TRA IL CORPO E GLI AFFETTI (Commento a una mostra)
Corpi, segnati dalla propria storia, disegnati, plasmati intorno alle proprie storie.
Parlo di storie, al plurale, perché i segni che possiamo leggere nelle immagini della mostra sono lontanissimi da quell’unica etichetta dietro cui proteggiamo/nascondiamo la nostra “normalità”.
Ci sono la fatica e la gioia, la ricerca e la speranza, i dubbi e i doni, sui volti, sui corpi, che si lasciano cogliere nel vivere quotidiano, orgogliosi di sé e delle storie che le fotografie lasciano intravedere, che le parole sollecitano nei nostri pensieri.
Donne di-verse, lungo strade che non sono mai uguali, sapiente impasto di casualità e impegno, limite e scelta, incertezza e possibilità, tristezza e allegria, timore e crescita.
Ci mostrano il volto luminoso delle loro vite con la consapevolezza che può dare l’aver saputo attraversare quell’oscurità che è sulla strada di ognuno, ombra dell’incertezza, del timore, del limite oltre i quali si apre la scoperta di sé.
Esperienze diverse che illuminano la capacità di vivere il proprio tempo col suo carico di imprevisto e di responsabilità.
Determinazione e creatività, tenacia e voglia di vivere: non è un caso che nei commenti qualche visitatore (o visitatrice) insieme all’ammirato stupore, non riesca a celare la propria invidia.
Sono immagini che liberano i nostri sguardi dalla gabbia in cui i media costringono i corpi delle donne (ma anche quelli degli uomini!): misure di carne anonima, senza storia, materia informe che si plasma nella serialità di significati predefiniti, volti intercambiabili e sorrisi stereotipati.
Così mentre il corpo “normale” diventa luogo di sperimentazione del sogno infantile della perfezione (ma quale?) e dell’eterna giovinezza, c’è chi ha il coraggio e l’allegria creativa di vivere, semplicemente, senza aggettivi, così com’è.
“Tra il corpo e gli affetti”, è il titolo della mostra, affetti che non è difficile indovinare in questi corpi che si mostrano, affetti che sono persone, amori, amici, figli, vicini, conoscenti, ma anche luoghi, occasioni, lavori, impegni, momenti diversi di un agire intero del corpo che è pensiero e sentimento, gesto, atteggiamento, esposizione: un vivere intenso e spesso appagato, comunque mai subalterno ad uno stereotipo, un’etichetta, una paura.
Le fotografie di Ileana, Antonella, Maria, Marzia, Francesca, raccontano che si può essere se stesse con un piacere che si rinnova e cresce ogni volta che ci riconquistiamo, ogni volta che un pensiero nuovo riformula il profilo del nostro orizzonte e della nostra immagine.
Una ricetta troppo semplice? Facile da vedere nella fotografia di un’altra, si può conoscere davvero solo sperimentandola nella pratica di un vivere che non abdica al desiderio di essere ed esserci.
Grazie per avermi invitata tra voi.
Rosangela Pesenti
Traslocare la società
Intervista UILDM a Rosangela Pesenti
C’è tanto movimento, in ambito di disabilità “al femminile”, e a questo DM già da tempo dedica numerosi servizi e interviste. Recentemente, poi, abbiamo guardato con attenzione ad alcune interessanti iniziative pubbliche: una mostra fotografica promossa dalla UILDM di Bergamo, che ha avuto per protagoniste alcune donne disabili, mentre altre – nell’estate del 2000 – hanno sfilato in carrozzina a Roma, nel corso di una manifestazione di moda che ha avuto notevole risonanza.
Abbiamo cercato di fare il punto su alcuni di questi temi con Rosangela Pesenti, una persona che da tanti anni appartiene ai movimenti delle donne, un’insegnante, oggi anche scrittrice, che nel suo libro Trasloco, dice: “Potrei costruire un castello ai bambini, studiare storia, preparare il minestrone. Forse la cosa migliore”.
