Non leggo i giornali tutti i giorni e per fortuna, come milioni di donne italiane, sono lontana dal dibattito giornalistico che crea e coltiva i suoi personaggi anche quando hanno ben poco di significativo da dire, ma oggi non posso tacere.
All’inizio degli anni ’90 alcune femministe-doc, quelle ascoltate nelle sale, interpellate dai giornali e perfino riconosciute dall’accademia, decretarono che il patriarcato era morto, dovevamo smetterla di raccontare le nostre tribolazioni e sventolare invece i tanti successi che potevano costellare le nostre vite, bastava lo volessimo.
Intorno a me invece le cose si facevano più complicate, le ragazze andavano a scuola, con risultati spesso migliori dei maschi, ma l’istituzione non mutava né forma, quella inventata dai Gesuiti per allevare le classi dirigenti, né contenuti, rigorosamente neutri e quindi totalmente deprivati di presenze e pensiero femminili, né metodi, prevalendo ancora e sempre la trasmissione cattedratica e la ripetizione “rielaborata” della lezione.
Si cominciava a demonizzare il ’68 e a considerare fuorvianti le pedagogie cooperative mentre la modernità sarebbe stata tradotta ben presto nella forma aziendale con il mito della produttività e l’esaltazione della competizione.
“Cresceranno deliziose maschiette” temeva profetica Lidia Menapace.
Il modello maschilista ripromosso nella libertà senza confini seminava bullismo fatto di piccole/grandi angherie, plateali violenti litigi, nuove emarginazioni, attraverso le trasmissioni pomeridiane seguite soprattutto da bambine e ragazze, che ovviamente apprendevano.
Ci tenevamo con fatica gli spazi aperti dalle politiche di Pari Opportunità, ma venivamo guardate con commiserazione dal nuovo rampantismo femminile che si faceva largo nella politica assoggettando di buon grado corpi e menti alle richieste della cooptazione maschile.
Intanto anno dopo anno si conviveva con le guerre della porta accanto insieme a quelle del mare nostrum, si preparavano leggi ignobili sull’immigrazione, il razzismo ridiventava un’opinione, il fascismo (non intero, ma segmentato opportunamente nel corporativismo, familismo, giovanilismo ecc.) ridiventava un’opportunità, si preparava lo smantellamento della sanità pubblica e il welfare cominciava a ridiventare assistenza.
Il patriarcato era morto e chi cercava di documentare una diversa opinione non faceva audience, intanto si promuoveva il precariato, così il lavoro si faceva più faticoso, soprattutto per le donne, una minoranza faceva carriera (molte perfino per meriti propri!), ma un’altra cospicua minoranza di donne moriva prima di sbarcare sulle nostre coste, sulle strade vedevamo le ragazze vittime della tratta e il mortificante termine badanti registrava nuove forme di sfruttamento femminile chiuso dentro le case e nel silenzio delle coscienze.
Nel frattempo per il numero di donne ammazzate da mariti, amanti, parenti abbiamo dovuto coniare il termine femminicidio.
Sarà perché vivo nella provincia della provincia, ma a me le cose sembrano sempre più complicate: dalla decretata fine del patriarcato ho visto crescere la violenza, nelle relazioni umane, nei luoghi di lavoro, nei posti di ritrovo, al supermercato come agli incroci delle strade.
L’arroganza di Marchionne e quella dei padroncini che delocalizzano per garantirsi la possibilità dello sfruttamento, quella del mercato e quella delle istituzioni occupate spesso da politicanti corrotti o semplicemente ignavi, quella del vociare televisivo e quella di chi si astiene volontariamente dal pubblico servizio autodefinendosi obiettore (solo per l’aborto), quella della carità pelosa e delle scuole private dove si rinchiudono bambine e bambini a competere senza il disturbo dei migranti, la violenza degli insulti diventati linguaggio corrente e quella delle sberle che imprimono sui corpi nuove subalternità, quella ossessiva della fiction e quella legittimata delle parentele, quella feroce della mafia e quella ripulita dell’evasione fiscale, quella bianca delle morti sul lavoro e quella nera dei morti di freddo. E sempre la condizione delle donne che peggiora.
“L’anniversario di Piazza Fontana, (il giorno in cui sono diventata grande) i marines sbarcano in Somalia, madre Courage percorre ancora l’Europa con le sue mercanzie mentre i suoi figli muoiono uno ad uno” scrivevo in un libro che ho pubblicato nel ’98.
La morte del patriarcato sembrava sposarsi bene con la Milano da bere coniando per la vita delle donne la curiosa tautologia per cui la libertà ti rende libera, la dichiarazione, il sentimento personale e non l’autonomia, il lavoro, l’esercizio dei diritti, la pienezza della cittadinanza dalla nascita.
L’ambigua legittimazione della violenza di cui si parla assomiglia molto alla condiscendenza nei confronti della cultura che ha vinto in questi ultimi vent’anni proponendo i muscoli, i corpi armati, la forza della sopraffazione, il confronto cruento, la ricerca del capro espiatorio, la cancellazione della legge come terreno di condivisione, ed è certamente un pensiero conseguente con quella morte decretata della cui lunga agonia noi contiamo le vittime tra le donne.
L’emancipazione imitativa non è una proposta nuova, si è presentata più volte nel secolo scorso proprio con il fascino ambiguo di una realizzazione di sé che per negare lo stereotipo femminile assume quello maschile come se fosse neutro, usando spesso proprio la violenza come terreno su cui misurare la raggiunta parità.
Ogni volta le prime vittime sono state donne, la loro libertà, la loro autonomia, i loro diritti. La nostra libertà autonomia diritto.
Abbiamo bisogno di luoghi in cui imparare ed esercitare la democrazia e non di nuovi ring per pugni femminili.