In Altrimenti il silenzio, appunti sulla scena al femminile (a cura di Alessandra Ghiglione e Pier Cesare Rivoltella), EuresisEdizioni, Milano 1998
Non sono un’esperta di teatro, la mia quindi non sarà una lezione ma una conversazione sul tema: avete ascoltato su Antigone molti discorsi colti, la mia sarà una conversazione incolta, il racconto di una “prossimità” fisica più che un discorso argomentato.
Antigone è una donna raccontata da un uomo e nel corso dei secoli da molti uomini, una figura quindi di grande fascino posta ai primordi della nostra civiltà, alla soglia della città, custode del passaggio alla polis e dei rischi connessi a questo passaggio.
In questo lungo racconto, che si snoda per alcuni secoli, Antigone è soprattutto il suo gesto, un corpo diventato puro significante per molteplici interpretazioni, una giovane donna diventata simulacro, contenitore, segno di molti nobili significati.
Io vorrei avvicinarmi a questa giovane donna, restare corpo a corpo con lei accantonando le molte passioni che hanno accompagnato il suo gesto e rimosso la sua “realtà fisica”.
Nel suo gesto il corpo di donna è stato di volta in volta enfatizzato per sottolineare una differenza tra i sessi che sconfina con lo stereotipo o, al contrario, accantonato, per fare di lei il simbolo puro della lotta all’oppressione.
Nella storia l’azione è mossa da Creonte, Antigone si esprime attraverso il gesto con il quale si prende cura della morte esprimendo insieme l’affetto fraterno, la solidarietà tra pari e l’autonomia della scelta individuale. Alla fine Creonte entra in crisi ma ancora una volta chi discuterà e agirà il futuro non sarà Antigone che non può sopravvivere alla sua scelta.
Lei quindi resta poco più di un tramite, per parole, gesti, passioni che agiscono oltre la sua vita e oltre la sua morte, figura innalzata a simbolo ma anche pietrificata e resa inoperante.
Quando mi è stato chiesto di parlare di “Antigone tra le guerre” ho interpretato il titolo non come storia della rappresentazione del testo di Antigone tra le due guerre mondiali, ma interrogandomi su chi è Antigone in mezzo alle tante guerre del ‘900 che ognuno di noi si porta in parte come eredità e in parte come vissuto.
Quale Antigone mi accompagna tra le macerie che le guerre del ‘900 hanno disseminato nelle nostre città? Non un simulacro, non una fanciulla che muore prima di godere e patire per intero la propria scelta, non una ragazzina sottomessa al destino, immobilizzata per sempre in un gesto.
Così come non esiste la donna, immagine stereotipata che immobilizza e scarnifica la molteplicità delle storie, non esiste la guerra come astratto male della civiltà, condanna della specie, ma esistono le guerre e il moltiplicarsi delle sofferenze che, pur definite con un unico nome, sono infinite nel diversificarsi e accomunarsi delle tragedie individuali.
Per attraversare il ‘900 e le sue guerre, alcune delle guerre, ho scelto l’Antigone di Maria Zambrano, una ragazza viva, che parla dalla sua tomba e ci interroga.
Nel ‘900 le donne hanno cercato di riappropriarsi del proprio corpo, di superare quella scissione tra il corpo e la parola che le ha consegnate da sempre, mute, ai significati stabiliti dagli uomini e ha ridotto la loro voce al grido, al lamento, alla moina.
Maria Zambrano, filosofa, sa che non si esce dal silenzio ignorando il corpo e la rete di significati nei quali è rimasto intrappolato, sa che la parola è prima di tutto voce, legame tra il dentro e il fuori, deposito dei pensieri e sostegno di ogni possibile comunicazione.
