Le ambiguità dell’emancipazione
di Rosangela Pesenti
in Corpi/Anticorpi, (a cura di Imma Barbarossa e Lina Bianconi), Edizioni Punto Rosso, Milano, 2009
Ringrazio per quest’invito le donne del Forum di Rifondazione Comunista. Conosco la fatica che costa, in termini di tempo, passione e denaro, mettere in piedi un appuntamento come questo e avverto tutta la responsabilità di essere stata chiamata in qualità di relatrice su un tema così spinoso come quello del “corpo emancipato”.
Non sottovaluto il fatto che questo luogo si definisca come scuola perché si tratta di un termine col quale ho avuto una lunga consuetudine, di lavoro e di riflessione, come insegnante, e mi chiedo come possiamo declinarlo tra donne che si muovono oggi tra desiderio/necessità di politica e il peso dei molti significati che non abbiamo contribuito a costruire.
Da alcuni anni proliferano le scuole di politica per le donne.
Ho sempre letto gli annunci con simpatia pensando che sono occasioni d’incontro preziose, sia quando a proporle sono istituzioni, perché significa che è in atto un’azione di empowerment femminile, fosse perfino nel senso del completamento dell’emancipazione, ed è certamente presente una rete di donne attive nella pubblica amministrazione (lo immagino ovviamente), sia quando a proporle sono associazioni femminile, perché penso che sia l’occasione di trasmissione di un sapere insieme alle pratiche che l’hanno generato e di conservare la memoria delle donne in “carne ed ossa” e pensiero, ancora così spesso cancellate dalla cultura relazionale corrente, non solo tra uomini e dagli uomini.
Il termine scuola però non è neutro e mi suona talvolta come una lieve stonatura, un fastidio quasi impercettibile, per questo ho cominciato a pormi alcune domande che qui espongo in forma sintetica e che fanno parte di una riflessione più articolata sulle forme e procedure della politica di cui ho avuto modo di parlare spesso in una stagione in cui eravamo tutte più interessate agli scambi che alle docenze.
Ricordo a premessa che tutte le forme sociali e politiche, che ci appaiono come naturali, rappresentano solo il deposito consolidato di una cultura e dal consolidamento, memoria, elaborazione della cultura e delle sue forme di trasmissione, dalle quali le donne sono state quasi sempre escluse cancellate o, quando non si poteva farne a meno, incluse con modalità deformanti o mistificanti o in forma asservita.
Dunque intanto perché scuola e per chi ?
La scuola presuppone, nella forma consolidata, docenti e discenti e un sapere da trasmettere, ma soprattutto finalità e motivazione da parte di chi organizza e di chi ne fruisce.
A chi riconosciamo la docenza e perché? Chi ha voglia di imparare e che cosa?
Se di politica si tratta, e di una politica “di sinistra”, come leghiamo finalità e modalità del fare scuola?
Sono domande che riguardano direttamente anche il percorso dell’emancipazione visto che il diritto all’istruzione ha rappresentato la prima richiesta delle donne, nato addirittura in seno alla nobiltà prima e alla borghesia poi, come riconoscimento di eguale possibilità intellettiva a lungo negata alle donne da una forma particolarmente tenace e violenta di pregiudizio culturale.
In questo momento la sinistra alternativa sparisce quasi dalle istituzioni, ma donne e uomini moltiplicano associazioni, luoghi di confronto e dibattito, iniziative sui temi più diversi, corsi e scuole appunto. Si tratta di urgenza delle questioni da pensare o prevale la necessità di visibilità personale, di avere un posto dove continuare a esibire e legittimare il proprio pezzetto di storia?
Si costruiscono luoghi per assicurarsi una docenza? Si offrono luoghi per legittimare una docenza politica a chi abita il mondo accademico? Forse dovremmo riprendere la questione del ruolo degli e delle intellettuali e della loro formazione. La competenza disciplinare non diventa direttamente capacità politica senza misurarsi fino in fondo con la vita e prima di tutto la propria, secondo quel “partire da sé” che ha rappresentato una delle lezioni più feconde del femminismo.
