Riflessioni intorno al femminicidio
di Rosangela Pesenti
in FEMMINICIDIO. L’antico volto del dominio maschile, (a cura di Giuliana Lusuardi), Vittoria Maselli Editore, 2013
Lunedì 27 maggio – lunedì 3 giugno 2013
Ho ascoltato la notizia al telegiornale, con crescente orrore, per l’ennesima ragazzina uccisa, per l’ennesimo ragazzino diventato assassino.
Si rischia di restare senza parole. Forse siamo già senza parole se i media si riempiono dello stesso chiacchiericcio di sempre, mescolando laidamente stupidità e intelligenza, competenze (poche) e superficialità (tanta).
Noi siamo già senza parola se la parola è così insignificante e lo è perché infinitamente manipolata e deformata fino a diventare irriconoscibile anche a noi che la pronunciamo.
E visibilmente inefficace.
Incontro tra radio e web i soliti richiami, alla scuola prima di tutto, alla cultura famigliare poi, condita delle solite analisi sulla vita nella provincia italiana, questa volta il sud, ma potrebbe essere il nord, dato il luogo in cui si è svolto quest’ultimo femminicidio, come se non accadesse ogni giorno in ogni luogo della nostra imbarbarita modernità.
Per lei non possiamo fare più niente, se non rispettare la sua breve storia e il pianto di chi dovrà sobbarcarsi il fardello della vita con il carico di un dolore così pesante da poterti schiantare.
Per lui mi auguro che ci sia un processo giusto e un percorso di riabilitazione autentico senza vicinanze né complicità. Vorrei che avesse dall’autorità giudiziaria tutto ciò che gli è dovuto, ma che questo percorso cominciasse per lui con una presa di distanza chiara e concreta da parte di genitori, parenti, amici. Vorrei che potesse ricominciare dalla certezza del diritto ad avere un trattamento giudiziario e carcerario umano, ma contemporaneamente dalla solitudine affettiva, da un mutamento drastico delle certezze a cui magari non dà nemmeno peso, come quella di essere amato e accudito dalle persone che lo hanno messo al mondo.
Voglio giustizia dalla legge, ma anche capacità sociale di prendere le distanze, anche mediatiche, e non solo sull’onda dell’emozione.
Perché se non viene costruito un pensiero sociale di cambiamento i richiami a famiglia e scuola hanno poco senso.
Per la scuola ce la ricordiamo l’immonda campagna di Brunetta e compagnoni contro gli insegnanti fannulloni? Ce li ricordiamo i provvedimenti che negli ultimi vent’anni hanno smantellato pezzo per pezzo la scuola pubblica, togliendo prima di tutto credibilità al fondamento democratico dell’istruzione a disposizione di tutti e tutte senza differenze di alcun genere e censo?
E poi è arrivato, come ciliegina sulla torta della competitività, il merito, anzi la meritocrazia, parola che nessuno spiega, perché sarebbe come dire la dittatura politica dei tecnici che, senza la dimensione politica nel senso originario del termine, sono acefali o mistificatori.
Ogni competenza si può acquisire a vari livelli in ragione delle predisposizioni e talenti individuali, ma la competenza democratica può essere acquisita da tutte e tutti, e solo con l’esercizio.
Quanto alla famiglia, se usciamo dall’ideologia familista del sangue come appartenenza territoriale, della proprietà come asse ereditario materiale e simbolico che definisce la casa come recinto e la donna ancora come schiava, ne guadagnano in felicità tutte le relazioni tra i generi e le diverse età della vita.
Il femminicidio riguarda l’imposizione della proprietà su un essere umano e si fonda su un’idea di famiglia che ha la stessa origine della proprietà privata, come del resto anche lo stupro, che nasce da un’idea proprietaria della sessualità e non a caso viene agito sistematicamente in guerra.
L’attuale informazione diventa spesso manipolazione della realtà quando non si configura come vera e propria disinformazione, soprattutto nell’amplificazione dei particolari raccapriccianti (in fascia oraria per tutti), nelle domande cretine ai parenti della vittima e nella totale censura delle iniziative che da anni mettiamo in atto come donne per contrastare questo fenomeno.
In questo modo i media non fanno informazione, ma la manipolano in modo che il delitto possa essere contagioso, se non per diretta imitazione, per analogia, nella diffusione di comportamenti violenti, mentre si ostacola e si depotenzia, proprio attraverso la censura, la diffusione di buone pratiche politiche, quelle che sostengono concretamente la vivibilità del territorio e la dignità delle relazioni.