“La tomba di Antigone rivela ciò che è rimasto celato alla vista degli uomini nella storia nota. Maria Zambrano riprende infatti la figlia di Edipo là dove Sofocle l’abbandona […] Non tanto all’Antigone ‘canonica’ o ‘canonizzata’, l’eroina fissata nella luce del suo gesto, che tiene testa a Creonte, su di lui moralmente vittoriosa nella morte, volge quindi il suo sguardo d’amore Zambrano, bensì all’ombra di Antigone. La ragazza Antigone: dolente, senza terra, abbandonata, sola ‘nel silenzio e nell’assenza degli dei’, condannata a non essere, nella zona di nessuno fra vivi e morti; ma che proprio nel momento in cui entra nella tomba si vede per la prima volta”[1]
Nel racconto di Zambrano Antigone non è un monumento a se stessa ma una ragazza, fragile, incompiuta, la cui storia è scritta prima che lei possa comprenderla perché è la storia del padre e della madre da cui è nata, la storia condivisa con i fratelli e la sorella come accade ad ognuno di noi che viene messo al mondo e non in un’idea di mondo astratta, ma in un pezzetto di mondo concreto, un recinto di spazio-tempo che non sappiamo se potremo oltrepassare.
Zambrano lo annuncia già nel prologo “Antigone, in verità, non si suicidò nella sua tomba, come Sofocle, incorrendo in un inevitabile errore, ci racconta. E come poteva, Antigone, darsi la morte, lei che non aveva mai disposto della sua vita?”[2]
Antigone quindi non vuole morire, non può morire e lo grida alla sorella Ismene, una delle ombre con cui si incontra nel sogno “Il tempo può esaurirsi e il sangue non scorrere più, se però sangue c’è stato ed è scorso la storia continua a trattenere il tempo, ad aggrovigliarlo, a condannarlo. A condannarlo. Per questo non muoio, non posso morire, finché non mi si dia la ragione di questo sangue e la storia non esca di scena, lasciando vivere la vita. Solo vivendo si può morire.”[3]
Maria Zambrano non restituisce solo nuove parole ad Antigone ma le restituisce la voce, e non a caso Antigone parla dalla tomba. In questo caso la tomba è il luogo che cela il corpo, lo sottrae ai significati socialmente codificati e sottraendo il corpo al nostro sguardo siamo finalmente costretti ad ascoltarne la voce. Non è più quindi il corpo muto di Antigone a condannare la città ma la sua voce ad interrogarla.
Quali sono gli interrogativi di Antigone e le sue risposte, le riflessioni, le scoperte che ci svelano ciò che non volevamo vedere?
Antigone di Maria Zambrano ora diventa per me solo un pre-testo, un punto di partenza per attraversare le guerre del ‘900 e anch’io come Antigone voglio riattraversare il tempo che precede la mia nascita perché lì ci sono corpi e parole da ritrovare per comprendere l’oggi, le guerre che ancora incrociano le nostre strade e alle quali non sappiamo prestare ascolto.
La guerra non è la barbarie che irrompe nella civiltà ma ne è l’esito e la salvezza sta in un’altra idea di civiltà: la storia “patria”, la storia dei padri, è intrisa di retorica della pace e atti di guerra, per questo siamo tutti esuli.
Non sempre, del resto, i padri sanno, spesso credono di sapere e sono gli occhi nuovi dei figli a vedere con chiarezza perché vivono a ridosso del futuro: Antigone vede con chiarezza ciò che Edipo non riesce a capire, lui che ha risposto all’enigma della Sfinge eppure è precipitato nella tragedia.
Dove sta l’errore nella risposta di Edipo che tutti riconosciamo come giusta?
La verità e l’errore che si sovrappongono nella risposta di Edipo non determinano solo il suo destino ma sono ancora operanti nel nostro, radice profonda del nostro pensiero, della filosofia su cui si fonda la nostra polis.
