Loro precari e noi ammutoliti.
Considero un elemento di progressiva e strisciante fascistizzazione la sequenza di corsi e ricorsi, articolati ad arte come forche caudine, alle quali devono sottomettersi i/le giovani che aspirano a diventare insegnanti, o più precisamente a uscire dal vergognoso precariato di un lavoro che spesso svolgono egregiamente già da parecchi anni.
Test, lezioni, esamucci ed esamini e la fatica di correre dalla scuola a pomeriggi noiosi e inutili, pagando onerosi balzelli, percorrendo chilometri e chilometri con rischio proprio (gli incidenti per stanchezza non sono mancati) e non solo.
Ci si riempie la bocca con la famiglia, ma non contano le vite delle giovani madri, dei loro bimbi, dentro e fuori la pancia, i primi immersi in situazioni ed atmosfere certo poco favorevoli ad un sereno procedere della vita prenatale, gli altri sballottati tra nonne, balie, zie e parentado amicale e soccorrevole con tutte le difficoltà di adattamento e le possibili esplosioni di disagio che conosciamo.
Giovani donne e giovani uomini avviliti, mortificati, misurati su cumuli di nozioni che il contesto, di fatto, riduce a mere sciocchezze.
I concorsi dei miei tempi non erano particolarmente intelligenti, ma non eri almeno costretto a buttare tempo e denaro.
Scrivo perché mi vergogno di me stessa, di non riuscire a trovare la strada per costruire un’alleanza, per mostrare almeno solidarietà a questi giovani colleghi e colleghe.
Mi vergogno dell’ignavia che ci ha presi tutti e tutte, ansimanti dietro artificiose scadenze e adempimenti burocratici che ci impediscono di pensare.
Noi che abbiamo tenuto in piedi questa scuola per venti, trent’anni, abbiamo il dovere di dire a gran voce che non si diventa insegnanti di una scuola democratica attraverso l’asservimento, l’ossequio alla dirigenza, la compiacenza, l’omertà, il diniego.
Noi che non siamo ricattabili dovremmo farci avanti. Ma noi ‘chi’ mi chiedo? Non trovo un noi sindacato che raccolga questo pensiero, non trovo luoghi che organizzino un ascolto e il ministro dell’istruzione sembra ignorare la storia della scuola degli ultimi trent’anni.
Noi veniamo dagli anni in cui Don Lorenzo Milani insegnava che l’obbedienza non è più una virtù e una Repubblica democratica fondata sul lavoro non può permettersi una scuola che si limita a sancire e legittimare le differenze sociali, riproducendo modi e forme culturali delle classi dominanti.
So che oggi è tutto più complicato, ma la scuola pubblica, con tutti i suoi difetti, con le sue tapparelle rotte e le aule spoglie, resta l’unico luogo in cui i generi e le generazioni possono riconoscersi e misurarsi su un piano di parità mescolando storie individuali familiari territoriali diverse, con la possibilità di un reciproco arricchimento.
Insegnanti mortificati, costretti ad un apprendimento senza motivazione, alla ripetizione priva di elaborazione autonoma, come potranno aiutare allievi e allieve a crescere amando la fatica della libertà?
La scuola ha bisogno di un processo straordinario di revisione che abbia al centro insegnanti e allievi nel governo di un cambiamento necessario e urgente, che non può essere affidato ad alchimie riformatrici di piccolo cabotaggio.
E per favore piantatela con l’esame di maturità, che andrebbe semplicemente eliminato.
So che il tono di questo mio appello pone problemi e non avanza proposte, ma ad ognuno la sua parte, la mia può essere solo la pratica di una resistenza attiva a tutta la stupidità delle procedure massificanti e, dove non posso altro, la pratica civile del ‘non tacere’.
Rosangela Pesenti