Vi è molta confusione sull’eredità del femminismo, la storia concreta delle femministe, le varie forme assunte dal movimento delle donne, l’intreccio di culture, eventi, occasioni, biografie, pensieri, e soprattutto, la costruzione delle vite segnate dal femminismo in un tempo che forse è concluso, ma non del tutto cancellato e soprattutto rimescolato in forme inedite nei percorsi delle nuove generazioni di donne.
Non esiste un’astratta teoria femminista fuori dai soggetti che l’hanno agita e pensata in luoghi e tempi determinati di cui è possibile ricostruire la storia. Oggi in Italia sono rimaste alcune associazioni “storiche”, alcune riviste (come Il paese delle donne, Marea, ma anche Noi donne e qualche altra) e alcuni gruppi e associazioni nuovi o nuovissimi, ma si fa fatica a trovare momenti di elaborazione comune o di solidarietà come nell’ultima esperienza di “Usciamo dal silenzio”. Nei media il femminismo è citato spesso a sproposito e alle giovani (dai quarant’anni in giù) è arrivata un’idea deformata della storia reale anche se dai contenuti più importanti di autonomia e autodeterminazione nessuna torna indietro.
Si dice che i partiti sono in crisi mentre nella politica della società civile il proliferare di associazioni e iniziative testimonierebbe la vitalità del tessuto democratico.
Anche su questo ho qualche perplessità e mi sembra che perfino la parola democrazia sia diventata un’etichetta messa su qualsiasi vasetto.
Forse sono strabica, ma vedo ovunque logiche di arroccamento per la difesa del proprio piccolo territorio e poca circolazione delle persone e delle idee. Ogni luogo, associazione o altro che sia, espone i suoi “prodotti” con le più avanzate tecniche del marketing, ma rende opaca la struttura reale del luogo stesso, le pratiche di costruzione del potere e soprattutto le condizioni di accesso.
Come, quando, con quali risorse, in quale tempo della propria vita si può partecipare, essere parte attiva, condividere responsabilità, diventare “dirigenti”?
È noto che nelle associazioni di volontariato o del cosiddetto “privato sociale” i volontari sono all’80% volontarie, mentre i dirigenti sono per l’80% uomini. Resto convinta che il volontariato abbia rappresentato un modo di depotenziare il desiderio di partecipazione alla vita sociale delle donne, ma questo è un tema che merita un altro approfondimento anche se fa parte della questione della cittadinanza.
Nel senso comune viene usata la presenza di giovani quale indicatore di vitalità e rinnovamento di un’associazione o di un partito, a sinistra come a destra, ma anch’io sono stata giovane nel P.C.I. e poi a lungo nell’Udi e so bene come giovani, uomini e donne, possono essere cooptati e utilizzati nella battaglia politica tra “pari” e diventare determinanti in un “rinnovamento” politico che è semplicemente la vittoria di una parte, spesso con l’esito di una violenta cancellazione simbolica della parte sconfitta (anche il berlusconismo è per certi versi un simile fenomeno).
Parlo di violenza, e non considero esenti le donne da queste pratiche, anche se ne sono spesso vittime, perché la cancellazione simbolica e la rimozione della memoria (quella che genera mostri appunto), oltre ad essere una violenza in sé, favorisce la violenza reale sui corpi vivi.
Esistono ancora luoghi in cui crescono collettività democratiche? Ne siamo ancora capaci? Come per tutte le cose del vivere per apprenderle bisogna praticarle: esistono comunità di pratica in questo senso? Possono esserlo le scuole? Non so. Per esperienza so che nel caso dell’istituzione scuola dipende molto dai docenti e moltissimo dal modello organizzativo, quasi nulla dagli allievi.
Quali sono le buone pratiche che tengono in vita le associazioni? E sono trasferibili sul piano politico delle scelte e decisioni che riguardano la collettività?
Nei luoghi delle donne forse i ruoli si scambiano ancora con facilità e si utilizza la circolarità come principio e non solo come pratica, ma la questione democratica, a cominciare dal rapporto tra costruzione della rappresentanza ed elaborazione del consenso, per non parlare del governo delle risorse, resta un nodo non sciolto anche per i luoghi delle donne.