Il 13 febbraio 2011 sono andata in piazza con milioni di donne e anche uomini per chiedere un cambiamento radicale di cultura politica.
L’esito mi pare meschinello: è nata l’ennesima associazione che si proclama nazionale, ma è impastoiata nelle difficoltà oggettive di una costruzione democratica di tale portata.
Perché la democrazia comporta che tutte, ma proprio tutte, abbiano la possibilità di partecipare e diventare dirigenti, che non significa nominate per acclamazione, per simpatia, per notorietà, per rilievo sociale.
Come ho scritto nella mia adesione al 13 febbraio 2011, sono grata a donne molto visibili, come quelle che lavorano nel mondo dello spettacolo, o socialmente potenti (in senso positivo), come chi svolge una libera professione prestigiosa o è docente all’università, per essersi messe in gioco pubblicamente in modo tale da amplificare anche la mia voce e quella di tante alte.
Da una manifestazione alla costruzione di un movimento c’è però una distanza che, se non è riempita da pratiche democratiche, rischia di diventare una voragine invalicabile.
Non siamo all’anno Zero del femminismo e se si vuole davvero andare avanti conviene guardare alla storia dietro di noi per capire dove come e quando quella distanza ci ha fermate. Qualcuna ha cercato di aggirarla, altre di negarla, l’Udi ci si è misurata con enormi difficoltà per trent’anni.
Perché la democrazia ha bisogno di pari opportunità, che significa banalmente, e solo per cominciare, risorse per viaggiare e raggiungere i luoghi di dibattito, senza parlare del tempo a disposizione e di molto altro, come la possibilità di essere conosciute e riconosciute anche al di fuori del proprio territorio, rete amicale, professione, ambito ecc.
La disaffezione per la politica, anche da parte delle donne, cresce anche dentro la sensazione che non è roba per le cittadine comuni.
Come si spiega la distanza dai partiti e perfino dalle istituzioni, mentre cresce la capacità di costruire opposizione sociale al Tav, al Muos come alla discarica di amianto di un paesino del profondo nord?
Intanto le donne che subiscono violenza domestica se non hanno una famiglia che le sostiene non denunciano perché sono spaventate dall’idea di non avere casa e lavoro.
Le condizioni materiali non bastano a uscire dalla violenza, ma quando mancano uscirne è quasi impossibile.
Raramente qualcuno è disposto ad aiutarti e tu resti in balia di servizi sociali che si presentano spesso con la faccia di operatori/operatrici impreparate fino all’arroganza e alla scortesia e per la sussistenza c’è la Caritas, da noi in Lombardia diffusa in ogni paese, che fa riferimento a una concezione sociale lontana dal diritto.
In mancanza di altro meno male che c’è, ma ci si deve chiedere perché manca altro, perché non abbiamo capillari servizi comunali che si occupano dei diritti inalienabili della persona umana.
La nostra democrazia è fortemente incompiuta.
La metà delle donne in Parlamento sarebbe semplicemente il raggiungimento dei diritti solennemente proclamati dalla Rivoluzione francese, la parità negata dai fratelli alle sorelle borghesi. La parità nella dirigenza, la parità nella rappresentanza.
Si tratterebbe di una rivoluzione simbolica già significativa, ma i meccanismi di selezione oggi favoriscono ampiamente uomini e donne che sostengono la cultura patriarcale perché ne traggono profitto.
Su questo non possiamo essere ingenue. Da qualsiasi punto vogliamo guardarlo il femminismo è la pratica che scardina la società patriarcale. Non si tratta solo di idee, ma di pratiche, cioè di un modo di muoversi nel mondo che fonda l’autodeterminazione e produce libertà.
La storia censurata, cancellata, distorta
Il movimento delle donne si è costituito come soggetto politico nel momento in cui varie associazioni, gruppi, collettivi di varia collocazione autonomia e temporalità storica hanno reso visibile il riconoscimento della reciprocità necessaria a costruire una piattaforma comune, una proposta, una lotta, per l’affermazione di quei diritti che rappresentano la registrazione nei codici della piena cittadinanza femminile.
In questo processo l’Udi, l’associazione nata dalla Resistenza al nazifascismo e radicata nella democrazia repubblicana, ha avuto un ruolo importante, dal punto di vista dell’elaborazione politica, della capacità di tessere relazioni dentro e fuori dalle istituzioni, soprattutto per l’azione diffusa sul territorio e discussa con tutta la democrazia possibile.