E’ stato bello e stimolante parlare con lei, nel corso di un dialogo ricco, mai scontato e contro tanti luoghi comuni, spesso presenti su certi temi.
Lei ha scritto: “Mentre il corpo ‘normale’ diventa luogo di sperimentazione del sogno infantile della perfezione (ma quale?) e dell’eterna giovinezza, c’è chi ha il coraggio e l’allegria creativa di vivere, semplicemente, senza aggettivi, così com’è”. Che cosa ci può insegnare la mostra fotografica della UILDM di Bergamo intitolata Tra il corpo e gli affetti”?
Penso che ci insegni il piacere per il proprio corpo. Io credo infatti che il piacere, contrariamente a quello che si può pensare, non sia un’esperienza naturale, nel senso strettamente biologico, ma sia qualcosa invece che si conquista attraverso l’elaborazione del rapporto fra il sé profondo e il proprio corpo, che in qualche modo è la “vernice esterna”, il “confine” tra noi e il mondo.
Spesso gli adolescenti ai quali insegno immaginano un corpo ben diverso dal loro corpo reale, cosicché per quest’ultimo non provano piacere, perché ne hanno un’immagine deformata. Io credo che il piacere per il proprio corpo si raggiunga attraverso un’elaborazione profonda su chi si è veramente.
Guardando quelle foto di donne disabili, ho visto dei corpi pieni di capacità fisica di amare, quasi che avessero dovuto accelerare quel percorso di elaborazione del sé… Un percorso al quale io stessa – che da adolescente mi vedevo orribile, anche se invece probabilmente ero una ragazza piacente – sono arrivata solo da poco, a quasi cinquant’anni. Oggi finalmente il mio corpo coincide con me, con quella che io sono, e ne ho una percezione di grande vita, di grande piacere. E questo stesso mio vissuto, raggiunto solo con l’età, io l’ho visto nelle immagini di donne disabili anche giovani che dovendo da subito percepirsi come “diverse” e fare i conti con questo, possono costituire una grande lezione anche per quelle adolescenti (o donne) non disabili che non hanno il coraggio di misurarsi fino in fondo con l’immagine di sé e perciò se ne costruiscono sopra un’altra, quasi imposta dalla società, dal “mercato dell’immagine”.
Si vedono insomma, in quelle foto, donne che hanno consapevolezza della propria immagine, dopo un’elaborazione che hanno dovuto necessariamente incominciare da bambine.
Si può fare un discorso analogo anche per la sfilata di moda che ha avuto lo scorso anno per protagoniste delle donne in carrozzina?
Solo in parte. Personalmente amo i bei vestiti, ma non amo le sfilate di modelle, per un semplice motivo: l’uso inquietante del corpo femminile come pura “materia plastica”. Da sempre il corpo femminile è stato usato per significare qualcos’altro: la giustizia, la dea bendata, la libertà e così via, in uno “svuotamento” della sua storia reale che lo porta a diventare “puro simbolo”. Succede anche nell’arte anche se in modo diverso soprattutto con la grande presenza artistica delle donne nel ‘900, ma credo che questa forma di espropriazione della storia individuale da un corpo – in una modella che sfila – raggiunga uno dei suoi massimi vertici: e del resto, a parte pochi casi, chi sono le modelle? Chi le ricorda? Chi ne sa la storia? Sono puro “simbolo”, “materia plastica”, che tra l’altro costituisce anche un pericoloso modello per le adolescenti, per quanto riguarda la costruzione dell’identità e l’elaborazione dell’erotism, mentre si sa che il desiderio non scatta necessariamente per un bel corpo, ma è frutto di rapporti assai più complessi e insiemepiù semplici per fortuna.