Ho vissuto negli anni ’70 la grande diffusione dei luoghi del fare e del pensare sul territorio, prima la disseminazione delle sezioni di partito, soprattutto P.C.I., nel nostro paese, che ha costruito la democrazia della cosiddetta prima repubblica e poi la miriade di gruppi, collettivi femministi, circoli Udi nella stagione del movimento delle donne.
E’ stato un grande sogno che abbiamo alimentato con la nostra creativa presenza, ma mai questo tessuto è riuscito ad intaccare le logiche del potere, che l’hanno utilizzato, controllato, e poi via via eroso attraverso le pratiche più tradizionali di costruzione delle rappresentanze, delle responsabilità, delle “autorità”.
La cosiddetta gente si è allontanata dalla politica perché dietro al sogno sono continuate le pratiche “feudali” del passaggio di potere attraverso la cooptazione e l’investitura e oggi sappiamo che non conta l’essere, ma l’apparire, come accadeva nel rapporto tra sovranità assoluta e sudditi.
Considero la stagione più straordinaria dell’Udi quella in cui, dall’XI al XIV Congresso (1982-2003), abbiamo sperimentato procedure e forme della politica che hanno consentito la convivenza di grandi differenze di pensieri e vite, inventando pratiche di composizione dei conflitti e di gestione del quotidiano dell’associazione con modalità inclusive, ma è il pezzo di storia meno raccontato e quindi meno conosciuto.
Del resto c’è una sorta di “buco” nella memoria di questo Paese per gli anni che vanno dal 1978 al 1994.
Sono stati gli anni in cui le donne misuravano la conquista dell’emancipazione, faticosamente raggiunta tappa dopo tappa a partire da quello straordinario laboratorio politico che era stata la Resistenza, e si presentavano sulla scena politica con una variegata soggettività presentando l’istanza di una Liberazione che doveva investire tutta la società a partire dalle esperienze più intime della nostra vita come la sessualità e la potenzialità riproduttiva.
Resto dell’idea che forse nella politica la parola laboratorio è più adeguata, anche per invitare giovani, soprattutto per invitare giovani donne, anche e soprattutto se si pensa che ci sia qualcosa da trasmettere (più che insegnare) perché proprio per la politica non si può parlare di teoria e storia (che certamente va fatto) se non si è disposti a costruire le procedure di una condivisione che può diventare esperienza e talvolta perfino evento.
Se l’inedito della politica resta ancora una democrazia come sistema di leggi, regole, procedure, convenzioni, consuetudini articolate intorno alla finalità del raggiungimento della giustizia sociale, il percorso di emancipazione delle donne, con le sue luci ed ombre, rappresenta l’elemento che ha reso visibili molte contraddizioni teoriche e i limiti pratici dei progetti perseguiti dai soggetti che di volta in volta hanno agito sulla scena di quella storia che noi prendiamo in considerazione, quella delle cosiddette rivoluzioni borghesi.
Le categorie politiche sono da un lato la forma massima dell’astrazione che la cultura occidentale ha raggiunto in quella specifica disciplina che è il diritto e insieme la forma della massima concretezza nella misura in cui hanno a che fare con il governo delle cose e delle persone, cioè con le modalità di gestione collettiva con cui cerchiamo di consentirci la vivibilità della vita dentro le condizioni materiali della nostra esistenza, in un tempo e in uno spazio continuamente ridefiniti dal 1500 ad oggi.
Emancipazione è una parola politica che riguarda il riconoscimento della persona come soggetto di diritto, utilizzata all’origine dal movimento antischiavista e femminista dell’Ottocento, soprattutto negli Stati Uniti d’America, per rivendicare l’uscita di neri e donne da ogni forma di schiavitù, soggezione e tutela.
Una parola che nasce all’interno del pensiero liberale del quale evidenzia l’interna contraddizione tra il suo proporsi come pensiero razionale fondato sull’idea di uguaglianza degli esseri umani e la sua vocazione al dominio sessista, classista e razzista che si dispiega lungo i tre secoli che vedono la costruzione del potere borghese attraverso l’egemonia capitalista.
Anche i testi più solenni, che rappresentano oggi la massima dichiarazione di uguaglianza degli esseri umani dentro i rapporti sociali dati, come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, o la Costituzione italiana del 1946, portano ancora i segni di questa ambigua storia pregressa di cui provo a ripercorrere brevemente le tappe.
