Vorrei dare due spunti, che sono l’esito di quello che è stato a lungo il mio lavoro annuale a scuola, spunti che non enunciavo come assiomi ovviamente, ma facevo ricavare ai ragazzi e alle ragazze con il lavoro sulle fonti. Ho sempre insegnato in classi miste e solo negli ultimi anni a classi prevalentemente femminili.
Ecco i due spunti: uno di storia e uno di letteratura.
La prima questione riguarda la storia e le strutture profonde sedimentate nell’immaginario, che diamo per scontate nell’insegnamento.
Raccontiamo la storia come se le donne fossero state irrilevanti, figurine che appaiono qua e là, se e quando la loro eccezionalità non mette in discussione l’impianto narrativo.
Se invece proviamo a guardare le cronologie politiche nella lunga durata, dal codice di Hammurabi fino alle costituzioni contemporanee, possiamo rilevare un dato evidente:
tutte le formazioni politiche di governo del territorio che conosciamo, o che comunque studiamo nella storia che viene insegnata in tutti gli ordini scolastici, comprese le forme degli Stati moderni, si sono strutturate sull’esclusione delle donne dal governo delle risorse e sulla considerazione delle donne come corpi a disposizione:
· per il soddisfacimento sessuale dei maschi
· per la cura e manutenzione dell’esistenza di luoghi e persone
· per il possesso della riproduzione umana, figli e figlie e quindi anche di tutti i dispositivi e le istituzioni di riproduzione culturale dell’umano, al fine di favorire la conservazione delle differenze sociali, gerarchiche e reddituali.
Sono affezionata alle cronologie perché se mettiamo in fila gli eventi politici che riguardano il governo dei territori, con conseguente distribuzione di risorse, possiamo veder emergere con chiarezza la lunga durata di una guerra dichiarata dai maschi alle donne.
Un’evidenza che lascia senza fiato e che purtroppo viene lasciata senza parole.
Poi possiamo studiare anche le minute vicende e i diversi posizionamenti di uomini e donne nei secoli e nei decenni, ma questo dato, così evidente da diventare invisibile, ci costringe a misurarci con le narrazioni elusive dei manuali che arrivano fino alla deformazione e falsificazione degli accadimenti.
Ci troviamo di fronte a un’evidenza difficile da raccontare se non attraversiamo quell’autocoscienza, di noi stesse e noi stessi come insegnanti, che ci colloca nella nostra storia personale e nel nostro tempo.
L’onestà intellettuale che dovremmo applicare nel racconto storico contraddice le strutture profonde del dominio maschile che abbiamo introiettato e nessun percorso può essere semplificato.
Le donne come genere, come singole personalità e come storia politica possono emergere solo se ci si chiede in che modo nei secoli e nelle circostanze abbiano risposto a questa guerra imposta ad ogni vita dalle leggi stesse.
E le donne hanno risposto a questa guerra trasformandola in un conflitto che, a differenza della guerra, non persegue l’annientamento dell’avversario ma la gestione delle differenze con la finalità della sopravvivenza.
Se mettiamo insieme dichiarazioni, gesti, lotte, convinzioni, modi di vivere, possiamo vedere chiaramente che le donne hanno sempre trasformato la guerra in conflitto da gestire. Il conflitto è dichiarato ma non prevede la distruzione dell’avversario, non prevede la sua cancellazione, prevede una co-costruzione di patti, anche non espliciti. E questo è il filo rosso che attraversa tutta la storia politica delle donne.
Questo è il filo rosso che riprendono le donne dell’UDI a cominciare dalla Costituente: una grande storia politica delle donne italiane perché si tratta della storia di collettività politiche non omogenee dal punto di vista dell’alfabetizzazione, del reddito, delle condizioni di vita e lavorative, di inventiva organizzativa con sperimentazioni e fallimenti dentro un dibattito serrato e mai scontato.
Se guardiamo all’azione femminile diffusa, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, su tutto il territorio italiano, possiamo dire che le donne rispondono alla guerra con l’imperativo di salvare vite e riparare viventi, presidiando territori e lavoro, inventando forme di resistenza alla furia distruttrice.
Da questa azione diffusa nasce una politica che trova modo di esprimere azioni organizzate e richieste precise in relazione all’esistenza delle donne e alla loro collocazione nell’ambito del governo dei territori e delle risorse, alla fine della guerra.