Questo come premessa sulle sfilate di moda in generale. E tuttavia, per quanto riguarda le donne in carrozzina, c’è un fatto di qualità in più: esse la loro storia non la fanno dimenticare, è impossibile… Esse aggiungono qualcosa di più, ed è un fatto importante, rispetto al puro “significante” delle modelle, la loro storia non si può nascondere. Cosicché – ed è probabilmente la cosa più significativa – chiunque ha visto queste donne, avrà pensato a chi sono, le avrà guardate in faccia, perché ci vuole anche un grande coraggio – per tutti – ad affrontare un’esperienza come questa. Una provocazione di grande potenza.
Da studi recenti sembra che la donna disabile sia più discriminata rispetto all’uomo in situazione analoga: meno possibilità di studiare, di lavorare, di sposarsi. Crede che sia vero anche per il vissuto del corpo e dell’immagine?
Dal punto di vista sociale, credo non si faccia altro che riprodurre le stesse dinamiche presenti tra le persone non disabili, ma sulla questione dei vissuti credo invece che conti molto “come ce la raccontiamo”.
C’è una prima lettura: siccome ad una donna viene richiesto di prendersi cura del “piccolo collettivo” che ha intorno, la casa, la famiglia, è probabilmente vero che per una disabile è più difficile sposare un non disabile che non viceversa. Per superare questo, anche la donna disabile – come tutte le altre – dovrà quindi “semplicemente” darsi da fare per essere fisicamente attraente, imparare a cucinare, a cucire, fare anche un lavoro, assumersi insomma delle fatiche in più e così via.
Ma un po’ provocatoriamente vorrei rovesciare questa lettura. Io penso che, al di là degli stereotipi, siano molto più frequenti gli uomini – perlomeno nel mondo occidentale avanzato – che si sposano non per amore, ma perché hanno bisogno di “qualcuno che li accudisca”. Allora, di fronte a ciò, credo che le donne a volte non si sposino perché sono e sanno essere più autonome degli uomini. Non vorrei insomma solo una lettura “in negativo”. Spesso, anzi, potrebbe essere anche più liberatorio pensare che talora le donne non si sposano solo perché sono più autonome e che non hanno bisogno di nessuno, a meno che non incontrino qualcuno per cui ne valga davvero la pena.
Ebbene, tornando alle donne disabili, nemmeno qui credo che si debba necessariamente pensare che siano “rifiutate dagli uomini perché inadeguate”, no, una donna che deve affrontare il proprio corpo “diverso”, se stessa, che fa un lungo percorso di maturazione, è ancor più difficile che possa trovare “un uomo alla proprio altezza”, è più probabile invece che siano gli uomini a diventare poco attraenti ai suoi occhi!
E chissà, anche se questa lettura non fosse del tutto vera, tutto sommato tra le narrazioni di noi stessi che si possono scegliere, ne preferisco sempre una che “valorizzi” anziché “deprezzare”, che faccia pensare a libere scelte anziché a costrizioni…
“Traslocare significa poter sgusciare nel mondo delle idee, sapendo che queste esistono solo se provate sul proprio faticato essere, rivestite di fatica volontaria”: questo è scritto nell’introduzione del suo libro Trasloco, curata da Paolo Pennisi. Ma che cosa significa “traslocare” per una donna disabile?
Credo a un “trasloco” che potrebbe portare in un orizzonte diverso. Credo che se una donna disabile ha il coraggio di “dirsi” e di “raccontarsi” in tutte le sue sfaccettature, anche nel piacere faticato e doloroso che può ricavare dal raggiungimento della propria autonomia, credo che questo possa “traslocare” se non direttamente lei stessa, certamente le altre generazioni che verranno dopo di lei, perché in qualche modo è come se tutta la società “traslocasse” in un orizzonte più vasto.
Sarebbe poi interessante che questi percorsi venissero conosciuti in modo più ampio anche nei mass-media, ancora troppo intrisi di pietismo, che dovrebbero accogliere storie in cui le persone si raccontano pure con autoironia.
Lei insegna da più di vent’anni a degli adolescenti: com’è cambiata in questo periodo l’attenzione dei ragazzi e delle ragazze ai problemi sociali, alle dinamiche del gruppo?