Con Hobbes, nel 1600 in Inghilterra, abbiamo una delle prime sistemazioni laiche della teoria della sovranità, che fonda il patto sociale su un istinto indivi#duale, l’istinto di conservazione, impossibile da salvaguardare nello “stato di natura” a causa della reciproca aggressività.
Abbiamo qui in nucleo un’idea dell’uomo come illimitato desiderio di dominio, soggetto di una libertà come poten#zialità senza limiti che, trovando come unico limite l’altro, dev’essere regolata per non tradursi in una continua guerra di tutti contro tutti.
Questa elaborazione viene approfondita e in parte modificata da Locke che immagina il contratto sociale come fondamento della reciproca utilità tra uomini liberi che si associano per la “mutua conservazione della vita, libertà e averi”.
Nasce lo stato di diritto insieme al concetto di cittadino. E questa formulazione ha già in nucleo quella possibilità di svi#luppo del concetto di uguaglianza che sarà una delle tre grandi parole proclamate dalla Rivoluzione francese.
È lo stato borghese che nasce, ed è evidente dal fatto che nelle formulazioni iniziali non tutti gli esseri umani sono cittadini.
Anzi mi sembra interessante che inizialmente per giustificare il voto ai soli proprietari si trovi quella formulazione teorica per cui la proprietà è una forma della responsabilità e il proprietario ha diritto di voto perché avendo cura della proprietà garantisce la sopravvivenza collettiva.
Il buon padre di famiglia che ha cura dello schiavo, della donna, della terra, in quanto ne è il proprietario, rappresenta il modello di cittadino, che si completerà con l’aggettivo ‘armato’ quando il concetto di proprietà privata si allargherà all’idea di nazione, i cui confini sono difesi appunto dal cittadino in armi (in questo caso anche nullatenente visto che può diventare carne da macello in guerra).
Una definizione che cancella le donne, anche violentemente (ricordiamo per tutte Olympe De Gouges) e cancella i diritti pregressi di cui godevano le ereditiere, della proprietà come della sovranità.
Da quel momento fino ai giorni nostri possiamo leggere un percor#so ininterrotto di lotte condotte di volta in volta dalle donne e dagli esclusi per accedere al diritto di cittadinanza ampliando e modificando i termini del patto sociale.
Un percorso perennemente segnato dalle parole libertà e ugua#glianza sul cui valore e significato si sono fondate appunto tutte le rivendicazioni.
Nel corso del ‘900 le donne hanno ottenuto la parità giuridica; smontati i pregiudizi con i quali si tentava di giustificarne l’esclusione, sembra che oggi non ci siano problemi: i principi in sé funzionano, basta ritenerli validi per tutti e per tutte e le cose poi si sistemano. Questo è il messaggio veicolato soprattutto dalla scuola, l’agenzia formativa più inclusiva per le donne, nonostante continui a trasmettere l’insignificanza storica delle stesse favorendo l’emancipazione imitativa sia in positivo, fanno testo i risultati d’eccellenza, che in negativo, come l’acquisizione di comportamenti socialmente problematici tipicamente maschili e la perdita di molte competenze tradizionalmente femminili.
La realtà è più complessa perché il modello sociale di promozione maschile fondato sulla divisione del lavoro, la competitività e la gerarchia economica si fonda sulla cancellazione politica e lo sfruttamento quotidiano di tutta l’economia della riproduzione, a cominciare dal lavoro gratuito erogato prevalentemente dalle donne per la crescita di bambine e bambini, l’assistenza di anziani e la manutenzione del domicilio.
Si tratta di una “struttura” economica profondamente radicata nella cultura o viceversa di una struttura culturale profondamente radicata nel sistema economico: da qualunque parte la guardiamo ciò che definiamo come economia e suo governo non può prescindere dalle relazioni tra donne e uomini e il sistema di attribuzione del valore di scambio non è separato dai processi di costruzione dell’immaginario in cui ci muoviamo quotidianamente.