Nel disastro materiale e morale, tenendo conto della realtà femminile, mai arrivata alla cittadinanza, ma anche consapevoli delle qualità di intelligenza politica, forza morale, creatività quotidiana espressa da moltissime donne, le donne dell’UDI hanno lavorato sul doppio binario dell’organizzazione e mobilitazione femminile e dell’introduzione di correttivi nella legislazione corrente.
La prima, cioè la mobilitazione, sarà fondamentale per consentire alle poche elette di agire in parlamento per introdurre quelli che ho definito correttivi, dall’art. 3 della Costituzione alle leggi che hanno imposto il riconoscimento dei diritti civili e sociali delle donne.
L’articolo 3 della Costituzione è stato un correttivo, e oggi ne vediamo anche il limite linguistico, perché trovare “le parole per dirlo” non è un percorso semplice, ma il correttivo è allo stesso tempo un cuneo che sovverte strutturalmente la posizione delle donne, e quindi degli uomini.
Per capire la posizione politica delle donne, e le condizioni di possibilità del lavoro di trasformazione della guerra in conflitto, dentro la scena pubblica, diventa fondamentale la distinzione fra: leggi contro le donne, leggi per le donne e leggi delle donne.
Questa distinzione è fondamentale per capire la storia italiana dal Risorgimento fino al nostro presente ed è utile per avere una forma mentis con la quale leggere la realtà e andare nel mondo.
Perché le leggi non sono soltanto sequenze di date ma sono paletti conficcati nei territori ad aprire o impedire cammini, sono conquiste che disegnano i modi e i moti dell’esistenza.
Guardare alla politica dal punto di vista di questa consapevolezza significa capire che cosa sostiene il patriarcato e cosa invece destruttura il patriarcato e va in un’altra direzione.
Con questa storia ci si misura diversamente se si è maschi o femmine, induce posizionamenti e riflessione su vite e scelte, ma diventa generativa di libertà per un futuro inedito.
La storia raccontata a scuola è quasi sempre totale censura di tutto questo, è una forma di narrazione che favorisce atteggiamenti di scotomizzazione del reale.
In questo la responsabilità della scuola si accompagna a quella dei media e dei social ovviamente, ma la scuola come luogo di presenza e mescolanza tra generi e generazioni resta fondamentale anche come occasione insostituibile di possibilità.
Noi viviamo in un mondo di immagini e uno dei primi insegnamenti, quando siamo di fronte a un’immagine, è chiedersi “ma chi ha dipinto, fotografato, realizzato? chi ha registrato quest’immagine? Quale sguardo? Da quale punto di vista, da quale posizionamento?” Il posizionamento è una delle principali consapevolezze per lo stare nel mondo.
Arrivo all’altro spunto, di letteratura, e lo riprendo sempre dalla storia dei testi letterari: le narrazioni non sono mai neutre, e nei dispositivi narrativi che la storia profonde nella scuola e attraverso la letteratura, centrale è il dispositivo narrativo dell’amore.
Se percorriamo i secoli nei quali viene definendosi quella struttura che studiamo come “storia della letteratura” vediamo che dall’Ars amatoria di Ovidio, I secolo a.C., fino ad Andrea Cappellano e il suo trattato De amore, mille e duecento anni dopo, e fino alle sentenze dei tribunali, quelle degli anni ’80, ma spesso ancora oggi, c’è una lunghissima durata di un concetto: alle donne piace la violenza. Tradotto in termini volgari: se la sono cercata.
Questa lunghissima durata di una narrazione passa come trama sottesa, resistente e invisibile, attraversa le immagini, forma le convinzioni profonde. La destrutturazione di queste convinzioni è difficilissima perché viene trasmessa come contenuto neutro, implicito, irrilevante, naturale.
Faccio un solo esempio, ma ce ne sarebbero moltissimi.
Penso che insegnare significhi non solo avere e fornire tante informazioni, ma per noi donne dovrebbe significare una continua autocoscienza per affinare la capacità di vedere le strutture profonde del patriarcato e come agiscono tra noi, anche nel modo con cui ci raccontiamo.
Se le donne lo facessero nella scuola, anche gli uomini non potrebbero prescindere dal confronto con i contenuti di una storia del dominio che produce più danni che benefici.
