Leggo per caso, tra un articolo e l’altro di un dibattito serio sulle parole della laicità, un articolo che definire curioso è un eufemismo: il signore scrive di violenza sulle donne cominciando in punta di forchetta con tutta una serie di distinguo pretestuosi che la inseriscono tra le piegature linguistiche di vari concetti ad hoc, il cui significato va oltre i singoli termini.
Gli esempi iniziali: ferro da stiro, ragazza madre, sono il pretesto (espressione della casualità inconscia?) per introdurre una serie di distinzioni capziose che riguardano la locuzione “violenza sulle donne” entrata in uso, a suo dire, in forma poco pertinente rispetto alla realtà.
Sono in casa dal 22 febbraio, all’inizio per precauzione e adesso perché vivo in provincia di Bergamo.
La gravità della situazione in cui vivo/viviamo mi indurrebbe al silenzio, a lasciar perdere, e vorrei saper scrivere sommessamente, col tono che si conviene accanto ai malati, ai morti, ma non penso di riuscire perché ci sono questioni su cui non si può mai tacere.
Nei momenti di crisi le donne spariscono come genere anche se sono indispensabili nella gestione quotidiana e si accentua il peso del lavoro che già normalmente devolvono a favore della famiglia e della comunità, per non dire del surplus di accudimento in tutte le professioni.
Non sarà sfuggito a nessuno, mi auguro, che le infermiere sono in maggioranza donne, e sono in stragrande maggioranza donne ad occuparsi dei servizi di pulizia, dell’assistenza ad anziani, disabili, non autosufficienti, ad accudire bambini e bambine, pulire case, preparare pasti.
Soffrono anche gli uomini, certo, e molti uomini sono impegnati contro il virus ma le donne sono invisibili anche quando le vediamo, considerate accessorie anche quando sono maggioranza.
Nelle fabbriche non ci sono solo lavoratori ma anche lavoratrici e il virus non ha cambiato il dato del lavoro sommerso femminile, anzi l’ha certamente peggiorato.
Sono in maggioranza donne a mantenere aperta la scuola via web, perfino aderendo alla forma asservita del casalingato culturale, che pretende di tenere in piedi l’ordine costituito quando l’ordine è attaccato nella sua struttura portante: le persone, e converrebbe cominciare a ripensare tutto, a cominciare dalla cultura che vogliamo davvero trasmettere.
Perfino le esperte, le virologhe, le mediche intervistate sembrano più sobrie, più concrete, più attente alla comunicazione, meno interessate all’esibizione rispetto a uomini altrettanto competenti.
Eppure nessuno rileva questi dati oggettivi.
Arrivano invece i soliti sproloqui, pelosi e maschilisti che conosciamo da decenni, sulla violenza maschile, sproloqui con vari errori e se volessi fare la professoressa potrei osservare che la premessa dell’articolo è incongruente rispetto allo svolgimento, se non fosse che il signore in questione non mi suscita nessuna disponibilità né pedagogica né didattica.
Testi documentati e seri spiegano le parole e la loro storia antropologica, giuridica, politica perciò non spiegherò la differenza tra sessuale e sessista, la specificità di femminicidio, le questioni tra femminile e genere, la lunga storia del dominio maschile e i suoi dispositivi, che l’accademia coltiva, ahimè, con superficiale arroganza.
Gli uomini si mettono in cattedra persino se vogliono proclamare una critica all’essere maschile, e perfino pubblicazioni serie (e che vogliono impegnarsi ad essere tali) lasciano passare articoli con dati falsi e riflessioni quanto meno contorte.
I dati sono noti se perfino il procuratore generale della Corte suprema di Cassazione Giovanni Salvi
nel suo intervento durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario ha affermato che nel “contesto positivo” del calo degli omicidi con uomini come vittime – 297 nel 2019, dato inferiore alla media Ue -“le violenze in danno di donne e di minori diminuiscono in numero, ma restano una emergenza nazionale” definendo quindi “drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur se anch’essi in diminuzione, gli omicidi in danno di donne, consumati nel contesto di relazioni affettive o domestiche, i cosiddetti femminicidi. Le donne uccise sono state 131 nel 2017, 135 nel 2018 e 103 nel 2019. Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi in danno di uomini, in maniera davvero impressionante”.
E noi sappiamo che i femminicidi sono solo la punta dell’iceberg di una violenza diffusa, tollerata, coltivata, blandita, una violenza cancellata appena ieri dalle leggi che imponevano la sottomissione delle donne agli uomini di famiglia, escludendole dai diritti politici, limitandone l’istruzione, l’accesso a carriere (non al lavoro sfruttato) e perfino interdicendo le possibilità per il diritto alla salute.
Non citerò la Convenzione di Istanbul e nemmeno il rapporto Cedaw o quello del Grevio perché non c’è peggior intellettuale di quello che non vuole leggere e studiare, di chi pensa che la questione della violenza maschile sulle donne si possa discutere come opinione da salotto buono, che si tratti di qualche situazione e soprattutto che anche le donne hanno la loro parte di responsabilità.
L’articolo è interessante solo dal punto di vista antropologico, come l’ennesimo sintomo di una malattia grave che danneggia da anni la specie umana e perfino l’economia, che sembra sempre l’interesse centrale anche in tempi di pandemia.