L’universo simbolico in cui ha preso forma l’idea di lavoro produttivo delle merci come paradigma del rapporto tra uomo e mondo-natura è lo stesso che ha costruito la svalutazione di tutte le attività di riproduzione della vita come estranee al valore sociale che costituisce la “ricchezza della nazione”.
L’esclusione delle donne dalla scienza come dalla politica (ripercorrendo il modello della precedente esclusione dal potere religioso), la nascita del capitalismo con la definizione “forte” di lavoro di produzione della merce e l’oscuramento dei lavori della riproduzione, o una loro definizione “debole” come servizi quando sono messi sul mercato, l’esaltazione del dominio sulla natura ridotta a materia inerte a disposizione dell’esperimento e dello sfruttamento, sono fenomeni coevi che segnano quel grande cambiamento nella percezione del mondo e nel modo di abitarlo, socialmente e politicamente, che ancora oggi viene definito come inizio del progresso, nonostante l’evidente insostenibilità ambientale accompagnata da diffusa sofferenza umana.
Perfino nei testi considerati la massima espressione dei diritti civili di libertà ed uguaglianza, persistono incongruenze, apparentemente piccole, che segnalano la disparità oggettiva tra uomini e donne e la difficoltà a recepire la differenza come costitutiva dell’umano.
Prendiamo ad esempio un testo come la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”(1948): nella premessa e nei primi 15 articoli tratta dei diritti dell’individuo, poi improvvisamente nell’art. 16 è tutelata la famiglia “in quanto nucleo fondamenta#le e naturale della società” ma mentre la tutela dell’individuo ci viene minuziosamente spiegata, non si dice in che modo si pensa di tutelare la famiglia.
Questa misteriosa famiglia riappare poi nell’art. 23 a proposito dell’individuo che “quando lavora ha diritto ad una remunerazione equa per sé e per la propria famiglia” e nell’art. 25 a proposito di salute e benessere che sono diritti dell’individuo e della sua famiglia.
Si potrebbe dedurre che la famiglia è un’appendice di un solo individuo. Si tratta di una forma più neutra del solito buon padre?
L’art. 25 è interessante perché ha un secondo comma che forse, nell’intenzione del legislatore, voleva essere una forma di atten#zione ad un aspetto particolare della salute e del benessere, si parla infatti di maternità e infanzia.
L’infanzia è una definizione di età che rimanda a soggetti precisi, i bambini e le bambine, ma la maternità in questo modo diventa una funzione estraniata dal corpo femminile che andrebbe nominato come donna, altrimenti mi chiedo come fanno a tutelare la mia maternità senza nominarmi.
Nella Costituzione italiana, che pure è un testo mirabile per limpidezza e precisione, il pasticcio si fa ancora più eviden#te e segnala proprio la difficoltà di far rientrare le donne e la loro specifica condizione nella cittadinanza astratta elaborato dal diritto.
Nella Repubblica fondata sul lavoro c’è un tipo di cittadino le cui condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare (art. 37) e questo concetto di essenzia#lità è un po’ misterioso perché non si capisce se fa parte dei diritti o dei doveri.
Nello stesso articolo si tratta della donna lavoratrice e dei minori: un lapsus ideologico, potremmo definirlo, ma sappiamo che è il frutto della mentalità corrente che viene assunta a legge.
Le ambiguità consentono le discriminazioni nell’accesso ai diritti, non a caso in Italia ci sono volute molte lotte, dopo il 1945, per cancellare il delitto d’onore, per ottenere il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona, il diritto di accesso a tutte le carriere, un diritto di famiglia che affermasse la parità dei diritti e doveri tra i coniugi, e molte altre leggi attuative dei principi costituzionali anche per le donne. E ci sono volute le lotte delle donne, e soprattutto l’apertura del dialogo tra le donne dell’Occidente bianco e ricco e le donne del Sud del mondo, perché si arrivasse, a Pechino nel 1995, alla solenne dichiarazione dell’O.N.U. che i diritti delle donne, all’integrità fisica, alla libertà di pensiero, parola e scelta, all’istruzione, alla salute, alla proprietà, sono diritti umani, cominciando a superare le ambiguità della solenne dichiarazione del 1948.