Scrive Rosella Prezzo, commentando un’altra opera di Maria Zambrano, Chiari del bosco: “Rimane così accecato il pensiero nella luce del suo sapere, come Edipo. Edipo che di fronte all’enigma della Sfinge, che è il suo stesso enigma, risponde sapientemente ma senza rendersi conto che la sua risposta giusta e vera (‘l’uomo’) non gli serviva a nulla, ‘perché il suo sapere valeva solo per qualcosa di generale’, ‘quando il punto era conoscersi lui, lui stesso, nel nascosto del suo essere’. ‘Perché l’uomo è un essere nascosto in se stesso, e perciò votato e obbligato ad essere se stesso’. Se Edipo guadagna una scienza, perde un sapere e la possibilità di vedere.”[4]
E’ drammatico il colloquio tra Edipo e Antigone perché lei è figlia della sua cecità su se stesso, del suo sapere universale che ha censurato le origini, che ha rimosso la madre. Nell’incontro lui non è più il giovane eroe che ha salvato la città di Tebe ma un uomo smarrito dal suo stesso sapere e lei non è l’eroina immolata alle colpe della città ma la figlia che rivendica il diritto a vivere per se stessa e non come compimento della storia che la precede.
“Figlia, io sono, dell’errore. A tu per tu con me stessa, sto qui sotto il peso del cielo e senza terra. Fino a quando? Non posso vivere senza vita, non posso morire senza morte. Come mi generasti, dimmi, visto che sei venuto qui? Tu non sai chi sono, no, non lo sai.”[5]
La vita non chiede eroi. L’eroe è la nostra salvezza e la nostra condanna. Per questo Antigone non vuole essere un’eroina, non offre il suo corpo per la salvezza della città ma continua a parlare, ad incalzarci con le sue domande, chiede “i conti della storia” si espone nella fragilità della sua persona ferita, nell’ansia delle sue domande reali e ineludibili.
“La morte ha per l’eroismo un valore superiore alla vita. Solo la morte – la propria come quella degli altri – permette di raggiungere l’assoluto: sacrificando la vita si dimostra di preferire il proprio ideale. […] Perdere la vita significa concentrare tutto il proprio coraggio in un unico gesto. Quanto alla vita, essa può esigere il coraggio di ogni giorno, di ogni istante; può essere anch’essa un sacrificio, ma senza niente di esaltante: se devo sacrificare tempo e forze, sono ben costretto a rimanere vivo. In questo senso vivere diventa più difficile che morire. […]
Il mondo degli eroi, ed è forse questo il suo punto debole, è un mondo unidimensionale, che comporta solo due termini opposti: noi e loro, amico e nemico, coraggio e viltà, eroe e traditore, nero e bianco. Un sistema di referenti che si addice a una situazione orientata verso la morte, non verso la vita. […] In tal senso i valori della vita non sono assoluti: la vita è diversa, ogni situazione è eterogenea. Le scelte che si fanno sono quindi il risultato non di concessioni o di vili compromessi, ma della considerazione di tale molteplicità.” [6]
Il quotidiano, quello spazio-tempo che si gioca interamente nella “contingenza”, appartiene da sempre alle donne. Relegate nel quotidiano, nella consuetudine dei gesti che si esauriscono nel loro svolgersi le donne conoscono la necessità vitale e quindi il valore di ciò che muta, delle cose che si consumano per vivere, cibo, abiti, oggetti ma anche, gesti, sentimenti. Nel quotidiano si vive il mutamento come percorso, l’evento non è la data memorabile che illumina l’opacità della storia ma il compimento della gestazione e l’annuncio del futuro, responsabilità che chiede accudimento e non medaglia di cui gloriarsi.
Il tempo del quotidiano non è l’eternità ma il disegno che si snoda tra nascita e morte. La memoria in questo senso è anche lo scandaglio che ci consente di comprendere l’origine della nostra stessa vita, radar acceso per intercettare le parole dei morti, l’immagine remota che ci parla anche di noi, oggi, perché conserva una qualche nostra radice.
Il ‘900 vede dispiegarsi quella cittadinanza delle donne che non si esprime solo attraverso la richiesta della parità dei diritti ma ponendo interrogativi sempre più radicali sul fondamento stesso della cittadinanza, sul senso del patto sociale, l’origine della polis e della civiltà.