Non sarebbe degno di risposta in tempi normali ma è grave in tempo di crisi, quando viene meno proprio la laicità e i richiami alla solidarietà scivolano nella retorica della patria, così come la dura realtà del lavoro, delle differenze di condizione, reddito, rischio, viene blandita sprecando la parola eroismo per le persone che tengono in piedi quello stesso sistema sanitario che si è voluto ridurre e mortificare.
Le donne più precarie e meno pagate sono indispensabili per la sanificazione degli ambienti e per i turni disumani negli ospedali.
Lo fanno senza tirarsi indietro, senza mettersi in sciopero, senza chiedere contropartite, con senso di responsabilità e solidarietà umana.
Moltissime di queste donne conoscono la normale violenza del sistema: patriarcale, capitalista, ingiusto; molte di loro conoscono anche la violenza economica, psicologica, domestica, tra le mura di casa, quotidiana e sfibrante.
Mentre i mercati, quindi gli operatori finanziari, mostrano un’emotività imbarazzante e i politici più spacconi si contraddicono continuamente, senza mai scusarsi, che nemmeno i bambini colti in fallo, le donne che quotidianamente subiscono violenza sopportano una pressione inaudita e perfino noi che le conosciamo, che lo sappiamo, possiamo fare per loro solo quel ben poco che sempre cerchiamo di fare.
Noi lo sappiamo: nei momenti di crisi la resistenza delle donne è fondamentale ma la condizione delle donne peggiora.
Per una donna avere l’autodeterminazione del proprio corpo è un diritto appena acquisito e continuamente messo in discussione. La condanna di Weinstein ha suscitato in fondo meno clamore dei pettegolezzi su chi ha avuto il coraggio di denunciarlo, perché si tratta di una questione di potere.
Potere sui corpi, potere sulle parole, potere sulla cultura, sull’economia, sul pianeta e non se ne può più di patriarchi vecchi e giovani che pontificano.
In questo momento di crisi guardo molto la TV e continuo a vedere il protagonismo maschile, anche degli uomini con le migliori intenzioni che non sono per nulla consapevoli dell’asimmetria di potere per il quale le donne sono invisibili come genere, in posizione ancillare e/o decorativa quelle visibili, messe continuamente sotto severo esame le poche che parlano per competenza e con diritto di responsabilità.
Mentre vorrei scrivere alle mie allieve di tanti corsi, le operatrici che tengono aperti i centri antiviolenza della provincia di Bergamo e non trovo parole per dire la mia vicinanza, il mio affetto, la mia gratitudine, me ne sto qui a rispondere a un cumulo di sciocchezze e di bugie.
Lo faccio perché un’amica me l’ha chiesto, perché funziona così nella rete delle donne solidali, funziona così tra noi che siamo invecchiate insieme lottando giorno dopo giorno, invisibili e tenaci, conservando memoria delle tante donne che hanno lottato regalandoci la democrazia per tutti, compreso il sistema sanitario nazionale, nella certezza che altre donne, più giovani, raccoglieranno le nostre parole, le nostre vite, le nostre speranze.
In un bel libro sulla sua vita, riflettendo sulla fine dei partiti nati dalla Resistenza, Tina Anselmi racconta del rapporto con le donne socialiste e comuniste che con lei hanno conquistato il nuovo diritto di famiglia e scrive: “Se ci fossimo fermate, se ci fossimo guardate diritte negli occhi e avessimo riflettuto … Forse …”[1].
In quel FORSE sta tutta la storia politica di questo paese vista dalla parte delle donne.
Ed è questo che ancora dobbiamo fare oggi: superare quel forse e capovolgere le narrazioni.
Dobbiamo aver eil coraggio di guardarci negli occhi. Sappiamo quanto sia difficile per una donna trovare credito nelle aule dei tribunali, per questo non dobbiamo consentire che venga insinuato il discredito nel vasto mondo della cultura e della sua trasmissione.
Scrivo perché voglio dire a tutte le donne che subiscono violenza, molestie, a tutte le donne mortificate, a tutte le donne arrabbiate, alle precarie, alle sfruttate, alle donne stremate che lavorano negli ospedali, alle donne chiuse in case pericolose, a tutte ma proprio a tutte, una per una, voglio dire che tutto andrà bene solo se niente sarà più come prima.
In un momento di crisi occorre trovare una misura sobria anche nelle parole, anche negli spazi offerti alle parole, non tutto ci è utile e ci sono cose, azioni, gesti, perfino pensieri indispensabili, che vivono e crescono meglio nel silenzio.
Un’esperienza che mi sento di consigliare agli uomini intellettuali: non un silenzio totale o per sempre come quello imposto per secoli alle donne, per carità, non l’interdizione della memoria, la censura degli scritti, la cancellazione delle intelligenze, niente del genere, solo piccole temporanee sospensioni, come quando cucini, rifai il letto, imbocchi un bambino, pulisci un pavimento, fai la spesa, ascolti un’amica.
Poi torni a scrivere, a parlare. Con una raccomandazione: se vuoi trattare l’argomento “violenza maschile sulle donne” magari prima studia un pochino, informati, giusto per non far figure, come diceva mia mamma, classe 1916, titolo di studio: quarta elementare.
[1] Tina Anselmi, con Anna Vinci, Storia di una passione politica, Sperling & Kupfer, 2006, p. 80