Testo pubblicato in: Roberta De Pasquale (a cura di), Liberi da stereotipi. Educhiamo al rispetto, costruiamo parità, Bergamo University Press, Sestante Edizioni, Bergamo 2020
Quando, intorno alla metà del X secolo, Adalberone di Laon[1]fissa l’immagine di un ordine sociale diviso tra coloro che pregano, coloro che combattono e coloro che lavorano, semplificando la complessità del nascente mondo feudale nella teoria statica che mette ognuno al posto decretato da Dio, è evidente che le donne non ci sono.
Le donne sono le invisibili, in ognuno dei tre ordini, perché a loro è affidato il compito di riproduttrici, più vicine al mondo animale che a quello umano, di cui rappresentano l’imperfezione, per una convinzione che arriva dalla cultura greca, attraversa la storia romana e sopravvivrà intatta fino al Settecento.[2]
Adalberone registra e fissa un’assenza, traghettando nella nascente società europea, che si sta formando intorno a nuove e diverse centralità politiche, una diversa cultura religiosa, nuove lingue locali, un’idea dell’esistenza femminile come accessoria che arriva fino a noi.
L’invisibilità è il primo fondamento culturale degli stereotipi di genere e sessisti, perché l’invisibilità è la pagina bianca su cui si può scrivere senza tener conto della realtà.
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