha fatte nascere e le scelte ci portano.
 
 N.B. Il testo è la rielaborazione del materiale preparato e utilizzato solo parzialmente nell’intervento per ovvi motivi di tempo.
 

[1] Cfr.: Lynne Truss, Virgole, per caso, Piemme, 2005 (Ed. or. Eats, Shoots & Leaves, 2003)
[2] Cfr.: Daniela Danna, Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale, Eléuthera, 2014
[3] Cfr.: Laurie Penny, Meat market. Carne femminile sui banche del capitalismo, Settenove, 2010
[4] Paola Tabet, Le dita tagliate, Ediesse, 2014, p. 176-177
[5] Cfr.: Silvia Federici, Calibano e la strega, Mimesis, 2015