Chiedendo l’accesso ai diritti di cittadinanza, le donne, non chiedono parità (del resto trasformata nella più complessa richiesta di pari opportunità) ma mettono in discussione il significato stesso dei termini su cui si è costruita la possibilità di comunicare, di condividere il patto che sostiene la cittadinanza. Tra una guerra e l’altra Antigone non si accascia nel pianto ma tesse i propri interrogativi, non si limita a ri-mediare le situazioni, ricomporre la vita, riempire con le nascite i vuoti lasciati dalle morti, ricucire in silenzio le lacerazioni, ma chiede conto delle regioni oscure di un’intera cultura che non ha previsto la sua parola.
Antigone non tace ma interroga, dalla tomba in cui è stata rinchiusa, la sua città in rovina. Accanto a lei molte sono le donne che hanno legato alla trama della nostra storia più recente i loro pressanti interrogativi, in questo senso mi sembra giusto lasciare la sua storia per riportare alla memoria nomi e volti che ormai, come lei, ci parlano dalla tomba.
Allo scoppio della prima guerra mondiale il mito dell’eroe seduce l’immaginario maschile: molti giovani partono volontari e poche sono le voci che si levano contro la guerra.
Kathe Kollwitz, la grande artista tedesca, non riesce a fermare suo figlio che si arruola come volontario e non tornerà. Il figlio è incalzante, chiede alla madre di aiutarlo a convincere il padre e la madre cede. Così scrive nel suo diario: “Io mi alzo, Peter mi segue, ci fermiamo sulla porta e ci abbracciamo e ci baciamo e io prego Karl per Peter. Quest’unica ora. Questo sacrificio a cui lui mi ha trascinata e a cui noi abbiamo trascinato Karl. (…) La sera io e Karl soli. Piangere, piangere, piangere.” [7]
Ma non si può accettare l’assassinio, a nessun titolo, un corpo che porta dentro di sé la potenzialità della nascita, un corpo che conosce il travaglio del mettere al mondo sa che il nascere ci pone nella possibilità della morte ma la morte è il termine della vita, non può esserne il fine.
Nelle pagine del diario di Kate Kollowitz è presente lo strazio privato della madre ma anche la riflessione su una storia insensata in cui la morte e l’assassinio vengono rivestiti di nobili finalità: “Ciò che noi abbiamo vissuto in Germania, diventare migliori a causa della guerra, lo prova certamente anche ogni altra nazione belligerante. Ma come si può conciliare il f atto che da una parte si migliora eticamente, e insieme cresce l’odio, la menzogna, ossia l’ostilità contro tutti i non-tedeschi? E’ come quando l’amore esiste solo all’interno di una famiglia, e verso l’esterno si chiudono tutte le porte. Ha ancora valore?” [8]
Nel dramma di Antigone la madre è assente, figura passiva, grembo che genera e lascia i figli al possesso del padre, al destino assegnato dalla polis in cui gli spazi e i ruoli sono rigorosamente delimitati.
Antigone è nell’età in cui si pensa che varcare la soglia del mondo adulto non significhi imboccare un tunnel stretto e preordinato ma assumere il coraggio del pellegrino che impara dai propri passi. Antigone sceglie: che siano le ragioni del cuore o il sentire della ragione interroga i suoi pensieri più profondi prima delle leggi della città. Non ci stupisce che il re la condanni, non mi stupisce che la storia ci racconti da alcuni secoli gli stessi eventi. Per quanti secoli le madri condannate al silenzio hanno generato vittime sacrificali?
Kathe Kollowitz non smetterà di parlare e lavorare contro la guerra, come una cassandra ignorata vedrà il pericolo nazista fin dall’inizio e non si stancherà di lanciare appelli a favore della pace.
Nella tomba immaginata da Maria Zambrano Antigone incontra anche l’ombra della madre e le parla: ”Se una volta saputo tutto anche tu, ci avessi chiamati figli, figli miei, la viscida fune della morte non ti si sarebbe attorcigliata intorno al collo” [9]
L’assenza della madre diventa complicità silenziosa, lascia il posto al rumore della violenza, alla tragedia che toglie il futuro ai figli.