Le donne che per prime hanno lottato per la propria emancipazione si sono rese conto ben presto che la partita giocata era molto più grande della semplice questione della parità giuridica perché la storia delle relazioni “politiche” tra donne e uomini si perde nel tempo antichissimo dell’origine della specie stessa.
Una storia politica raccontata ancora oggi in modo monosessuato attraverso la cancellazione della parte femminile che comincia a emergere lentamente grazie agli studi delle donne, come prima vittoria del processo di emancipazione che non si limita a rendere giustizia a metà dell’umanità, ma propone sguardi e contributi universalmente utili.
Il pensiero politico delle donne si intreccia profondamente alle istanze democratiche in seno al liberalismo e poi a quelle socialiste; si tratta di una storia politica complessa alla quale contribuiscono personalità diverse con posizioni che vanno dalla richiesta dei diritti politici e civili alle istanze più profonde di cambiamento sociale che diventi la vera e propria rivoluzione della fine del dominio dell’uomo sulla donna oltre che dell’uomo sull’uomo.
Valga per tutte la luminosa figura di Anna Maria Mozzoni, riscoperta da una storica come Franca Pieroni Bortolotti i cui studi preziosi sulla storia politica delle donne italiane sono ancora oggi senza seguito.
Allora come al presente le donne sanno che nello spazio politico si tratta di scegliere tra una parificazione dei diritti civili e politici, che lascia intatta la cultura profonda della gerarchia sociale, e la lotta per una società che metta a proprio fondamento la giustizia sociale, l’eguaglianza di possibilità per tutti e tutte e, oggi, il mutamento di sguardo nel rapporto tra umani e terra con tutti i suoi viventi.
La cesura della memoria storica nel succedersi delle generazioni di donne, che si è verificata due volte nel corso del ‘900, negli anni dopo la prima e la seconda guerra mondiale, ha prodotto la fantasia che, acquisiti i diritti, ogni donna si misura nella società esattamente come un uomo, grazie all’accesso a eredità e patrimoni famigliari e sociali, ma la realtà ha mostrato che senza un cambiamento profondo della società i diritti delle donne possono essere facilmente erosi determinando un arretramento di tutto il terreno democratico.
Anche oggi noi viviamo il fenomeno di una presenza politica femminile che, nei casi migliori, non va oltre l’emancipazione imitativa e nei peggiori utilizza la tradizionale contrattazione privata del corpo per l’accesso alle istituzioni.
Vengono presentati come alternativi, soprattutto dai media, due modelli che sono in realtà le facce della stessa medaglia, l’una non può esistere senza l’altra.
Sono particolarmente oscurate le donne reali e le storie politiche degli ultimi vent’anni, talvolta anche con la complicità di qualche pensiero femminista che predilige l’oscurità e la vaghezza dei propri assunti.
Se il femminismo in Italia è quella stagione politica che possiamo simbolicamente datare dal rifiuto di Franca Viola del matrimonio riparatore, dalla mobilitazione delle donne sul principio dell’autodeterminazione, dalle due grandi vittorie nei referendum sul divorzio e sull’aborto, io penso che quella stagione politica si sia conclusa con il fallimento intorno alla legge 40 e oggi siamo in un altro tempo, del quale non possiamo ancora dire se non parole che siano il nostro stesso agire.
Ci siamo mobilitate negli ultimi anni per mantenere i diritti continuamente minacciati, ma non basta, essere cittadine significa assumere la responsabilità di scegliere, di dire, di collocarsi nel qui ed ora della nostra storia individuale ma anche collettiva.
Quella differenza che trent’anni fa abbiamo marcato separando le parole Emancipazione e Liberazione esiste ancora: nessuna donna pensa più di sottovalutare il piano dei diritti conquistati e la prima parola della Rivoluzione francese, Libertà, viene pronunciata con orgoglio come conquista della propria autonomia, ma la seconda, Uguaglianza, è il nodo che lega mani e piedi anche nostri, la questione politica che non può essere elusa nemmeno tra noi.
La terza, Fraternità, subito accantonata anche dagli uomini, l’abbiamo solo nominata, al femminile, negli anni ’70, eppure sono convinta che senza pensare la Sorellanza come dimensione politica dell’agire collettivo, sarà difficile uscire dall’empasse del presente.