Fino al ’91, fino alla Guerra del Golfo, le persone si interessavano del sociale, della politica, ma proprio allora, forse, hanno toccato con mano che non si poteva fare molto di concreto, e da allora sono diventati più chiusi nella loro interiorità.
Ho poi visto crescere progressivamente gli stereotipi sul “maschile” e sul “femminile”: l’identificazione del maschile con il non studio, una maggiore “incuria” rispetto al mondo circostante, volgarità nelle relazioni interpersonali, menefreghismo, tutte cose che in realtà nascondono grande fragilità…
Ho visto perciò approfondirsi questi schemi, con le ragazze più silenziose, chiuse in sé, in classi più ordinate e curate (anche dal punto di vista delle relazioni interpersonali), mentre i ragazzi sono in aule più disordinate, anche sporche, con meno rispetto e all’insegna quasi della “legge del più forte”. Stereotipi, purtroppo, sempre presenti nell’immaginario dei genitori – talora anche involontariamente – con la costante preoccupazione che i maschi non si “femminilizzino” troppo… E stereotipi nutriti a volta anche dalla chiusura mentale di certi colleghi…
Ma cosa chiedono in classe questi ragazzi e ragazze?
Se si è capaci di ascoltarli, chiedono di tutto, dalle questioni legate all’interiorità a quelle pubbliche, anche politiche. Io ho sempre preferito dichiarare “da che parte stavo”, anche politicamente, e in questo senso mi viene ancora in mente la disabilità, dove pure lì c’è qualcosa che non si può nascondere e se lo si accoglie, questo può facilitare gli altri.
A me preme che tutti i ragazzi imparino a star bene in classe, apprendano un po’ di cose e incomincino a relazionarsi con il mondo, al di là di come uno si presenta, anche se dichiara di non pensarla come te – in classe ho avuto addirittura allievi nazi-skin. Non è facile, certo, accogliere, nel senso pieno del termine, qualcuno che non la pensa come te, ma credo che la scuola in questo debba avere una funzione fondamentale. E quando tu li accogli, loro chiedono, ascoltano, provocano anche, ma perché sono alla ricerca di una relazione autentica con il mondo adulto e in questo rappresentato una grande ricchezza.
In definitiva, quindi, si può dire che, al di là delle differenze legate al contesto esterno che muta, si può dire che quando uno cresce, in qualunque epoca, ha bisogno di un mondo che sia in qualche modo percorribile e può succedere che in un mondo già tutto “sistemato”, “a posto”, in cui i ragazzi non possono dire la loro, a volte tendano a “deturpare”, “a lasciare un segno” non sempre piacevole…Ragazzi e ragazze hanno bisogno di spazi in cui assumere progressivamente le responsabilità della cittadinanza.
E come cambia l’approccio dei ragazzi rispetto alle problematiche della disabilità?
La conoscenza in questo ambito è poca, la sensibilità invece ci sarebbe, ma qui il volontariato, inteso in un certo modo, rischia a volte di provocare vere e proprie “tragedie”. Cerco di spiegarmi meglio, spesso passa l’idea che i disabili siano quei “poverini” che il volontariato provvede ad aiutare, la logica delle buone azioni insomma… Una specie di “sistemazione” anche qui, come se la società avesse deciso che di queste “belle, buone, simpatiche e sorridenti persone” che sono i disabili, se ne occupasse il volontariato, e fine del discorso…
Questo può portare a grandi danni nei ragazzi che rischiano di crescere con un’idea distorta come la seguente: “Vado ad aiutare la ragazzina Down perché mi fa il sorrisino e io mi sento meglio…”. E’ una visione un po’ dura, me ne rendo conto, ma credo fermamente che il volontariato si debba fare perché ci piace farlo e non per la voglia di una buona azione e che i disabili siano cittadini che hanno diritto a servizi adeguati e qualificati.
Nel mondo dei sentimenti invece, amicizia, amore, non ci può essere che reciprocità.