Nel corso del ‘900 guerra dopo guerra sempre più donne hanno preso la parola, sono diventate protagoniste della propria vita ed ora cominciano a porre la propria storia nella piazza della città per la quale dobbiamo riscrivere il patto fondativo.
Sono molte le donne che dobbiamo saper ascoltare, tra queste alcune hanno attraversato l’orrore della Shoah e sono sopravvissute.
Dov’era Antigone dietro i cancelli di Auschwitz?
Cordelia Edwardson entra ad Auschwitz a quattordici anni per quella metà ebrea ereditata da un padre naturale che non ha mai conosciuto.
La madre, la ragazza-madre, non riesce a salvarla e la figlia lo sa prima ancora che l’evidenza dei fatti distrugga ogni illusione.
Lo sa con certezza la sera in cui si festeggia la sua salvezza, affidata al nuovo passaporto spagnolo, e guarda rapita la bellezza della madre che gode della nuova illusione: ”C’era come un alone luminoso intorno ai suoi capelli neri e alla sua bocca rossa, e lo sfolgorio delle candele accese si rispecchiava nei calici da vino verdi e nel vino dorato. Era così bello da far male. La ragazza voleva piangere perché dentro di sé sentiva che quella era una festa di congedo, non di riunificazione come credeva la madre. Sapeva di aver ricevuto in prestito e per grazia un breve spazio di tempo, Proserpina era soltanto in visita fra i vivi, presto sarebbe scoccata l’ora, l’ora dei lupi fra la notte e l’aurora, l’ora degli autocarri grigi, e lei avrebbe fatto ritorno fra le ombre degli inferi. Fu in quella sera luminosa di festa che la ragazza disse addio a tutto ciò che amava. Ma qualcosa l’avrebbe portato con sé. Il filo di Arianna che la madre le aveva dato, il filo della fiaba, del mito e della poesia, sottile come seta, e, si diceva, più forte della morte.” [10]
La legge quindi conduce la ragazza al regno dei morti nell’indifferenza della città, e lì nella meticolosa organizzazione dell’orrore ogni uomo è Creonte, carnefice ottuso e insieme vittima connivente: “L’uniforme gli pende addosso come se appartenesse a qualcun altro. Maneggia il fucile goffamente, di certo è più abituato al forcone da fieno o al martinetto. E’ uno di quelli richiamati sotto le armi quando la guerra era già perduta; un perdente.
Sta di guardia seduto accanto alla porta del carro merci, più come un simbolo che per necessità. Nessuna di quelle donne ha più la forza e neppure la voglia di pensare alla fuga. E dove potrebbero mai fuggire? Per lo più l’uomo siede immerso nella sua stessa impotenza, è lui che le sorveglia o sono loro a tenerlo prigioniero?” [11]
E ancora una volta la salvezza è solo fuori dalla legge.
“Quel giorno la ragazza ricevette da Anna un pezzo di pane e un ritaglio di flanella a quadrettini che poteva essere usato come sciarpa. La ragazza rimase a lungo davanti al pezzo di specchio macchiato delle latrine a carezzare e accomodare la morbida stoffa; Anna aveva detto che quelle sfumature blu scuro s’intonavano ai suoi occhi.
Naturalmente qualsiasi contatto tra prigionieri e lavoratori civili era proibito e punito con la pena di morte, ma Anna non aveva paura; era prudente e accorta ma non aveva paura. ‘Che vadano a …’ diceva con una risata arrogante. (…) Per un certo tempo l’immagine ridente di Anna, il suo profumo di mughetto e la morbida flanella intorno al collo non l’abbandonarono.”[12]
Anna, la prostituta polacca, con i suoi gesti semplici, diventa la fata potente che trattiene la ragazza alla vita, uno sguardo affettuoso e Cordelia ricomincia a lottare contro la morte; non un eroismo solenne ma il coraggio scanzonato di essere se stessa anche nella quotidianità atroce del lager conserva un barlume di umanità al quale Cordelia si può aggrappare.