L’incontro dell’Udi con il femminismo fu storicamente politico, come evento prodotto da donne, collettivi e gruppi in luoghi e tempi precisi, ma fu anche un incontro-scontro generazionale e un processo di osmosi attraverso il quale giovani femministe scelsero di entrare nell’Udi per innestare consapevolmente la propria vita dentro la storia fatta da tante altre donne, di cui riconoscevano il valore politico, si proponevano di ereditare la memoria e generare una creativa continuità.
Il movimento delle donne, del quale solo una parte si definiva femminista, anche dentro l’Udi, negli anni tra la lotta per il divorzio e quella per la legge contro la violenza sessuale, si costituì come un soggetto politico che non si autonominava rappresentante delle donne e anzi, la capacità di autorappresentazione del movimento era tale da funzionare come un attrattore fisico: la visibilità delle donne al centro si irradiava alle periferie sostenendo la visibilità di chi è sempre invisibile.
Il patto politico non scritto, ma ben chiaro a tutte, univa donne di ceti sociali molto distanti in una solidarietà che, riconoscendo la comune discriminazione di genere, ne faceva la condizione per un ripensamento totale della società e delle relazioni che la costituiscono.
Considero la vittoria al referendum sulla Legge 194, più ancora che quella sul divorzio, come il risultato più alto di quel processo, perché quella legge era strettamente legata a quella sui consultori, al nuovo diritto di famiglia, a un’idea dell’infanzia come titolare di diritti indipendenti dall’appartenenza famigliare e quindi portava con sé molte e capillari lotte: per gli asili nido, per scuole d’infanzia pubbliche, per una scuola laica, libera e gratuita ecc. ecc.
Il dibattito sul rapporto tra rappresentazione e rappresentanza, sulla tensione tra uguaglianza e differenza, sulla qualità della democrazia e le pratiche realmente inclusive, sull’accesso a risorse e opportunità, sulle tante differenze sociali e gli stereotipi culturali che piegavano vite e vicende femminili a un destino ingiusto, prese corpo allora, ma non riuscì a investire i luoghi della formazione e della cultura e soprattutto i media, che cominciavano a diventare pervasivi e dominanti nella costruzione delle identità personali e sociali.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio il movimento delle donne si è frammentato in esperienze che rispondevano ai diversi interessi delle donne che avevano vissuto da protagoniste la stagione che oggi definiamo giustamente dei diritti.
Era stata la stagione dei diritti conquistati insieme alla consapevolezza di sé e l’esito fu anche il desiderio di misurarsi “a corpo libero” negli studi come nelle professioni, politicamente nei partiti, nel sindacato e infine in tutte le associazioni che rispondevano a progetti politici specifici.
Dai centri studi ai gruppi di approfondimento tematico, dalle riviste ai centri antiviolenza, la persistenza e crescita di questo tessuto dimostra la capacità delle donne di radicarsi sul territorio e trasformare i propri bisogni e desideri in progetti concreti, intorno ai quali si fonda oggi la resistenza politica contro i pesanti tentativi di farci tornare indietro.
Rimase aperta la questione della rappresentanza e del diverso potere sociale, che comunque non era stato intaccato.
Per quasi un decennio, negli anni novanta, fu inascoltata la voce di chi denunciava le persistenti condizioni di ineguaglianza nell’accesso al lavoro, le discriminazioni nelle carriere, l’inadempienza legislativa, la costruzione di stereotipi identitari sessisti e razzisti nei media, la pervasività del potere religioso che si appropriava di scuola e sanità con gli esiti che conosciamo.
In quegli anni qualcuna dichiarò che il patriarcato era morto e le donne potevano affermare la propria libertà, che era prima di tutto una condizione dello spirito, dalla quale dipendeva, con un capovolgimento degno di nota, anche la condizione materiale.
Insomma se la tua vita era insoddisfacente (per usare un eufemismo) era colpa tua.
L’immigrazione non era ancora riuscita a mostrarci il volto laido e rapace del capitalismo occidentale, ma rinasceva proprio allora la tratta delle donne, lo sfruttamento del lavoro schiavile e tutto ciò che ribolle nella nostra difficile contemporaneità.
Se la frammentazione in progettualità diverse può essere considerata anche una ricchezza, fu invece poco lungimirante il disinteresse per il mantenimento e il rafforzamento delle relazioni politiche appena costruite.
L’individualismo e la competitività che si predicavano per le persone contagiò anche quelle istanze del movimento che si erano istituzionalizzate in vari servizi e volentieri correvano da sole per ottenere risorse e visibilità sociale.