Per l’esempio mi richiamo a un libro bellissimo, Ombre di un processo per femminicidio, di Carla Baroncelli, la giornalista che ha seguito il processo contro Matteo Cagnoni per il femminicidio di Giulia Ballestra, uscito nel 2019.
Carla Baroncelli alla fine di questo libro dà la parola a Giulia, la donna uccisa, e insieme a Giulia dà la parola a un’altra donna resa eterna dalla letteratura: Francesca da Polenta.
“Amor condusse noi ad una morte”, ha fatto dire Dante a Francesca, che nell’Inferno racconta la vicenda della sua vita stroncata dal marito insieme a quella del suo amato.
Noi abbiamo studiato e ripetuto questa frase con il suo contenuto di ineluttabile destino.
Francesca evocata da Carla Baroncelli afferma di non aver mai detto questa frase perché l’amore non conduce a nessuna morte. “È l’odio che ci ha condotti alla morte: l’odio di mio marito per me e l’odio di mio marito per suo fratello. Questo ci ha condotti a una morte”.
Noi sappiamo che è vero perché l’amore non conduce alla morte e nessuna donna pronuncerebbe mai quella frase.
L’amore è un sentimento complesso e la retorica del tradimento-gelosia-vendetta è costruita ad arte anche contro l’evidenza di moltissime storie reali, comprese quelle letterarie.
Abbiamo narrazioni straordinarie di relazioni complesse e leali. Mi viene in mente il rapporto tra Lili Brik, il marito Osip Brik e il poeta Majakovskij, c’è un carteggio straordinario di questo rapporto di amore e di amicizia a tre, di complessità delle relazioni umane. Ma ce ne sono moltissimi di esempi analoghi che possono entrare nella narrazione scolastica.
Penso che Carla Baroncelli abbia operato quella che definisco come “torsione del pensiero”, quell’azione che ci costringe a vedere altro.
Certamente Dante era in buona fede ed era benintenzionato nei confronti di Francesca, infatti è un personaggio del quale ci innamoriamo, ma le sue buone intenzioni sono appunto quelle buone intenzioni di cui è lastricata la via che porta all’inferno. Quel verso è galeotto per noi, perché ci modifica, ci fa entrare in un’idea. No, i due amanti non sono stati uccisi dall’amore ma dall’odio, l’odio del marito, e quando si odia così tanto significa che si odia anche se stessi perché si odia la vita.
Penso che fare prevenzione a scuola significhi prima di tutto rileggere la storia e la letteratura (e ogni disciplina) insegnando ad interrogare i dispositivi profondi dei testi, senza censure, analizzando i contesti nei quali sono stati prodotti ma anche la relazione con le persistenze e le discontinuità che arrivano fino al presente.
Una scuola critica, con un tempo adeguato alla riflessione individuale e collettiva, in cui abitare con libertà e responsabilità di sé e del proprio mondo.
Ho definito l’uso delle cronologie e il noto verso di Dante come spunti perché si limitano ad evocare l’esito di un lunghissimo lavoro nel quale non fornivo risposte o definizioni a priori ma predisponevo percorsi per consentire a ragazze e ragazzi di esercitare la propria capacità critica imparando a porsi domande.
Il confronto con documenti e narrazioni storiche consentiva di giungere alla prima e fondamentale distinzione tra opinioni e ragioni, sedimentazioni narrative e realtà della vita. L’attività di confronto in classe richiedeva da parte mia ore e ore dedicate alla ricerca delle fonti adeguate, alla predisposizione organizzativa di lavoro individuale, di gruppo e restituzione collettiva alla classe, alla costruzione di momenti di verifica non ripetitiva e quindi relativa correzione di tutti gli elaborati, che fossero testi scritti, ricerche autonome, schemi, poster, cronologie comparate, grafici, disegni e tutta la varietà di produzione che un lavoro di questo tipo necessariamente comporta.
Non ho trovato altro modo per affrontare la mole di stereotipi sessisti, razzisti, colonialisti ed eurocentrici di cui allieve e allievi erano intrisi, sia che fossero studiose e studiosi con elevate competenze espressive, sia che ostentassero o non nascondessero indifferenza per le discipline che insegnavo e avessero sgrammaticati quanto detestati strumenti per leggere sia un testo breve che il proprio mondo.