Così la ragazza tornerà alla vita per testimoniare, perché sa di non poter mai essere complice degli assassini.
Anche Antigone, dopo l’incontro con Creonte, sa che la porta è aperta ma non può diventare complice di una città che vuole dimenticare: la smemoratezza è una prigione ben più soffocante della tomba.
“…quella porta della mia condanna rimarrà come loro l’hanno lasciata. Poiché non è la condanna, è la legge che la genera, ciò che la mia anima rifiuta”. [13]
E l’ultima parola resta, come una sentenza, quella di uno dei due sconosciuti che si contendono le sue spoglie: “Era vostra e l’avete lasciata sola. Quasi nessuno l’ha seguita sin qui quando si lamentava a voce alta, quando supplicava. E prima, quando partì, bambina sola che faceva da guida a suo padre, il più sventurato degli uomini: li lasciaste andar via pensando che vi bastasse questo per essere felici, e che la città sarebbe rimasta libera da colpa.
Allora, nella disgrazia, era vostra, come vostro era suo padre nella colpa. Ma voi siete fatti così: scacciate l’innocente quando cade, e poi vi disputate la sua tomba.”[14]
Qual è il male che corrode la città, incrina il nostro con-vivere, oscura gli sguardi, ammutolisce le voci, qual è il morbo che svuota le strade e ci costringe nella prigione della nostra stanza, migliaia di disperate solitudini addossate le une alle altre nei condomini angusti dei nostri quartieri come nelle atroci cuccette del lager?
Tra le molte risposte ci appartiene, per storia comune, quella di Christa Wolf, dalla Berlino dell’89, una città che tutti, in Europa, abbiamo abitato.
La condanna è il sospetto generato dalla mediocrità e dall’ipocrisia ma non possiamo arrenderci alla complicità, come Christa non possiamo tacere.
“Attraversai tutte le stanze e spensi tutte le luci, finché restò accesa solo la lampada sulla scrivania. Stavolta mi avevano quasi avuta in pugno. Stavolta, che l’abbiano fatto apposta oppure no, hanno colpito nel punto giusto. Quello che un giorno, nella mia nuova vita, avrei nominato. Un giorno, pensai, riuscirò a parlare, con totale facilità e libertà. E’ ancora troppo presto, ma non sempre è troppo presto. Non dovevo semplicemente sedermi a quel tavolo, sotto quella lampada, sistemare la carta, prendere la penna e incominciare. Che cosa resta. Che cosa c’è al fondo della mia città, e che cosa la manda a fondo. Che non c’è maggior sventura del non vivere. E che alla fine non c’è disperazione maggiore del non aver vissuto.” [15]
1 – “La scrittura del pensiero in Maria Zambrano” di Rosella Prezzo in Maria Zambrano La tomba di Antigone La Tartaruga edizioni, Milano 1995 p.20.
2 – La tomba di Antigone cit. p. 43
3 – La tomba di Antigone cit. p. 79
4 – Rosella Prezzo cit. p. 18
5 – La tomba di Antigone cit. p. 81
6 – Tzvetan Todorov Di fronte all’estremo Garzanti p. 17-18
7 – Kathe Kollwitz Catalogo a cura di Mario Matasci, Enrico De Pascale, Marcella Snider;
Mostra organizzata dall’Assessorato alla cultura della Provincia di Bergamo 1993
8 – Kathe Kollwitz cit. p. 149
9 – La tomba di Antigone cit. p. 92
10 – Cordelia Edwardson La principessa delle ombre Giunti Astrea Firenze 1992 p.73
11 – La principessa delle ombre cit. p. 40
12 – La principessa delle ombre cit. p. 20
13 – La tomba di Antigone cit. p. 117
14 – La tomba di Antigone cit. p. 125
15 – Christa Wolf Che cosa resta Edizioni E/O Roma 1991 p. 105