Si trattò di un processo dentro il più generale processo di dissoluzione del lavoro, in particolare di quei lavori della riproduzione sociale che, essendo misura della cittadinanza, soprattutto femminile, potevano essere sbriciolati in un sistema privato di cooptazione e sfruttamento nonostante ognuno di quei lavori (educatrici/tori, insegnanti, assistenti domiciliari ecc.) si configurasse come servizio pubblico. Fino all’aperta aggressione a sanità, scuola e pubblica amministrazione.
Anche per l’ultimo femminicidio, come ogni volta, la cronaca investe di banalità la vita, in questo caso adolescente, i soliti saggi e purtroppo anche sagge tirano in ballo la scuola dimenticando l’aberrante campagna contro gli insegnanti fannulloni, che insieme ai tagli dissennati, ha messo in ginocchio la scuola italiana cancellando prima di tutto l’autorevolezza delle insegnanti con un esito che non si potrà recuperare in pochi anni. La cancellazione dell’autorevolezza non è solo una forma di disconoscimento operata dagli/dalle utenti, ma diventa un processo di incapacitazione personale che viene assunto dalle/gli insegnanti stessi con esiti di erosione della cultura scolastica, che ormai regge solo in microaree di consapevole resistenza. Non credo sia un caso che in questi settori la maggioranza dei dipendenti sia donna e in modo inversamente proporzionale a dirigenti e manager: vale per la scuola come per la sanità e la pubblica amministrazione.
La distruzione di lavoro e competenze operata nei settori chiave per l’esistenza della società non è certo estranea al crescere di forme diffuse di violenza e microcriminalità che, non a caso, si riversano sulle donne fino all’emergenza femminicidio.
Una proposta politica ancora attuale
In quel passaggio cruciale della fine anni Ottanta l’Udi tenne il suo XII congresso nel quale la proposta politica più rilevante fu quella di Lidia Menapace della “Gestione politica delle differenze teoricamente incomponibili” che rispondeva alla necessità di trovare forme di ricomposizione delle differenze presenti nell’Udi che si attestavano proprio, teoricamente, sulla diversa valutazione del momento storico.
Non era indifferente alle scelte politiche affermare la morte del patriarcato o riconoscerne la capacità mutaforme, che non a caso l’aveva traghettato quasi indenne nelle forme del dominio, tra le varie forme politiche e strutture economiche a sostegno del sistema schiavile, come del feudalesimo e poi del capitalismo, profondamente infiltrato nella struttura proprietaria del liberalismo e non estraneo perfino al socialismo, come denunciarono non solo le madri fondatrici ma anche padri fondatori come Engels.
La proposta politica di Lidia ci riportava alla concretezza della vita delle donne, che indicava comunque molte lotte ancora da fare e soprattutto diritti appena acquisiti da presidiare, concretezza sulla quale si poteva pattuire e convenire.
Il problema delle differenze dentro un’associazione nazionale come l’Udi esprimeva più in generale il clima politico di tutto il movimento delle donne, che l’insulso e colpevole politicismo mediatico definì genericamente come riflusso, cancellando e deformando la realtà del dibattito e delle nostre esistenze.
Gestire politicamente le differenze significa costruire un processo democratico attraverso il quale si trova una sorta di minimo comune denominatore, lo zoccolo duro di diritti dai quali non si vuole arretrare e quelli che si ritiene indispensabile conquistare.
La Convenzione fu la forma politica concreta che poteva consentire la gestione delle differenze teoricamente incomponibili, ma anche, come passo successivo, le differenze tra forme associative che potevano avere in comune una precisa richiesta per cominciare una specifica lotta a tutti i livelli.
Oggi siamo a questo punto e la Convenzione NO MORE è un primo passo. La strada della divisione l’abbiamo già percorsa in modo infruttuoso e non basta la conquista di qualche piccola visibilità nei media, grazie a generose presenze di donne che ne hanno la possibilità, per produrre quell’urgente cambiamento che salvi prima di tutto le nostre vite.
Abbiamo bisogno di pratiche riproducibili in ogni luogo e che in ogni luogo consentano a una donna di non sentirsi sola o collegata al mondo solo tramite web.
Abbiamo bisogno di vicinanze più concrete e modalità più democratiche.
Il femminismo degli anni ’70 mosse ogni periferia, noi possiamo fare il passo successivo, non so come o quando, ma è questo il compito del presente.