Un modo che pur potendo dare ottimi risultati, o forse proprio per questo, è stato reso quasi impossibile da praticare nella scuola peggiorata dalle varie riforme aziendaliste.
Eppure qualche volta basta uno spunto per far traballare un castello di convinzioni, basta uno spunto per scoprire una porta, per intuire un cammino.
Imparare a porre domande ai testi e ai contesti affinando i propri strumenti conoscitivi: questo è il compito della scuola.
Noi abbiamo voluto offrire una Mostra, costruita certamente con onestà intellettuale, ma che vogliamo soprattutto offrire all’incontro con sguardi interroganti.
Imparare significa acquisire informazioni che sono anche metodo, un modo di guardare il mondo, un diverso posizionamento da cui riusciamo a vedere ciò che prima era invisibile.
Insegnare perciò è offrire narrazioni che hanno dentro il proprio metodo, che si tratti di matematica o filosofia, fisica o letteratura, che si tratti di compitare un alfabeto o esplorare il mondo con i numeri.
Il mito narra di donne e uomini ma si tratta di racconti di uomini tramandati da uomini per uomini, per insegnare le strade del vivere a uomini e donne.
Racconti ai quali le donne sono state ammesse talvolta come uditrici silenziose, spesso curatrici della trasmissione filologica, interpreti con accesso di nota a fondo pagina.
Ammesse per affetto o generosità maschile di padri, talvolta fratelli, talvolta mariti e amanti, adepte cooptate ai vertici della cultura per condiscendenza maschile.
Conquiste pagate con complicità oscure anche a noi stesse, passioni coltivate insieme a sottomissioni invisibili perché rivestite di privilegio, coltivate grazie ad omissione di verità.
Per vedere la specie umana come storia dei due sessi, che sono fondamento riproduttivo biologico e variamente culturale nei millenni della storia profonda dalla quale emerge nel vivente terrestre la nostra specie, occorre una “torsione del pensiero” pari a quella che ha fatto emergere la geometria dei frattali dai millenni di quella euclidea, il nastro di Moebius, con il suo continuum, dalle dicotomie incomunicabili della geometria piana, i numeri nello spazio tra i numeri, i diversi modelli temporali dalle convinzioni del tempo lineare, fino ai microchip e alla tecnologia del micro oltre il macro.
Si tratta di vedere il continuum dei comportamenti, dei vissuti, delle percezioni, delle cellule e del DNA insieme alle discontinuità, alle differenze tangibili, alle funzioni non sovrapponibili, e soprattutto alle storie diverse e spesso divergenti impresse nei corpi pensanti dalle circostanze e dalle occasioni.
Non è solo un compito immenso per le future generazioni ma quanto sta già accadendo nei pensieri ancora inespressi di giovani corpi in crescita, nonostante l’ottusa resistenza delle istituzioni anche scolastiche e l’acquiescenza di moltissime donne, spesso involontaria, e non per questo meno perniciosa, unita alla pigrizia intellettuale e pratica, alla passività rinunciataria di moltissimi uomini che si accomodano nell’esistente anche se non è agevole e vorrebbero quanto meno non fare danno.
Apollo ha reiterato un comportamento che confonde il desiderio con il diritto e legittima la violenza come espressione di sé e dei propri confusi sentimenti, in un mondo, e un immaginario, in cui una donna può solo cercare salvezza nella fuga: una vicenda che si snoda lungo tutta la cultura che ha costituito la civiltà in cui ci riconosciamo, narrata in molte e affascinanti forme dalla letteratura all’arte.
Ma qual è stata davvero l’azione di Dafne? Qual è l’aiuto che offrono i genitori, o la madre Gea?
Dafne smette di fuggire, si ferma e si trasforma.
La nuova forma è un vivente che può espandersi e rinascere continuamente.
Potrei continuare con la storia della natura vegetale, con i significati reconditi, ma ciò che conta è la vita di Dafne che non muore, si trasforma e si rinnova: una prospettiva aperta all’immaginazione che può sovvertire le condizioni di vita ben oltre le storie che ci raccontiamo.
Testo rielaborato dall’intervento al dibattito conclusivo della Mostra dell’UDI nazionale “Oltre Dafne, fermare Apollo”, 1 ottobre 2021